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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 5

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 14:16
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Sesso: Maschile
04/03/2008 17:51


RASSEGNA STAMPA PARTE 5


Diventa sempre meno rilevante riassumere le trame delle pellicole di David Cronenberg. Dismessi i destabilizzanti strumenti del meló con i quali ha operato nella quasi totalità della produzione degli anni Ottanta, il regista canadese dirige, da Crash in poi, con l’attitudine secca, lucida e inesorabile del noir: impeccabili, millimetrici dispositivi narrativi, scorciati da ogni digressione e circoscritti su un unico, asfittico, claustrofobico fulcro d’azione.
La Promessa dell’Assassino, incentrato sulle vicissitudini di Anna, un’ostetrica che intraprende la ricerca dei parenti più prossimi del neonato di una giovane prostituta morta in circostanze poco chiare, si presenta con un incipit pretestuoso per avviare, attraverso il topico tema dell’indagine, un’ennesima e implacabile analisi sul corpo biologico-sociale. E che il percorso debba muoversi dalla superficie al profondo e all’infimo, ridefinendo i parametri di partenza, è chiaro sin dai titoli di testa, con quel loro incidersi in un’intricata testura sullo schermo, come dire sull’epidermide del cinema stesso, allo stesso modo dei tatuaggi che disegnano la pelle dei protagonisti. Proprio in questo suo ribaltare e compromettere le categorie di senso esterno-interno, visibile-nascosto, reale-immaginario, il cinema di Cronenberg si scopre intimamente, indissolubilmente horror. Mai come in questo caso infatti, la rititolazione italiana del film risulta fuorviante e riduttiva, azzerando quel coacervo di significati ai quali rimanda l’originale Eastern Promises che, oltre all’organizzazione malavitosa russa alla quale appartengono i villain, intende suggerire un non-luogo, un’interzona in cui si annida un furore immaginifico capace si sovvertire qualunque schematismo.
Ragguardevole il rigore stilistico con il quale il regista conduce la sua disamina: la freddezza e la cupezza della fotografia del fedele Peter Suschitzky, calano e s’imprimono sull’essenziale decor concepito da Carol Spier, producendo un senso di sospensione straniante in cui si aggirano, come insetti sotto la lente di un entomologo, i protagonisti. L’asettico impianto scenico e l’atmosfera rarefatta e opprimente fungono da camera di decompressione dove palpabile e insopportabile è la resa dell’azione, fino all’erompere della ferocia e della brutalità, valvole di sfogo e veicoli di catarsi.
Il sangue e la violenza inscritti nel genoma del cinema cronenberghiano si fanno mezzi per vagliare l’organismo umano e quello istituzionale, deturpandone la pretesa perfezione e immutabilità, sfregiandone la rispettabilità, svelandone l’ipocrisia morale. Assieme a A History of Violence, La Promessa dell’Assassino accentra tale assunto, rendendolo tanto più cocente, intorno ai nuclei fondanti delle ipocrite certezze intime e collettive, il corpo e la famiglia; e nulla resta indenne, tutto s’infetta e incancrenisce, a meno di non abbandonarsi al potenziale gravido di soluzioni offerto dalla trasformazione onirica, psichica e carnale.
Andrea Greco, alphabetcity.it



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Si può svuotare il noir e allo stesso tempo, riscriverlo e analizzarlo dall'interno? Da osservatori esterni, non abbiamo la risposta a portata di mano, perché il genere hard boiled è così vario ed intricato, da poter facilmente cadere nelle trame del giallo più classico. Il noir per sua natura racconta molte storie assieme e tende soprattutto al disvelamento di un mistero. Il che non vuol dire che qualcosa vada scoperto, il mistero è altrettanto interessante quando si tratta di affrontare qualcosa. Ad una attenta riflessione il centro de La Promessa dell’Assassino, è il dilemma esistenziale di tre personaggi che nel bene o nel male, si trovano a interagire tra loro. La prima è Anna (Naomi Watts), un'ostetrica che si ritrova tra le mani un bambino nato da una ragazza russa morta al momento del parto, decisa a dare una famiglia al piccolo orfano. Il secondo è il figlio di un boss della mala russa (Vincent Cassel), un po' sbruffone, un po' patetico, che mal accetta le regole della malavita. Il terzo è la glaciale guardia del corpo del clan (Viggo Mortensen), ponte ideale tra i due, diviso tra la misericordia e la scalata al potere. L'implicazione psicologica serve a David Cronenberg per mettere in scena un robusto thriller, dove tutti hanno qualcosa da nascondere. Un lato oscuro intrappolato in fragili corpi, sempre sul punto di infrangersi.
