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Ambivalenza, sesso e violenza - alcune analisi

Ultimo Aggiornamento: 04/07/2010 14:28
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Sesso: Maschile
04/07/2010 14:28


Ambivalenza, sesso e violenza

Le sparatorie sono acrobazie, le uccisioni armonie di movimento e sangue. Non c’è orrore in nessuna delle azioni violente compiute da Tom, ma una freddezza da ammirare, una precisione estetica che rende belle quelle immagini. Il suo corpo è veloce, sicuro, si flette e si stende come se stesse facendo l’amore. E così, quando fa l’amore con la moglie, sembra che la stia violentando: il dolore delle dure scale di legno sotto i loro corpi che si battono e sbattono per terra sembra ingigantire l’eccitazione. Quando la violenza riaffiora alla mente di Tom, il suo corpo ne percepisce la potenza e diventa un corpo sessuale, sempre aperto, all’erta, eretto in ogni momento: ogni volta che uccide il sangue lo ricopre interamente, i suoi vestiti si impregnano di rosso e di pezzi di corpo, non riesce mai a evitare quegli schizzi sulla sua faccia. Non può, non vuole, perché quello è il suo cibo. Come l’amplesso invade i corpi di liquidi organici, così l’orgasmo della violenza sono la morte e la devastazione compiute sui corpi. Dei morti, ma soprattutto dei vivi.
Come David Cronenberg ci ha stimolato a vedere, spesso è l’epidemia incontrollata a distruggere una comunità, una città, una famiglia. E, anche in questo caso, l’esplosione di morte contagia velocemente tutti gli Stall, come un virus. Come nel padre, anche nel figlio la violenza si trasforma in una atto elegante, con un valore eroico e emancipatorio. Nella moglie la rabbia e il dolore si trasformano nella consapevolezza dell’eroticità della violenza. Nella figlia piccola il morbo agisce in modo diverso: forse l’atto di violenza più disastroso è quello dell’accettazione all’interno della normalità, della cena famigliare, dell’elemento schizoide che si è impossessato di tutti. Ma forse la piccola, nella sua più totale, presunta, innocenza, potrebbe essere la causa scatenante delle morti successive: è lei, infatti, a sognare i mostri d’ombra, quel piccolo e letale nucleo famigliare, padre e figlio, che distruggono ogni forma di vita che incontrano. I due folli, che scateneranno la violenza in Tom, sono appagati dalle uccisioni commesse: introdotti dall’occhio calmo e morbido del regista, camminano lenti e pesanti, consapevoli del piacere che scorre nelle loro vene; languiscono sotto un sole cocente e dentro la sensazione post-orgasmica dell’assassinio.
Si possono amare profondamente la messa in scena della violenza, senza colonna sonora, ma con il freddo effetto sonoro delle pistole che esplodono, delle teste che si aprono, dei polmoni annaspanti nella morte; si può rimanere incantati a fissare i grandi primi piani, volti immensi davvero messi sotto la lente di ingrandimento, volti-simbolo. Si possono adorare i volti distrutti dalle pallottole, brevi fotogrammi dove si vede e si riesce a comprendere. Immagini che delineano il nuovo panorama, la nuova realtà che da interna si è fatta esterna e va a posarsi sulle facce distrutte di chi sta morendo. Ma mancano all’occhio le penetrazioni di cui Cronenberg è capace, l’assoluto del corpo come principio e fine, il significato della sua trasformazione, visibile, mostruosa, doppia, incrociata.
L’estromissione fisica di tumori, appendici, ferite, protesi, simboli fisici di un’interiorità mai rappresentata. Strumenti, lamiere, accoppiamenti di sessi e oggetti, mutazioni, bubboni: il corpo come oggetto manipolabile manca alla vista, il bisogno di riempirsi del suo orrore e del suo fascino chiama; mancano le forme del suo cinema, bellissime forme cronenberghiane; le estremità corporali delle sue immagini sono fuori campo, si sentono, ma non si vedono. E l’occhio orfano piange.
Francesca Bertazzoni, hideout.it



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Più che una storia sulla violenza il film di Cronenberg è una storia sull’ambivalenza, essendo incentrato più precisamente sul tema dell’identità.
