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Cristalli di carne - analisi

Ultimo Aggiornamento: 08/02/2011 19:32
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08/02/2011 19:32


CRISTALLI DI CARNE


«Nei miei film il corpo è sempre al centro.
Gli giro intorno come fa un pianeta col sole.
Non me ne allontano mai».
(David Cronenberg, 1992)

Con Eastern Promises David Cronenberg realizza il suo primo gangster movie. La cornice è una Londra dei giorni nostri, trasfigurata da una spettralità fuori tempo (la sceneggiatura è firmata dall'inglese Steven Knight, che nel 2003 ha scritto Piccoli affari sporchi, diretto da Stephen Frears e anch'esso ambientato nella capitale britannica, nel disperato sottobosco degli immigrati clandestini). Il microcosmo su cui s'incardina la narrazione è una famiglia di vory v zakone, l'aristocrazia criminale russa. Cronenberg prende la materia di petto - inscenando riti e codici dell'universo sontuoso e brutale dei vory, sguazzando in un limbo pancriminale - e opera nel verso che gli è più congeniale: corporeizza il genere, lo inflette sulla carne. Carne rossa, carne nera, carne fredda come il metallo, carne fasciata da pagine di pelle tatuata con la presunta storia di un uomo. Lo abbiamo già sperimentato: gli occhi del cineasta della "nuova carne" sanno guardare alla vecchia, la carne del soltanto-umano, con la stessa forza perturbante.
A fare da preludio a questa immersione trasformante nel gangster movie sono i lampi di malavita che inframezzano A History of Violence (2005). A riguardo, s'impone un distinguo: se là il demone dell'inquietudine serpeggia nelle retrovie del visibile e lavora a livello endocutaneo, opera cioè sotto la pelle di immagini e corpi che sentiamo manovrati da forze oscure, stavolta l'involucro carnale torna a squarciarsi sotto i nostri occhi, l'interno dei corpi riprende a far capolino all'esterno, sporcando il genere con una truculenza del particolare che non gli appartiene. La vita che lotta attraverso un respiratore in un feto ancora bluastro e gelatinoso, i dettagli di scannamenti e mutilazioni, le metamorfosi di un corpo prima sgozzato, quindi messo in ghiacciaia, poi scongelato con un phon e reso anonimo da un tronchese, infine gettato in ammollo nel Tamigi... sono effetti speciali piuttosto riconducibili all'horror, da cui il regista proviene, effetti che qui troviamo calati in un'aura noir, considerando il noir - più che un genere in senso stretto - un'atmosfera la cui placenta è la notte, una dimensione che si modula sull'ambiguità morale di un protagonista sospeso tra due mondi.
Tirando le fila, Eastern Promises si dà come gangster movie sui generis, contaminato com'è da retaggi eterogenei e performato dallo stile gelido e ustionante del cineasta. Ed è il primo film di gangster dove non si vede una sola pistola, dove non si sente esplodere un solo colpo. Elemento di originalità non da poco, essendo la pistola lo scettro e l'emblema del gangster, superuomo deviante dal cuore nero, dominatore della metropoli immaginaria. La distanza che si apre tra una canna di metallo e un corpo è soppressa, l'azione offensiva si ravvicina, la carne viene sfregiata esclusivamente da armi bianche, tra le quali spiccano i larghi e corti coltelli a punta ricurva dei killer ceceni. Strani coltelli, fuori dal comune. Del resto, non è una novità l'atipicità degli strumenti con cui il regista di Videodrome (1983) incide la carne dell'immagine, sia per offendere la polpa del corpo che per indagarla. Basti pensare alle pistole organiche di eXistenZ (1999) e agli arnesi per uteri triforcuti di Inseparabili (1988), collezione peraltro evocata dal primo piano del kit di tattoo machines con cui vengono apposte le "stelle" sulla pelle di Nikolai. Da superbo chirurgo qual è, Cronenberg sa che i nostri occhi non si limitano a contemplare lo squarcio, sa che già la forma della lama ci fa sentire il grado di resistenza del didentro, il grido dei tessuti che le stanno cedendo. Si può definire questo processo come metonimia (il traslato che esprime dipendenza: si mostra la causa o il mezzo per rendere l'effetto, l'arma per il danno fisico e il dolore che provoca): una metonimia del sensibile.