Scavare nei recessi dell'animo umano è materia con la quale Cronenberg, con geniali guizzi di regia, riesce a portare a galla attraverso segnali più o meno espliciti. Lo sono ad esempio i tatuaggi sul corpo di Viggo Mortensen, segni indelebili del racconto di tutta una vita. Ferite di un passato che non si può cancellare e che si possono solo mostrare nel vapore di un bagno turco, nella scena clue del film dove si trova a lottare nudo contro due mafiosi vestiti di nero. Una sequenza da antologia, per la capacità di trasmettere il senso di violenza e sofferenza di cui è capace il corpo umano. Ma oltre la scena in sé, il senso di disagio dei protagonisti è così tale da persistere perfino nel finale, nel quale forse non tutti in nodi vengono sciolti. Una scelta stilistica capace di infettare un'ordinaria storia di malavita. Destrutturato nelle sue regole classiche, quest'opera di Cronenberg, tocca le vette più alte di qualsiasi noir contemporaneo. Talmente straniante da rappresentare un futuro spartiacque di questo genere cinematografico.
Roberto Leggio, cinebazar.it



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La vicenda della Promessa dell’Assassino prende spunto dalla storia di una giovane ragazza russa che muore di parto in un ospedale di Londra. L’ostetrica Anna (Naomi Watts), un’inglese di padre russo, leggendo il diario della ragazza si accorge che è stata violentata e maltratta. Inizia così una ricerca che la porta in contatto con una famiglia di ristoratori (in apparenza) russi, dove l’anziano proprietario dai modi gentili e raffinati (l’interpretazione di Armin Mueller-Stahl è di quelle che rubano la scena) capeggia, in particolare sul figlio Kirill (Vincent Cassel) e sul guardaspalle Nikolai (Viggo Mortensen). Nel racconto della trama ci fermiamo qui per non togliere allo spettatore il gusto del thriller, reso impareggiabile dall’eccellente lavoro di narrazione della sceneggiatura di Steve Knight.
Attraverso la linearità narrativa e formale (campi in primo piano e controcampi in piano americano configurano la classicità della costruzione del racconto visivo) Cronenberg riesce a descrivere in modo davvero efficace il mondo chiuso e violento della Vory V Zakone, la malavita dalle repubbliche della ex Unione Sovietica, completamente impermeabile a usi e mode delle società occidentali in cui si è installata nel corso del tempo, ma delle quali riprende i topoi retrogradi (per esempio quello tipico del maschilismo e della violenza) e il fine principe, quello del denaro come simbolo di potere e della famiglia intesa come nucleo base su cui costruire la società (criminale o istituzionale che sia).
La caratterizzazione dei diversi nuclei sociali in gioco (la normalità della protagonista e dei suoi parenti, il dominio violento della famiglia criminale, capitanata però da un uomo dai modi suadenti) riesce a rappresentare una narrazione finemente intrecciata, facendo del racconto il vero protagonista del film, lavoro alquanto inusuale in Cronenberg ma efficacissimo, come lo è la scelta della voce fuori campo della giovane uccisa che legge il suo diario, deus ex machina del racconto, ma altresì MacGuffin che permette all’autore di introdurre lo spettatore nel mondo complesso dei codici e delle spietate leggi della Vory V Zakone. Altrettanto appropriata la scelta della fotografia (realizzata dal fido Peter Suschitzky), impregnata di cromatismi grigi e blu che donano alle immagini un continuo senso di inquietudine, scelta stilistica che caratterizza da almeno un ventennio una delle innovazioni linguistiche più evidenti del cinema della New British Renaissance (da Ken Loach a Mike Leigh, per citare solo alcuni dei massimi esempi della costruzione dell’immagine del cinema anglosassone). Ne La Promessa dell’Assassino Cronenberg ricostruisce ciò che aveva decostruito in A History of Violence (lì, la forma standard del noir implodeva, ricreando la struttura thriller classica aggiornata alla contemporaneità). Infine, oltre alla bravura degli attori principali, vanno segnalati i ruoli secondari dello zio e della mamma della protagonista, magistralmente tratteggiati da Jerzy Skolimowski e Sinéad Cusack. Un consiglio, non perdetevi i titoli di coda, all’altezza dei migliori titoli di testa del passato di Elaine e Saul Bass.