All’inizio del film c’è una perfetta corrispondenza tra l’opinione che la famiglia del protagonista, nonché l’intera comunità, lega al nome di Tom Stall e la sua essenza. La persona chiamata Tom infatti, è benvoluta da tutti, ed effettivamente incarna in sé i valori dell’onestà e dell’affidabilità. Fino a quel momento per tutti Tom = Tom, nel senso che i valori morali legati a questo nome rispecchiano la persona così denominata. “Sei l’uomo più buono che abbia mai conosciuto” gli sussurra la moglie in un momento di intimità.
Poi la svolta: un atto eroico per difendere i colleghi di lavoro da un’aggressione. Un atto violento rivelatore di un passato negato. Il protagonista ha cambiato vita senza lasciare tracce di sé. Non ha parlato della sua conversione con le persone appartenenti al suo passato. Non ha parlato del suo passato con le persone a cui ha scelto di dedicare il suo futuro. Tom si è rifatto una vita per negare la perdita di sé.
Da questo momento Tom viene chiamato con un altro nome; da questo momento iniziano non solo le azioni violente del protagonista, ma anche l’ambivalenza affettiva da parte dei suoi cari, che non riconoscono più nella figura familiare un esempio morale. Ecco che si insinua il dubbio, e il senso di smarrimento e di confusione iniziano a dominare sul senso dell’affetto e del rispetto. Da allora Tom non è più Tom, ma viene chiamato Joey, e le sue azioni passate, presenti e future, per tutto il resto del film, verranno legate al nome di Joey. Tom da quel momento diventa diverso da se stesso, Tom ≠ Tom.
Che senso avranno dunque i rimproveri del protagonista al figlio, colpevole di aver picchiato un prepotente? Che senso avrà per sua moglie il cognome dei figli avuti da lui? Uno dei momenti più significativi di questa ambivalenza, non solo da parte della moglie, ma anche del protagonista stesso, è il momento in cui, svelata la vera identità di Tom, i due coniugi litigano, si picchiano e poi fanno l’amore. Tom afferra la moglie per il collo, quasi a volerla strangolare, atto che rivela la natura di un uomo profondamente aggressivo. Se fino a un momento prima lei gli aveva tenuto testa, proprio allora decide di abbandonarsi tra le sue braccia, come a significare una resa. Subito dopo lo scalcia e si allontana da lui, volendo assurdamente negare l’atto di intimità che eppure lei aveva voluto.
La scena è l’esemplificazione di un dualismo, di un dilemma interiore: dal giorno della sua redenzione, dal giorno in cui Joey decide di cambiare nome in Tom, il protagonista si è solo sforzato di diventare un’altra persona, ma la sua natura non è stata soppressa. E la moglie d’altra parte, pur scandalizzata ed amareggiata per essere stata ingannata, pur non riuscendo a riconoscere nel marito l’uomo di cui si è innamorata, comincia a prendere consapevolezza e ad accettare di aver sposato un assassino, e per certi versi è persino attratta dalla sua natura violenta.
La stessa ambivalenza psicologica, si riscontra specularmente nella figura del figlio del protagonista. Egli in fin dei conti è il ritratto di suo padre. All’inizio del film viene presentato come un ragazzo pacifico e intelligente, quasi sottomesso. Quando viene provocato dal compagno di scuola, non accetta di ricorrere alla violenza, dimostrando la supremazia della ragione sugli impulsi aggressivi. In un secondo momento però non resiste più e picchia il ragazzo che lo tormenta. Un atto di difesa o di rivalsa? Fin qui solo un gesto premonitore. Poco dopo la sua indole aggressiva si rivela a pieno: egli spara all’aggressore di suo padre uccidendolo. Un atto di protezione o una sorta di emulazione delle gesta paterne? Nella figura del figlio l’ambivalenza è forse ancora maggiore che nella madre: in lui il rancore per essere stato tradito e ingannato è indissolubilmente legato a un sentimento di ammirazione nei riguardi del padre. Per lui un’azione violenta è sentita anche come un atto di coraggio, è l’affermazione del sè contro le altrui sopraffazioni.