L'esibizione del corpo, in Cronenberg, non è mai scevra da implicazioni sessuali. Una sessualità malata è il siero che irrora gli ingranaggi del film. Tutto ha inizio con lo stupro di Tatiana (una quattordicenne prigioniera della mala, imbottita d'eroina e usata come oggetto di piacere) ed è il "difetto sessuale" di Kirill a innescare i presupposti che consentono la scalata criminale di Nikolai. Il "principe" Kirill - figlio del boss Semyon, il "re" - è una checca. Tra i sinonimi a disposizione, il termine inglese che Nikolai usa per stigmatizzarlo è queer, sostantivo che suona come una cripto-allusione a Queer, romanzo di William Burroughs, eroe di Cronenberg, edito in Italia coi titoli Diverso (SugarCo) e, appunto, Checca (Adelphi). L'omosessualità latente del "bravo ragazzo" è uno dei temi sotterranei del gangster movie, costante intra-vista fin dai primi passi del genere, fin dal rapporto tra Cesare e Joe nel prototipo, Piccolo Cesare (LeRoy, 1929), chiave che peraltro ha legittimato nel tempo non poche forzature ermeneutiche. In quest'ottica, il gangster - in quanto macho al quadrato - assurge a portatore di una virilità ipertrofica, incapace d'appagarsi nella donna, bisognosa di estendersi in forma di dominio sul corpo di un altro uomo (ed è un meccanismo rispetto a cui sono significative tanto le risapute dinamiche tra galeotti, quanto i romanzi di Jean Genet). Esplicitare questa latenza costituiva un'occasione troppo ghiotta per Cronenberg: «Mi attira molto l'omosessualità perché è una forma di sessualità "inventata", non giustificata biologicamente, mentre l'eterosessualità ha sempre come scopo ultimo la riproduzione. Mi interessa soprattutto il momento in cui gli uomini si lasciano l'evoluzione e la biologia alle spalle e vanno oltre: in questo senso mi sembra che la forma più pura di sessualità sia l'omosessualità, perché non ha altra giustificazione che se stessa» (“Cahiers du Cinéma” n. 416, febbraio 1989). È l'incapacità di Kirill di sverginare Tatiana a provocare l'intervento del re, il quale mostra al principe cos'è un maschio, ficcando nel corpo della schiava il seme di un futuro schiavo. L'omosessualità di Kirill è un segreto di Pulcinella. Ciononostante, chi l'ha svergognato deve morire. Nessuno può dare al principe della checca. Il concetto di onore è fondamentale nel Vorovskoi Zakon, il codice dei vory. Di una checca in quel mondo non ci si può fidare. È con questo pretesto che Kirill ordina a Nikolai di scoparsi davanti a lui una prostituta strafatta, e Nikolai fa il suo dovere, dimostra di essere meritevole di fiducia, mentre Kirill lo osserva con occhi eloquenti della brama che gli cresce dentro. Forte della bravura di Viggo Mortensen e Vincent Cassel (per apprezzarne fino in fondo la prova andrebbero ascoltati in lingua originale), il regista costruisce, con ricchezza di sfumature, un legame virile dove obbedienza, desiderio e amicizia convergono in un contrastato sentimento che non valica la soglia dell'analità, ma vive tra i poli del comando, del voyeurismo e dell'abbraccio fraterno, un abbraccio dove la maschia irruenza sa cedere il passo a una tenerezza capace di evocare, senza forzature, i contatti fisici tra i gemelli Mantle, che si lasciano morire l'uno tra le braccia dell'altro (Inseparabili), e le coccole che si scambiano i fratelli Cusack, prima della carneficina in cui il minore accoppa il maggiore (A History of Violence). Kirill, infine, tradisce il padre padrone per allearsi col fratello elettivo. Cronenberg, ancora una volta, dimostra attenzione e delicatezza nel ghermire e mettere su celluloide quel che passa tra due uomini.
Il rito sovrano nei sistemi criminali strutturati - e di conseguenza nell'immaginario gangster - è l'affiliazione. Cronenberg fa ruotare il battesimo vory di Nikolai intorno al suo corpo nudo e tatuato. Ogni tatuaggio rappresenta un simbolo - trofeo o marchio infamante - che un uomo ha avuto la forza o la viltà di guadagnarsi sulla propria pelle.
