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Il cinema dell'interpretazione - analisi

Ultimo Aggiornamento: 09/04/2011 10:34
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Post: 529
Sesso: Maschile
09/04/2011 10:34


Quando lo spettatore diviene attore... Elogio di un cinema dell'interpretazione


In un presente parallelo, dove giocare ai videogame significa immergersi in una realtà virtuale tramite un connettore spinale, Allegra Geller è considerata una delle migliori game designer sulla piazza. Accade però che durante la presentazione della sua ultima creazione, "eXistenZ", una cellula ribelle sostenitrice del "movimento realista", attenta alla sua vita.
Sarà l'ignaro addetto alle pubbliche relazioni, Ted Pikul, che di realtà virtuale è totalmente a digiuno, a portare in salvo la donna ferita e l'unica copia del gioco, anch'esso lesionato a seguito dell'azione criminale.
La sola maniera per assicurarsi della sua integrità sarà quella di dare inizio ad una partita...
Entrare nel gioco sarà poi come entrare nella mente di Cronenberg, fronteggiare quelli che da sempre sono i suoi feticci, perdersi, ritrovarsi per poi perdersi nuovamente tra i piccoli indizi che il regista canadese dissemina qua e là nello sviscerarsi della trama. Tanto che quella che all'inizio sembra una partita a due, un'esclusiva dei soli protagonisti, finisce poi per coinvolgere lo spettatore, quale vero interprete delle sfumature che l'intreccio filmico assume col succedersi di ogni sequenza. È questo estremo slittare da un piano del significato ad uno del significante, questo regalarsi ad un simbolismo estremo per lasciare che sia poi il destinatario ad inventarsi nuovi sensi della realtà, che rendono l'intero film un'opera interattiva a più livelli.
Nonostante il soggetto non spicchi in quanto ad originalità, fatta eccezione per alcuni momenti decisamente gustosi, il tutto muove da un concetto immenso quanto affascinante: l'estrema difficoltà nel discernere ciò che è reale da ciò che non lo è.
Il gioco, la realtà virtuale, è solo uno specchio per le allodole, un espediente del regista per palesare il vero concept da cogliere, nel quale immergersi. Il senso metaforico che vi è celato sembra rimandare indirettamente ad un antenato del regista, il drammaturgo De La Barca, che si divertiva nel guardare il suo protagonista dilaniarsi nel perpetuo domandarsi se la vita fosse sogno.
Nessuno me ne voglia per l'ardito confronto tra cinema e teatro, che poi tanto azzardato non è se si pensa che il vero comune denominatore di entrambi gli artisti, così lontani nel tempo l'uno dall'altro, è l'illusione! A sottolinearlo il quesito ricorrente che troviamo nei dialoghi del film "Siamo ancora nel gioco?", una domanda ben scandita sempre e comunque, quasi rivolta in macchina, un velato ammiccamento che il regista rivolge al pubblico, rafforzando quell'idea di interattività che solo pellicole dai toni fortemente intimisti e psicanalitici possono permettersi. Tuttavia, come sottile è la linea di demarcazione tra realtà ed illusione, anche il salto tra una chiave di lettura interiore ed una molto più viscerale è breve.
Se l'illustre collega Lynch, fautore di un cinema molto vicino a quello cronenberghiano, ha sempre prediletto uno stile prettamente visionario, il regista canadese sfrutta canoni molto più empirici. Nessuna esitazione nel mostrare carni dilaniate, animali squartati e sangue, tanto e rosso. Perché è vero sì che il sangue è rosso, ma quello di Cronenberg, come direbbe Orwell, è più rosso degli altri! Ogni ferita pretende e ottiene il proprio primo piano, ed il liquido ematico, quasi come un vecchio attore di indubbia fama, gigioneggia davanti alla macchina da presa, si mostra senza remora nel costante tentativo di evidenziare un'etica del corpo come specchio della fragilità umana.