Alessandro Morera, frameonline.it



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David Cronenberg è cambiato col tempo: il suo cinema è giunto a colorazioni e levigature che prima - volutamente - allontanava per picchiare di più. Prendete il trittico recente della sua filmografia, Spider (2002), A History Of Violence (2005) e quest’ultimo Eastern Promises (in italiano la traduzione La Promessa dell’Assassino è orrenda), vedrete come quei cunicoli infangati (metafora della follia umana) che erano i fotogrammi del suo cinema che fu, ora lasciano spazio a scenografie e tempi del tutto diversi, più dilatati, meno cervellotici, meno perversi. Certo il tema principe del suo cinema rimane intatto: ovvero la fragilità della mente umana e le intermittenze della schizofrenia. In Spider era un uomo divorato dai ricordi e dalla lentezza delle sue facoltà intellettive a essere protagonisti; nel film del 2005, invece, era il conflitto intersoggettivo a creare la tensione. Eastern Promises segue la scia di questi due film, e si concentra sulla paura. Il film è ambientato a Londra e più precisamente tra gli affari della mafia russa nella capitale britannica. Protagonista suo malgrado è Anna (Naomi Watts), una ostetrica inglese d’origine russe che si ritrova a prendersi cura del neonato partorito da una giovanissima ragazza (Tatiana) deceduta in seguito al travaglio. Ecco il passato che si scaraventa con tutto il suo impeto. Dal diario di Tatiana esce la verità su quel concepimento, sul traffico di ragazzine e prostitute, sulla mafia russa e sul tale Seymon (Armin Mueller-Stahl), ristoratore russo, violentatore e magnaccio. Anna si trova intrappolata in una storia più grande di lei, intimidita da Kirill (Vincent Cassel), figlio alcolizzato e balordo di Seymon, e dal suo spietato autista Nikolai (Viggo Mortensen), cicatrici in volto, occhi di ghiaccio e compostezza da far spavento. Cronenberg gioca con i personaggi e con la loro paura, paura di un passato in grado di travolgerli, paura di del proprio ruolo, paura di essere schiacciati dalle dinamiche della mala russa, così inquietante e ricca di simbologia (i tattoo). La sua regia “pulita” - appunto in antitesi con i fotogrammi cerebrali di film come Crash o Inseparabili - sceglie di seguire un andamento piuttosto lento e compassato. Le impennate, dunque, arrivano rare e improvvise (il titanico combattimento all’interno dei bagni turchi) e gli effetti di splatter, suo cavallo di battaglia, sono pochi, ma eccessivi come sempre. Se la storia e, soprattutto il finale, appaiono decisamente prevedibili, non lo sono affatto le interpretazioni di due grandi attori come Cassel e Mortensen. Entrambi in perfetto spolvero con il loro inglese cadenzato russo ed entrambi autori di un’interpretazione “cattiva”, “marcia” e spietata.
Riccardo Marra, ilcibicida.com



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Forse c’era da aspettarselo che con La Promessa dell’Assassino avremmo scoperto un nuovo David Cronenberg. Già con A History of Violence il suo sguardo dietro la macchina da presa rivela un cambiamento in atto. Il Cronenberg geniale di Videodrome, film avveniristico per gli anni ottanta, quasi un documento, uno sguardo che annuncia i mutamenti antropologici prodotti dalla pervasività dei media sullo spazio visuale umano, generando novità nelle coscienze e nei comportamenti e modificandole, è ormai approdato ad un modo di fare cinema più compatto e più asciutto. Senza tuttavia abbandonare il tema cruciale delle sue narrazioni rappresentato dagli stati alterati della coscienza umana, Cronenberg, ormai giunto ad una consolidata esperienza quarantennale di cineasta, si propone ora, con uno stile più fruibile per il grande pubblico, meno selettivo, ma assolutamente non meno efficace e convincente. In una Londra uggiosa e triste, una notte, in un ospedale, una ragazza russa quattordicenne, partorisce a stento una bambina. La bimba vive, ma la madre muore di parto. Anna, la levatrice (Naomi Watts-nomination all’Oscar) che ha assistito la ragazza durante il parto, raccoglie i suoi affetti personali, tra cui trova un diario scritto in russo. Nel diario è narrata la storia di una vita di violenze subite e maltrattamenti, addirittura si fa riferimento ad uno stupro di cui la bambina sarebbe il frutto. Anna, coraggiosamente, compie delle indagini e s’imbatte nella fratellanza criminale est-europea dei “Vory V Zakone”, una delle cui famiglie più eminenti a Londra è capeggiata da Semyon (Armin Mueller-Stahl-nomination all’Oscar). Semyon è proprietario di un elegante ristorante transiberiano alla periferia londinese. Il suo unico figlio Kirill (Vincent Cassel) amministra maldestramente