Un significato simile il tatuaggio lo riveste presso gli yakuza giapponesi: dragoni serpenti samurai sono segno di appartenenza inalienabile alla ikka o gumi, il clan. Questo passaporto in corpore la mafia russa lo rilascia prevalentemente in prigione, principale scuola di reclutamento dei vory (è nei campi di concentramento staliniani che il "sistema" ha mosso i suoi primi passi). «Nelle prigioni russe la storia della tua vita è scritta sul tuo corpo, coi tatuaggi. Se non hai tatuaggi non esisti», afferma lo sbirro che indaga sul ritrovamento del corpo senza dita e senza denti del vory che ha parlato troppo. L'inchiostro che ha preso forma sulla pelle di Nikolai ne svela dunque il vissuto e la dignità criminale. La sua consacrazione malavitosa si svolge secondo codice, col sedicente autista che ostenta il suo autorevole pedigree carcerario e proferisce le formule di rito davanti al consiglio di capoclan che lo interpella. L'ingresso nell'elite criminale è impressa da quattro stelle: due sulle ginocchia (per non genuflettersi davanti a nessuno), due sui deltoidi (a splendere su un cuore temprato nella disciplina del distacco). Nei totali e nei dettagli del corpo di Mortensen sotto l'ago del tatuatore trasuda, quintessenziato, l'algido e raffinato estetismo tipico di film come Inseparabili, Il Pasto Nudo (1991), M. Butterfly (1993), Crash (1996), Spider (2002). L'intera sequenza è una perla sinestesica e sintetica della collaborazione quasi ventennale col direttore della fotografia Peter Suschitzsky e di quella quasi trentennale col compositore Howard Shore e la scenografa Carol Spier. Oltre che un'apoteosi del corpo raffigurato in fase di stasi. Almeno quanto la lotta nella sauna ne è un tripudio dinamico.
Quest'ultima scena madre rappresenta un'evoluzione delle tre carneficine di cui è artefice Joey/Tom (sempre Mortensen) in A History of Violence. Anche qui, il meccanismo di suspense viene spinto verso un parossismo che deflagra, non appena scocca l'istante della violenza, in una concitata danza di morte. Un'evoluzione coreutica e fisica, incrudelita com'è da un corpo a corpo di rara crudezza. Nikolai ci appare come un verme che si risveglia di colpo in un tritacarne. Alla fine la scampa. Ma che sforzo sovrumano troncare il respiro dei due bestioni ceceni in giacca di pelle, risoluti a farlo a fettine. E quanta adrenalina può scorrere tra una coltellata e l'altra - si rischia quasi la sindrome di Stendhal. Nella filigrana di questo plot point, si può scorgere un omaggio all'assassinio nel bagno turco di Otello (Welles, 1952), un po' come il combattimento sotto la pioggia di Zatoichi (Kitano, 2003) tira in ballo Yanalogon dei Sette samurai (Kurosawa, 1954). Come Welles, Cronenberg impernia la scena su un magistrale lavoro di montaggio (chapeau quindi a Ronald Sanders, altro collaboratore di vecchia data), ma con una differenza sostanziale: mentre in Otello un decisivo ruolo cadenzante, oltre che figurativo, è affidato alla lucentezza della spada di Iago che cade a ripetizione contro un corpo fuori campo e alle lame di luce che filtrano attraverso le tavole di legno sotto cui si trova la vittima, in Eastern Promises a svolgere una speculare funzione di cesura ritmica sono i pugni, i calci, le ferite che si aprono, le coltellate che fendono l'aria, insomma: quel che s'impatta sul corpo o, sferratogli contro, lo sfiora. Detto altrimenti: dove Welles stilizza (espressionisticamente), Cronenberg fisicizza (realisticamente). All'apice di questa convulsiva e travolgente rapsodia macellala, il cineasta suggella cercando quell'effetto di veracità che solo la durata incorrotta dai tagli di montaggio è in grado di conferire alla messa in scena, conclude in pianosequenza. Stesi gli antagonisti, Nikolai mezzo morto si trascina carponi nel bagno di sangue, e mentre arranca su uno dei due, la cui massa immota ostacola la sua avanzata, il ceceno lo afferra al collo con un guizzo improvviso. Per finire il redivivo occorre un'ennesima stretta fratturante e un ultimo affondo nella carne, inferto a mo' di distanziata variazione bunueliana: una pugnalata nell'occhio. Si tratta di un culmine la cui brutalità è affine a certi momenti (in pianosequenza) di Gaspar Noè (la "vendetta" in Irreversible, 2002), Bruno Dumont (lo stupro in 29 Palms, 2003), Michael Haneke (il suicidio in Cachè, 2005), ipotesi di cinema peraltro divergenti.