Paure, insicurezze, dolori fisici e psicologici, timore dell'ignoto e terrore del reale: Ted Pikul è l'incarnazione impressa su celluloide di tutto questo, col suo continuo muovere incerti passi in avanti, col fare di chi è convinto che prima o poi incontrerà un crepaccio. E sul ciglio del burrone si trova affiancato da una nemica-amica - del resto ogni gioco è sinonimo di competitività - che lo spinge verso il vuoto e lo afferra per il rotto della cuffia ad un tempo. Binomio contrastante di una personalità complessa che trova nell'interpretazione di Jennifer Jason Leigh, algida e imperscrutabile, l'immagine perfetta della donna moderna, forte e consapevole. In secondo piano un Jude Law che avremmo desiderato un filo più sorpreso del mondo che gli sta sfuggendo di mano. Del resto dovrebbe essere non poco singolare scoprirsi assassini navigati, o esperti conoscitori di ingegneria genetica.
Quest'ultima tematica svolge un ruolo non indifferente nel dar spessore al film. Cronenberg ha pensato bene che parlare di realtà virtuale avrebbe traghettato il pensiero direttamente verso la sfera informatica, cosa che si guarda bene dal fare inserendo nel piano narrativo un tratto di inconfondibile originalità: il gamepod.
Tramite un cavo, simile ad un cordone ombelicale, inserito nella spina dorsale, questo dispositivo costituito da materiale semiorganico invia impulsi direttamente al cervello.
Con un agile balzo egli scavalca l'idea ormai di seconda mano, rappresentata dalle intelligenze artificiali, per riportare l'uomo verso se stesso anche se attraverso un'ottica decisamente futuristica: i gamepod sono strabilianti prodotti dell'ingegneria genetica.
Senza un ponte, senza una linea di demarcazione capace di dividere l'uomo dall'esperienza alternativa, il gioco diviene un tutt'uno col giocatore e l'esperienza ludica è vita quanto la vita stessa rappresenti un gioco.
Il tutto per merito di un foro alla base della schiena che in ogni inquadratura mostra se stesso con divertita tracotanza, conscio del ruolo sotteso che l'estroso regista intende attribuirgli. Sessuale ovviamente, e non poteva essere altrimenti alla luce dei precedenti lavori: ogni momento in cui i protagonisti volgono attenzioni alle proprie "bioporte", questo il nome degli impianti spinali, li troviamo eccitati, frementi, anche spaventati ma indubbiamente in balia di una forza superiore che li richiama a sé... che poi nella realtà filmica si tratti di gioco e non di sesso è solo questione di grande attitudine nel mediare le percezioni umane, arte che Cronenberg svolge con gran mestiere. Maggiore onore al merito quando si pensa alle sue scelte formali, che lo collocano in quel girone infernale di questi tempi decisamente desolato, dove trovano posto i sostenitori di un cinema dell'assenza.
Perché l'arte non ha bisogno tanto di mostrare, quanto di dimostrare: l'effetto speciale è un ospite poco gradito all'interno delle inquadrature che si succedono in eXistenZ, perfino le scene in automobile sfruttano il vecchio trucco dello sfondo in movimento. Un'economia dei mezzi che lascia spazio ad una ricchezza di contenuti, una supremazia di quest'ultimi sui primi chiaramente voluta, atta a creare una linea gerarchica anacronistica visti i tempi che corrono.
Tempi bui per chi come Hitchcock trova inutile mostrare una porta quando potrebbe benissimo limitarsi a mostrare una maniglia con risultati decisamente più esaltanti.
Nell'attesa di un nuovo avvento del parziale gustiamoci questa lezione di cinematografia old style, che al di là di tutti i pregi che le sono propri, sia formali che intratestuali, trova nel rispetto verso lo spettatore il suo punto di forza più marcato. Rendere il fruitore parte attiva e debitrice di senso all'intreccio filmico, significa permettergli di abbandonare un ruolo che lo relegava ad una posizione di subordinata passività.
David Cronenberg si dimostra capace di far sì che lo spettatore si alzi dalla propria poltrona per protendersi verso tutto ciò che il cinema può essere in grado di esprimere. Pochi cineasti oggi possono dirsi capaci dello stesso miracolo.
Romina Perugini, terrediconfine.eu
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