le losche fortune, ma è affiancato continuamente dal suo fedele autista Nikolai Luzhin (Viggo Mortensen), che vigila sull’operato dell’instabile padrone. Per ironia del destino le vite di Nikolai e di Anna Khitrova si incontrano e i due, alla fine, collaborano per portare alla luce una verità intessuta di intrighi, violenze, assassini e commercio illecito di ragazze destinate alla prostituzione. Un intreccio di fatti ed eventi, di colpi di scena, che i protagonisti vivono in perenne condizione di sentimenti contrastanti. Cronenberg, come già in A History of Violence, tratta il doppio che è presente nell’animo umano, nella coscienza che muta al mutare degli eventi che si presentano. In La Promessa dell’Assassino Viggo Mortensen, glaciale e incisivo, spigoloso e comunicativo, mostra (ciò che non è avvenuto in A History of Violence) il doppio del suo personaggio: la sua malvagità efferata ed il suo lato di uomo buono. Mattatore dello schermo, Viggo Mortensen, muove le scene con lo sguardo, con la staticità del suo corpo, riuscendo a catturare l’attenzione in un crescendo di pathos ed emozioni. Naomi Watts è perfetta nella sua interpretazione di donna attanagliata dall’ossessione di rendere giustizia all’adolescente morta e di dare un futuro alla bambina orfana. Come in tutti i suoi film, Cronenberg anche in La Promessa dell’Assassino usa il linguaggio dei corpi (reso all’estremo in Videodrome), mappa di un’identità in continua mutazione. Il tatuaggio è, in questo film, il linguaggio elettivo e comunicativo per la casta criminale dei Vory. Il duello all’ultimo sangue in una sauna, tra Viggo Mortensen, completamente nudo, con il corpo meticolosamente tatuato, e due criminali ceceni, rompe l’atmosfera sospesa che avvolge gran parte del film e fa esplodere una scena di noir eclettico, inquietante e violento. Forse quest’ultimo lavoro di Cronenberg non ha la genialità intessuta nella trama. Qualche scivolata è imputabile alla sceneggiatura. Mostra comunque una raggiunta perfezione registica, contenendo il meglio di Cronenberg per le tematiche trattate, la fotografia e la scenografia. Gran colpo di genio è stata la sua presentazione durante il giorno di chiusura al Film Festival di Torino.
Rosalinda Gaudiano, cinema4stelle.it



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Come una freccia che segue una direttrice immaginaria, che lambisce ed al contempo trapassa elementi eterogenei accomunati dalla medesima destinazione finale, così il cinema di David Cronenberg raggiunge la sua compiutezza. Il suo sguardo investe macchina da presa, corpo attoriale e scenario rendendoli un unicum che passa sullo schermo. Se non è osmosi si può paralare di feroce amplesso strutturale che dilania senza mai congiungere, sino ad un epilogo finale rigorosamente aperto.
Si è definito Eastern Promises corollario e naturale conseguenza di A History of Violence, ma solo in parte si può accogliere tale definizione. Siamo a Londra e per quanto non sia invasivo l’occhio di Cronenberg nei confronti della metropoli inglese, è immediatamente decifrabile la differenza con il piccolo paesino dell’Indiana del precedente film. La realtà britannica è filtrata attraverso i costumi, le tradizioni, gli usi della mafia russa locale. Ne esce fuori un ritratto “bastardo” le cui dissonanze assecondano e strutturano interamente la pellicola. Continua, è vero, Cronenberg la sua spedizione cognitiva dentro la psiche umana ma in questo caso deve fare i conti con una sceneggiatura (Steve Knight) complessa, rigidamente costruita su dei pilastri da non fare saltare, elementi monolitici intorno al quale costruire l’intera vicenda.
Le chiavi di lettura sono molteplici come i tatuaggi che coprono l’intero corpo di Viggo Mortensen, ognuno di diverso significato e scelto secondo una filologia del simbolismo carcerario russo assai accurata. Partendo dall’idea che bene e male sono concetti assai sfumati, lontani da qualsiasi possibile contrapposizione manicheistica, i personaggi che ne risultano sono solo vagamente definibili e riconoscibili secondo i canoni di un normale giudizio. Tutti restano in bilico tra un’esasperata violenza ed una eco di umanità quasi innocente. Solo Anna (Naomi Watts) rappresenta un sicuro polo positivo, una figura che pur non possedendo lati oscuri (ma segreti si) sembra però attratta dalle ombre, in grado di leggere la luce nascosta, sia essa benevola o malvagia, di ogni singolo protagonista. E non è un caso che il film termini con uno sguardo intimo, quasi accennato, sulla sua figura in un finale che, sebbene lasci volutamente non risolti tanti interrogativi, appare più sereno di quello, tragicamente splendido, di A History of Violence.