C’è un altro tema importante del film, utile a capire il significato della doppia identità del protagonista, ed è quello della sua redenzione. Nel momento in cui decide di cambiare nome in Tom, Joey cambia anche modo di vivere; ma che senso hanno la sua redenzione e la sua espiazione dai peccati commessi se non solo non viene punito dalla legge, ma paradossalmente riconquista la pace familiare così pesantemente minata proprio attraverso l’esercizio della violenza? Per tornare ad essere Tom infatti, il protagonista deve eliminare tutte le persone che lo legano al suo torbido passato, ricominciando a fare l’assassino. Joey in fondo non è mai stato Tom, Joey non è mai cambiato.
Francesca Neri, nonsolocinema.com



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Una regia decisa ma al contempo morbida nell’assecondare il giusto ritmo della storia, la costruzione di uno spazio e di un tempo filmico che ha nella linearità la sua dote migliore e la maestria di un regista che, divenendo tutt’uno con la sua “creatura”, conduce noi spettatori dentro un labirinto di novantasei minuti, in cui fatalità e menzogna assumono il ruolo di forza genitrice di una violenza che ci viene mostrata maturare da una condizione di latenza fino ad una deflagrazione rude e fisicamente tangibile. David Cronenberg aggiunge un ulteriore tassello al suo personalissimo mosaico della mente, del corpo e della condizione umana. Per farlo, parte dalla “graphic novel” di John Wagner e Vince Locke A History of Violence, ma, pur appropriandosi del titolo, sono ben presto visibili i segni di un allontanamento dallo stile del racconto a fumetti; allontanamento che conduce, invece, con naturalezza, il regista verso l’affermazione della propria visione e del proprio paradigma estetico. Sequenza dopo sequenza, Cronenberg restituisce a noi spettatori un senso di immobilità che è il primo artefice di una tensione strutturale e contenutistica che, iniziato il suo evolversi, diventa irrefrenabile. Esplora la mente il geniale regista canadese e lo fa andando a scovare quei demoni che lo hanno sempre accompagnato nella sua ricerca. Cela, dietro l’essenza cinematografica della sua opera, un breve ma intenso ritratto ontologico della natura umana e, nello specifico, del germe della violenza, temibile proprio perché nascosta, letale perché instabile ed improvvisa nella sua manifestazione, endemica perché fulminea nell’appropriarsi di ogni nostro possibile gesto. Il sesso ne diviene così l’espressione più reale e veritiera, perdendo il suo valore d’unione a favore di uno scontro che ha nella penetrazione il suo segno più manifesto. Ed incredibilmente forte è il segno di Cronenberg che rivendica la sua presenza, senza però mai ostentarla, in ogni sequenza, costruendo inquadrature in cui ogni singolo elemento diventa espressione di qualcosa d’altro, rimando ad una visione metaforica del film. Che tutto questo avvenga e si sviluppi all’interno di un nucleo familiare apparentemente privo di contrasti, puntuale riflesso di una società che, egualmente, sembra avere appiattito ogni forma di dissenso è un’ulteriore prova della capacità del regista, oltre che del desiderio, di sconvolgere tutto ciò che in apparenza può sembrare dominato da un’atavica tranquillità ma al cui interno, in realtà si celano le mostruosità del comportamento umano. Facendosi scudo di un gruppo di attori di assoluto valore, Cronenberg tesse l’esistenza dei suoi personaggi in modo cinico, senza mai abbandonarsi ad attimi di intangibilità ma, al contrario, puntuale e spietato nell’onestà della propria personale poetica. Li invade di ambiguità per poi lasciare a noi le chiavi della loro decifrazione. Sfrutta così un Ed Harris la cui maturità interpretativa è, probabilmente, arrivata al suo culmine. Manipola la straordinaria fisicità di William Hurt la cui recitazione ha nella sapiente consapevolezza della propria corporeità il suo segreto. Regala a Viggo Mortensen la possibilità di mostrare le proprie capacità in un ruolo di estrema difficoltà per la necessità di dovere restituire l’equilibrio artificiale che anima all’inizio il suo personaggio. L’epilogo, privato della parola, diviene iconografica rappresentazione della natura umana. Il silenzio e gesti che normalmente appartengono alla sfera della quotidianità, assumono ora il valore di muta accettazione della costante variabilità dell’esistenza, del suo impazzire per poi tornare entro i binari di una tranquillità che però, sembra ricordarci ancora una volta Cronenberg, basa la sua presenza su ciò che di più fragile sembra esistere. Il nostro agire. Ciò che vediamo sullo schermo non è l’immagine di un’armonia finalmente ristabilita, ma i volti silenziosi, i gesti privi di coraggio e pregni di insicurezza, gli sguardi tra lo smarrito e l’angoscioso sono le ultime preziose schegge di uno specchio che, come l’esistenza dei protagonisti, è andato in frantumi. Proprio nella solitudine di ogni singola scheggia si ha la parvenza di una nuova unione ma basta osservare per comprendere la profonda amarezza e la, ormai lucida, consapevolezza di un futuro che dovrà avere luogo pur avendo perso la verità del proprio passato.