Nella sauna la parabola gangsteristica tocca il suo picco. Subito dopo, Cronenberg abbandona il genere e affretta verso l'epilogo a colpi di ellissi vertiginose. In ospedale Nikolai svela la sua identità: è un infiltrato dell'Fsb (Ufficio Federale di Sicurezza, dal 1991 l'equivalente funzionale del Kgb sovietico), con la missione di addentrarsi nel sistema e minarlo, se non sgominarlo. L'ultima inquadratura del film - Nikolai "intronato" nella reggia al posto del capo e ammantato da tutti gli attributi della regalità criminale - ci lascia presumere che egli abbia portato a termine la sua missione, o sia in procinto di farlo. Ci lascia solo presumere... dal momento che la fase decisiva della sua ascesa gerarchica ci viene occultata, mentre - per di più - il re e il principe spariscono nel nulla, senza enfasi adeguata alla statura dei personaggi, inducendoci a supporre che il primo sia stato arrestato per stupro (un'inezia rispetto alla mole delle sue malefatte, come l'evasione fiscale per cui viene incastrato Al Capone) e il secondo sia stato fregato dall'amico/amato, o stia per esserlo. Quello che il cineasta ci serve è dunque un finale di partita spiazzante per un film di genere, un precipitato che da un lato manda a quel paese le convenzioni del gangster movie classico, dall'altro sposta il fuoco sull'ambigua tessitura morale che regola i destini in gioco.
Per quanto eterozigoti, A History of Violence e Eastern Promises sono film siamesi. È il seme di una violenza sdoppiante a determinare la loro condivisione organica. Ma va operato un distinguo: se nell'opera del 2005, la violenza è strumento accidentale quanto necessario per preservare il bene contro l'offensiva del male, in quest'ultimo capolavoro Cronenberg si spinge ancora oltre nell'indistinzione della frontiera tra buoni e cattivi: sdoppiarsi e calarsi nel reame del male è l'unico mezzo efficace per instaurare un bene relativo, sfaccettato quanto il suo rovescio.
Il che avviene senza dissidio interiore manifesto: la dilacerazione che affligge Joey/Tom - provocata dagli opposti consanguinei che coesistono in lui - viene meno nell'ascetico Nikolai, o meglio: viene lasciata fuori vista. Ancora il cosiddetto io pulsa rivendica scalpita nel corpo dell'altro. Ancora di più l'io e l'altro, come il bene e il male, sono legati da un segreto quanto inscindibile vincolo di solidarietà. Alla sua seconda prova col canadese, Viggo Mortensen consolida il possesso di un testimone preso idealmente dalle mani di Jeremy Irons (Inseparabili, M. Butterfly), quello di emblema cronenberghiano del doppio, un doppio che sta per molteplice, un molteplice che prende forma in quell'assemblaggio di organi tessuti liquidi detto corpo, un corpo che come il cristallo non è né opaco né trasparente, è birifrangente, dunque ingannevole. Il corpo è un gran mentitore. I tatuaggi sul corpo di Nikolai sono una bugia. Egli opera sotto mentite spoglie. È perciò legittimo chiedersi: ammesso (e non concesso) che ve ne sia una, dove va cercata e stanata la verità secondo Cronenberg? Di sicuro non in Dio. E neanche nel corpo, figlio impuro della madre notte, bastardo che della superba luce si fa bello, una luce della quale intercetta il passaggio, assorbe gli irraggiamenti, li rifrange, una luce insieme alla quale è destinato ad andare in rovina, come si augura Mefistofele nel "Faust" goethiano. Qualcosa ci dice che la verità non è questione di presenza, né di essenza. Qualcosa ci suggerisce che essa s'aggira guardinga nelle contrade dell'azione, in qualche anfratto remoto tra l'umano il subumano il postumano il bestiale il minerale... mutante che si dimena tra un bene e un male (con)fusi tra loro dall'acido della violenza. Una violenza sempre più intrinseca all'immagine. Un acido corrosivo come il rigurgito di un uomo-mosca.
Jonny Costantino, Cineforum n.471

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