Visivamente il film è cruento, indirizzato verso una violenza che lacera il corpo umano, lo mutila, lo scuote sia nel momento iniziale della vita che in quello finale della morte. Mortensen si conferma interprete ideale delle visioni di Cronenberg. Il suo nudo, di cui tanto si è inutilmente parlato, è scandagliato dal regista con chirurgica precisione. I suoi combattimenti restituiscono l’anelito alla sopravvivenza di un uomo in realtà già spento. E sono il volto, sempre contratto, l’incedere lento, ancora prima delle sue stesse parole a rivelarci come Nikolai (Mortensen) sia davvero un’anima morta.
Ci si sente scuotere dalla visione di Eastern Promises. Vi sono condensati tanti frammenti del lungo percorso del geniale autore canadese. È c’è sempre presente quell’interrogativo scomodo sulla natura umana, ancora una volta ridotta, e chissà che non sia davvero così, ad un carnale e privo di possibile decifrazione pastiche biologico.
Salvatore Salviano Miceli, close-up.it



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Nuovamente un nuovo Cronenberg. Ancora incontro tra crimine e quotidianità per il regista di Videodrome. Finiti i tempi dell'imperscrutabilità che tanto irritava Martin Scorsese ed esaltava i fan dell'horror della "nuova carne". Finita l'era de Il Pasto Nudo, eXistenZ e Videodrome, il capolavoro dei film spaccatesta. Le due ultime fatiche di Cronenberg sono thriller realistici compatti, corti (96 minuti di media), classici (regista sposa star: Cronenberg sposa Mortensen come Hitchcock sposava James Stewart), popolati da gangster in giacca e cravatta e occhiali da sole (Ed Harris lì e Viggo Mortensen qui; separati alla nascita) e in cui, soprattutto, si capisce tutto. Ma veramente tutto. Qualche fan ha abbandonato l'idolo d'un tempo, indignato per l'inborghesimento semantico del canadese. Altri spettatori si sono aggiunti. Molti soldi sono piovuti dai multiplex. Il nuovo Cronenberg è un franchise che incassa senza senso di colpa come quando faceva negli ‘80 La Zona Morta e La Mosca. Finiti i tempi in cui i profitti di Spider, eXistenZ e Crash rappresentavano messi insieme un decimo del bottino di A History of Violence che, sempre nell'ottica della normalizzazione cronenberghiana degli ultimi tempi, è stato candidato con due Oscar pesanti come Miglior Attore Non Protagonista e Miglior Sceneggiatura Non Originale. Quindi riassumendo: Cronenberg Facile, Cronenberg Ricco, Cronenberg Oscar. Sarebbe quasi automatico a questo punto dire pure Cronenberg Peggiorato. Tutto porterebbe lì. E invece no. Cronenberg Bravissimo, piuttosto. Cronenberg Scorsesiano. Londra, oggi. L'infermiera single con aborto doloroso alle spalle Naomi Watts incontra la mafia russa londinese del gangster Viggo Mortensen, all'inizio dell'avventura solo un autista prima di scalare le posizioni. L'incontro fortuito tra la bionda emancipata che va in giro in moto (Naomi Watts qui, Maria Bello lì; separate alla nascita) e il gangster sornione che fa da babysitter al figlio problematico del grande capo (un Vincent Cassel mai così bravo nella sua carriera) accade per colpa di un diario che l'infermiera ha trovato per caso e in cui si raccontano le malefatte del figlio del grande capo e forse del grande capo stesso. I due mondi si incontrano e già questo vale tutto il film. Poi un bel colpo di scena che non t'aspetti aggiunge pepe alla vicenda. Un film da gustare in tutti i suoi piccoli grandi momenti. Sigarette, impermeabili, cadaveri deposti nei letti del fiume, Londra senza Londra (il Tower Bridge si vede volutamente sullo sfondo durante un viaggio in moto della Watts), ristoranti come uffici della mala, omicidi in pieno stile Padrino, 96 minuti creati da un regista che ora sa come non sprecare niente. Il pasto è vestito, soddisfacente e prelibato. Da Mortensen che cambia corpo per diventare un dolce duro che stacca le dita dei cadaveri continuando a fumare placidamente, al collega polacco di Cronenberg Jerzy Skolimowski, fantastico zio burbero dell'infermiera che parla sempre per peggiorare la situazione. Le luci del maestro Peter Suschitzky (The Rocky horror Picture Show) sono calde ed eleganti. Il corpo che tanto interessa Cronenberg è in questo caso modificato da tatuaggi indelebili che raccontano le gesta di chi li porta. In una sauna si svolgerà una scena violenta perfettamente coreografata che farà spogliare Mortensen in una rilettura meno culturista e criptogay di qualcosa già visto in Danko di Walter Hill. Ciò che piace è che il gangster movie per Cronenberg non diventa moda cool come per Michael Mann e Tarantino. Qui non ci sono criminali insopportabili che filosofeggiano il motivo delle loro azioni con il regista che li tratta come gli unici esseri liberi e affascinanti di questo pianeta. Qui c'è il criminale uomo d'affari e mafioso rispettoso dei riti ripreso come un duro da hardboiled che si rifà totalmente al Coppola del "Padrino". Anche se lo sguardo è più al meccanismo noir e thriller chiuso in sé che non all'antropologia del crimine. Ma se Cronenberg si avvicina a Coppola e un pochino anche a Martin Scorsese, da lui bollato come vecchio artista manicheo e cattolico nella famosa polemica che li vide contro nei primi anni '90, vuol dire che l'alfiere della mutazione al cinema ha mutato ancora pelle. Non è facile farlo a 64 anni. Non è facile farlo con questa classe. La Promessa dell’Assassino è un solido film di genere che coinvolge, emoziona e colpisce. Cronenberg Avvincente.