Salvatore Salviano Miceli, close-up.it



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Il tema della violenza ha ormai un’importanza centrale per la psichiatra contemporanea. Il nodo fondamentale del problema è la definizione del confine tra normalità e patologia. A tale proposito ricordo che questa questione è al primo punto nel convegno della SOPSI del 2006. È uscito inoltre recentemente un corposo volume monografico su questo dilemma fondamentale non solo sotto il profilo psicopatologico, ma in senso ampio culturale.In questo volume Pancheri cerca una definizione partendo da un ottica psicobiologica, mentre Rossi in un ricco intervento cerca di comprendere la violenza secondo un modello psicodinamico, costruendo una psicopatologia "shakespeariana". Ambedue pur partendo da presupposti molto distanti tra loro sono uniti nell’intento di offrire una strutturazione psicopatologica ai comportamenti aggressivi.
Un contributo alla ulteriore analisi di tale tema lo fornisce A History of Violence, una storia di violenza di David Cronemberg. Il regista canadese è un maestro di violenza e di follia, temi ricorrenti nelle sue opere. Curiosamente questo è un film che ha avuto un buon successo, anche in Italia e caso unico per film di qualità, il consenso di pubblico è maturato nel periodo natalizio.
La storia è tratta da un fumetto di John Wagner e Vince Locke: un padre di famiglia Tom Stall (un bravo Viggo Mortensen) gestisce un bar nella cittadina di Mellbrook, Indiana. Ha una (bella e politicamente corretta) famiglia, con moglie avvocato e due figli, tutti avulsi da qualsiasi forma di violenza. Vive senza grandi soddisfazioni, ma sembra sereno e tranquillo. Piccoli particolari rendono meno banale la sua vita: la moglie per eccitarlo si veste da teen ager e il figlio adolescente è incapace di affrontare i coetanei e viene continuamente umiliato e lo sguardo di Tom sembra costantemente spaesato. Un giorno entrano minacciosi nel suo bar due teppisti, che abbiamo visto nel prologo del film, come dotati di una violenza gratuita e devastante. Per difendere una dipendente Tom li uccide con inaspettata competenza. La televisione fa di lui un eroe nazionale, ma questo provoca la visita di un gangster interpretato da un eccezionale Ed Harris, il cui volto deturpato sotto gli occhiali neri può essere visto come una metafora della ambiguità dell’apparire e dell’occultamento delle lacerazioni deturpanti (non solo fisiche). Il gangster chiama Tom con un altro nome, Joey, e si ostina a dire che è un’altra persona: un killer spietato che anni fa lo aveva sfregiato. Poco per volta mentre emergono nuovi particolari che confermano la doppia natura di Tom e di conseguenza si sfalda la armonia familiare e si rivela una vita precedente tenuta nascosta. Tom non sembra bugiardo nel negare l’evidenza di questo passato che ritorna e questo crea un disagio nei familiari e spaesamento negli spettatori. L’aggressività emerge progressivamente in tutta la sua forza con una catena di omicidi, esteticamente belli, quasi come i duelli dei recenti film di Tarantino. In un crescendo di uccisioni emerge la vita precedente e Tom e Joey si ricompongono in una identità unica e coesa, ma ben più conturbante. Poi tutto si normalizza, come se nulla fosse. Nella scena finale la famiglia siede a tavola e mangia in silenzio, muta, ma unita.