Francesco Alò, ilquotidianodelcinema.tv



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Crudo, duro, violento: il nuovo film del canadese David Cronenberg è come un pugno nello stomaco. Ambientato nella Londra nascosta delle periferie grigie e cupe, come la quotidianità che vi si consuma, abitate da gruppi di nazionalità diverse che operano in un sottobosco criminale La Promessa dell’Assassino è, secondo le parole del regista, “un thriller sulla mafia intrecciato a drammi familiari”. Per chi avesse visto e apprezzato il precedente A History of Violence, questo nuovo film ne è una logica conseguenza: i temi che anche qui interessano Cronenberg (apprezzato autore tra l’altro di Videodrome, La Zona Morta, La Mosca, Inseparabili) sono più o meno gli stessi e riguardano l’identità, il senso del pericolo, i dilemmi morali. Il quesito di fondo è “la violenza può mai essere giustificata?”.
Brillantemente sceneggiato da Steve Knight (una nomination all’Oscar per Dirty Pretty Things) il film scava nella psicologia di un uomo la cui vera natura è un enigma; un personaggio davvero intrigante e misterioso - freddo e glaciale ma che nasconde dei lati emozionali inaspettati - interpretato dall’ottimo Viggo Mortensen (l’Aragorn de Il Signore degli Anelli, qui però meno affascinante del solito) ancora una volta insieme con Cronenberg dopo A History of Violence.
Attore rigoroso, maniacale nel suo perfezionismo, Viggo si è calato perfettamente nel suo ruolo conferendo un cuore e un’anima al suo personaggio, il mafioso russo Nikolai, grazie ad uno studio approfondito della lingua e della cultura russa: ha visto film russi, viaggiato in lungo e in largo per il paese, ha letto opere degli autori più famosi e, non contento, ha condotto ricerche sul traffico sessuale e sulle bande criminali. Perché di tutto questo si parla nella pellicola. Il misterioso Nikolai Luzhin, infatti, è l’autista di una delle famiglie esteuropee più famigerate di Londra, appartenente alla fratellanza criminale nota come Vory V Zakone. La famiglia è capeggiata da Semyon, impeccabile proprietario di un elegante ristorante transiberiano, le cui fortune sono amministrate dal figlio Kirill, uomo capriccioso e instabile. La vita di Nikolai viene scossa dall’incontro con Anna, un’ostetrica rimasta scioccata dalla tragica vicenda di una quattordicenne russa morta dando alla luce una bambina, e di cui intende rintracciare la famiglia d’origine. Il diario della ragazza morta, scritto in russo potrebbe essere d’aiuto, ma frugando nel passato della ragazza Anna scatena inconsapevolmente la furia dei Vory. Semyon e Kirill serrano i ranghi, mentre Nikolai prova sentimenti contrastanti. Molte le vite in gioco - compresa la sua - e in una spirale crescente di violenza, si consumano delitti, inganni e vendette.
Fedele al suo personaggio, Mortensen ha accettato per Cronenberg di girare scene in cui appare nudo, con il corpo totalmente ricoperto da tatuaggi, questi ultimi segni distintivi della casta criminale russa a cui i protagonisti appartengono. Rimarrà nella memoria per la sua eccessiva (e inopportuna) efferatezza la scena dell’agguato nel bagno turco in cui due sicari armati di coltello cercano di trucidare Nikolai che si difende selvaggiamente completamente nudo. “La scena del bagno turco - ha dichiarato compiaciuto il regista - diventerà famosa come quella della doccia di Psycho”.
Il film abbonda di scene violente e indugia sui particolari di gole tagliate, arti amputati e quant’altro. Tutti aspetti che, sia pur funzionali alla storia, ne costituiscono, a nostro avviso, anche un limite nella valutazione complessiva.
Se il fulcro della vicenda è incarnato da Nikolai/Mortensen, occhiali neri, Armani scuro, volto imperturbabile, intorno a lui ruotano molti comprimari. Una fragile ma volitiva Naomi Watts nel ruolo di Anna; un impeccabile Armin Muller-Stahl, attore tedesco candidato all’Oscar per Shine, che impersona Semyon: dietro due occhi di ghiaccio e modi di fare affabili si nasconde un vero mostro di ferocia.
Sopra le righe risulta invece l’interpretazione di Vincent Cassel (più noto forse per essere il marito della Bellucci), alias il sociopatico Kirill, la cui filmografia è costellata purtroppo da ruoli ripetitivi e stereotipati del cattivo. Nel cast figura anche Sinead Cusack, moglie di Jeremy Irons (nel ruolo della madre di Anna) e il polacco Jerzy Skolimowski (in quello dello zio Stepan).
Curiosità:
-Per curare il dialetto e l’accento dei protagonisti la produzione ha assunto tre insegnanti di lingua russa sul set.
-Ci sono volute quattro ore per applicare i 43 tatuaggi che ricoprono il corpo di Mortensen, di cui sette diversi sulle dita e 12 che raccontano dei proverbi russi. La croce sul petto non riguarda la religione ma indica un ladro stimato mentre le tre cupole sulla schiena rappresentano tre diverse condanne.
Cristina Giovannini, cinespettacolo.it



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La Promessa dell’Assassino è certamente uno dei film più interessanti di fine anno, ma passerà alla storia più per l’interpretazione di Viggo Mortensen che per essere un film diretto da David Cronenberg.
Uno spettacolo notevole: questo potrebbe essere il miglior modo di sintetizzare La Promessa dell’Assassino, nuova pellicola di David Cronenberg ambientata interamente nei bassifondi di Londra dove il regista conduce lo spettatore fino ai meandri delle gang mafiose russe.
Quando l’ostetrica Anna (Watts) assisterà alla morte di una quattordicenne in seguito ad un parto, si prenderà cura del neonato e cercherà la famiglia della ragazza per l’affidamento.
Col procedere della sua indagine la donna si ritroverà nel bel mezzo del giro di prostituzione minorile gestito da una delle famiglie più famigerate delle gang russe Vory V Zakone (lett: Ladri nella Legge), capeggiata dal terribile pater familias Semyon (Stahl) e dal figlio Kirill (Cassel).
In mezzo a queste oscure figure ci sarà il misterioso Nikolai (Mortensen) che cercherà di mettere in guardia Anna ma dovrà anche ubbidire agli ordini sanguinosi di Semyon. Riuscirà la donna a tirarsi fuori dalla stretta di questi criminali spietati?
Due anni fa Cronenberg sorprese tutti quanti con lo splendido A History of Violence, un raro esempio di film d’autore accessibile a un pubblico di massa: le pistole sparavano, il sangue grondava e i sentimenti non lasciavano vuoti nelle inquadrature. Il tutto messo in scena grazie a grandi talenti d’interpretazione hollywoodiana.
Adesso il regista canadese continua questa opera di “autore mainstream”, affidandosi ancora una volta a Viggo Mortensen e rincarando al doppio la dose di violenza mostrata.
La straordinaria performance dell’attore è quella che passerà alla storia e probabilmente la ragione per cui il film verrà ricordato. Guardatelo semplicemente mentre resta in attesa dei suoi capi, immobile e senza dire nemmeno una parola: Mortensen è uno di quegli interpreti che come una rockstar sul palcoscenico, rimane costantemente concentrato. Film dopo film, scena dopo scena, l’attore è determinato nell’offrire al suo pubblico la migliore performance della sua carriera. Il risultato è sbalorditivo.
L’intero cast del film è perfettamente in parte: dalla dolce e coraggiosa ostetrica Naomi Watts, ad un Vincent Cassel nel classico ruolo del figlio sbandato del boss, fino a Armin Mueller-Stahl che nei panni del capo dei capi riesce a essere elegante e all’improvviso a trasformarsi in una creatura animalesca e spietata.