La tesi di fondo di Cronenberg è che la violenza fa parte della natura umana e che ogni tentativo di vincere questa "malattia" universale rimane un sogno; cercare di dividere gli uomini in aggressivi e ragionevoli è un’opera destinata al fallimento. La linearità del film nega in maniera netta lo statuto di malattia alla violenza, anche se gratuita e non finalizzata. Questo aspetto riguarda noi psichiatri e ritorniamo al problema iniziale dibattuto da Rossi e Pancheri: esiste una definizione psicopatologica della violenza ? È categoriale o dimensionale e comunque è un sintomo psichiatrico? Pancheri azzarda una ipotesi correlando l’aggressività al concetto di dimensione psicopatologica, identificata dai vissuti e dai comportamenti che hanno poi la massima espressione nella violenza conclamata. Rossi distingue dalla violenza patologica quella nevrotica e descrive meccanismi di sublimazione, messi in atto dagli individui per renderla socialmente accettabile.
Cronenberg contesta queste tesi descrivendo in Tom/Joey un individuo serenamente scisso e ben adattato sia alla vita tranquilla che alla più feroce espressione della aggressività. In tutto il film Tom fa una breve accenno al passaggio da killer a barista ("ci sono voluti anni per diventare quello che sono ora") che nulla toglie alla sua rapida e perfetta aderenza al vecchio ruolo. Anche rispetto a interpretazioni psicodinamiche la distanza è abissale. Non sappiamo nulla del passato di Tom e in un incontro con il fratello emerge unicamente una differenza sostanziale tra i due. Richie, il fratello ricco, ha fatto fruttare al meglio la sua aggressività, mentre Joey è un puro o meglio l’aggressività non ha una valenza utilitaristica. Questa purezza e l’estraneità a un discorso di utilità economica o sociale lo rende ancora più sconcertante. La storia di Tom dovrebbe spingere l’autore a una qualche forma di interpretazione diagnostica (matto/delinquente), ma Croneberg non lo fa e ci lascia nell’incertezza più profonda. È ricca di significato questa presa di posizione in un autore che nel film precedente, Spider, aveva dato una spiegazione psicodinamica della schizofrenia. Ne era risultato un film, discontinuo, bellissimo nella sua cupezza, che induceva riflessioni profonde sulla problematica della verità e della narrazione come interpretazione della malattia mentale. Le spiegazioni allora erano molteplici che si intersecavano come in una tela di un ragno. In A History of Violence invece non ci sono spiegazioni, ma una descrizione da entomologo del comportamento umano. Questa impostazione mette in crisi la nostra propensione a trovare significati, nessi di causalità, scansioni temporali nella storia della "violenza". Mi ha fatto pensare per contrasto all’accanimento con cui talora i giudici chiedono perizie psichiatriche per "accettare e spiegare" i delitti più angoscianti e non si arrendono di fronte a risposte negative.
Vi è in Cronenberg un rifiuto di una interpretazione psicopatologica e come conseguenza una convinzione che anche i tentativi di cura (o di sublimazione) sono destinati al fallimento. La violenza è come una belva, apparentemente addomesticata, ma pronta a esplodere con stimoli appropriati. Quindi i vari stili di vita e meccanismi di difesa sono rimedi transitori e inefficaci, perché è molto più eccitante essere aggressivi. La conclusione che infatti traspare è sulla maggior adeguatezza della violenza alla società contemporanea. Se Tom non fosse in grado di reagire, avremmo avuto una carneficina nel suo bar, il figlio sarebbe lo zimbello del liceo e lui sarebbe un cittadino medio, frustrato e sessualmente opaco.
Prima di fare diagnosi di comportamento esplosivo intermittente o di prescrivere farmaci per la violenza meditiamo su questo film. Cronenberg in conclusione ci offre un bel tema su cui riflettere.
Alberto Sibilla, psychiatryonline.it

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