Siamo davanti a uno dei migliori film di fine anno, ma dopo A History of Violence ci si poteva aspettare un prodotto superiore da Cronenberg: sebbene il regista riesca a mettere in scena il mondo della mafia russa in tutta la sua brutalità, la storia che ci racconta presenta delle imperfezioni.
Lo sceneggiatore Steve Knight, autore del notevole Piccoli affari sporchi, continua a descrivere le atmosfere della Londra che si vede poco sullo schermo e a introdurre personaggi molto interessanti; tuttavia lo sviluppo della vicenda non riesce a spiazzare lo spettatore, finendo per trattare tematiche non proprio inedite.
Fedele al marchio di fabbrica del regista, il film presenta diverse sequenze di violenza in cui ci vorrà stomaco per continuare a tenere gli occhi aperti. Nonostante ciò, voi fanatici di Cronenberg potreste uscire dalla sala con un certo retrogusto amaro di aver assistito a un film speciale dove però non c’erano troppe tracce del vostro idolo.
Pierpaolo Festa, film.it



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David Cronenberg per la prima volta si allontana dal suo Canada per raccontare un film in cui, dopo A History of Violence, torna a dirigere Viggo Mortensen. Questo Eastern Promises è un thriller compatto che, rispettando tutti gli stilemi del noir, racconta con incisività il peso che hanno le scelte sulla vita dell’uomo.
Anna, una ostetrica, riesce a far partorire una ragazza incinta, ma in fin di vita. Dopo la morte della giovane, per scoprire le origini del piccolo orfano e capire a chi darlo in affidamento, Anna comincia a fare delle indagini partendo da un diario segreto scritto in lingua russa. Scoprirà legami con la mafia...
In Eastern Promises il dramma non è mai urlato, i personaggi si muovono lenti, insicuri, e profondamente fragili, nello scenario che il destino ha tracciato per loro.
La pellicola è costruita intorno a due elementi. Abbiamo la bravissima Naomi Watts, l’ostetrica Anna idealista e impulsiva, che tenta di salvare la vita al piccolo motivata dal non essere riuscita a “salvare” il bambino che invece portava dentro di sé. E c’è Kiril, il figlio del boss, un intenso e commovente Vincent Cassel, che deve accettare le leggi che la malavita gli impone pur andando contro quelli che sarebbero i suoi veri ideali: amicizia, onore e rispetto.
In mezzo ai due troviamo un grande Viggo Mortensen, che tenta di assumersi il ruolo di ponte, ideale ed esistenziale, tra la vita di Anna e quella di Kiril. Il film, rispettando sapientemente i ritmi, i respiri e le atmosfere del genere noir, ci suggerisce che questa unione tra i due mondi è ancora possibile. Proprio lì dove, pare, non possa più esserci spazio per la misericordia.
Cronenberg, da sempre attento scrutatore del corpo per ricercarne all’interno la vera essenza dell’uomo, in questo Eastern Promisesindugia con partecipazione registica sulle ferite del corpo, spesso avvenute da armi da taglio, e sul suono che queste lacerazioni provocano al contatto con la materia organica. Splendida a questo proposito, la scena “clue” del film in cui vediamo Viggo Mortensen combattere nudo in un bagno turco contro due mafiosi. Diretta con lucida emotività, la sequenza è una delle migliori scene d’azione degli ultimi anni per la capacità che ha di trasmettere il senso di violenza, sofferenza e resistenza di cui è capace il corpo umano. Da vedere.
Inoltre Cronenberg fa di più. Là dove non arriva con il “gore”, il regista canadese giunge con i ricordi, raccontati dai numerosi tatuaggi dei protagonisti.
L’atto del tatuare è già sinonimo di violenza - inteso come atto non previsto in Natura - che l’Uomo infligge al proprio corpo. Qui l’autolesionismo si spiega come unico modo di trattenere la memoria delle proprie scelte. Il “ricordo”, infatti, di per sé è estraneo all’Uomo che in Natura è nudo e puro nel corpo come nella mente. Il tatuaggio diviene quindi l’allegoria dei segni indelebili che il “vivere” lascia nell’individuo. Solchi talmente profondi da non consentire, in ultima analisi, possibilità di tornare indietro e riacquisire la vera, originale, essenza umana.
Film complesso, teso, e sostanzialmente bellissimo. Dopo l’ottimo A History of Violence Cronenberg firma un altro avvincente, ma non facile, film sull’incapacità di operare univocamente sulla propria vita e su quella degli altri. Profondo.
La frase: "... Lui è vecchia scuola, lui capisce situazione: esilio o morte...".
Diego Altobelli, filmup.com
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 14:16]
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