RECENSIONI - Rassegna Stampa / 1

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|Painter|
00venerdì 5 ottobre 2007 18:27

RASSEGNA STAMPA PARTE 1


Dalla pièce teatrale (1988) di David Henry Hwang, ispirata a un vero processo di spionaggio. Pechino, 1964. René Galimard (J. Irons), diplomatico francese, ama per anni una cantante dell'Opera di Pechino (J. Lone) che in realtà è, oltreché spia, un uomo. È convinto a tal punto che sia una donna da credere di avere avuto da lei un figlio. Scoperta la verità, decide, prima di darsi la morte, di diventare quella donna che si era illuso di amare. Poco o nulla preoccupato della verosimiglianza, in questo melodramma raffreddato D. Cronenberg si dedica all'analisi di una passione impossibile e straziante, messa in immagini come un incubo o un'allucinazione. Almeno in due sequenze fa grande cinema: il furgone dove Lone si spoglia e il tragico epilogo in carcere. Coerente ai propri temi e ossessioni, ne fa anche una parabola disperata sull'assorbimento dell'Oriente da parte dell'Occidente, del Femminile da parte del Maschile, dell'Amato da parte dell'Amante. Per apprezzarlo occorre abbassare la soglia della cosiddetta “sospensione dell'incredulità”. Grande e apparentemente monocorde attore, Irons (con la voce di Mario Cordova) regge il film sul suo sguardo.
Il Morandini 2007 (Zanichelli)



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Nel titolo (bellissimo) c’è già l’essenza del film, che sublima (per una volta in ambito non fantascientifico) la poetica di Cronenberg, che come sempre gioca a trasformare la realtà, a confondere le apparenze rileggendo al contrario l’opera di Puccini, invertendo sessi, culture e nazioni per approdare ad un finale intensissimo e perfettamente logico. Il cinema di Cronenberg è sempre spettacolare, anche quando – come in questo caso – non fa uso di alcun effetto speciale, limitandosi a ottenere il massimo da due attori già di per sé eccezionali come Jeremy Irons (Renè Gallimard) e John Lone (la Butterfly del titolo). L’azione è spostata nella Cina di fine Sessanta, con la guerra del Vietnam alle porte e lo spionaggio comunista pronto ad usare ogni mezzo per ottenere informazioni militari. Così chi ci va di mezzo è un viceconsole francese (Irons), ammaliato dall’ambiguità della donna orientale (Lone). La loro storia d’amore è un continuo scambio tra vittima e carnefice, con spiazzanti colpi di scena e dialoghi mai banali. Quella che difetta in realtà è paradossalmente la credibilità (il film è basato su una storia vera), visto che Gallimard non può ragionevolmente essere tanto ingenuo quanto Cronenberg vuole farci credere. A ben vedere ci sono evidenti incongruenze nella sceneggiatura, e la storia troppe volte non regge, però è impostata e interpretata (e diretta) talmente bene da farci dimenticare le molte imperfezioni. E le performance dei due protagonisti assoluti (il film è quasi una piéce a due) sovrastano e coprono anche i momenti di stanca, rendendo M. Butterfly un’esperienza difficilmente dimenticabile. Un film maturo, intelligente, fissante.
davinotti.com



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Un diplomatico francese in Cina si innamora di una cantante d'opera. È convinto di aver trovato la propria Butterfly ma non si rende conto che si tratta di un uomo che, oltre a tutto, comunica quanto lui rivela al proprio governo. Cronenberg si conferma indagatore di corpi e anime e dell'ambiguità della loro interazione anche se, quando pretende di fare cronaca (un caso analogo è realmente accaduto), rischia delle incongruenze. Come nella scena rivelatrice sul furgone cellulare in cui i due detenuti possono stare insieme senza neppure una guardia che li controlli.
Il Farinotti 2007 (San Paolo Editore)



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Attenzione alla "M." del titolo: M. Butterfly di David Cronenberg si legge in modi diversi prima e dopo aver visto il film. Siamo nel 1964: gli americani stanno per impelagarsi in Vietnam, e le autorità cinesi sono ansiose di conoscere le intenzioni degli "yankee" con il massimo di anticipo possibile. René Gallimard (Jeremy Irons), contabile presso l'ambasciata francese a Pechino, sembra fare al caso loro. Si è innamorato della spia Song Liling (John Lone), attore dell'Opera di Pechino specializzato in ruoli femminili credendo si tratti davvero di una donna Il primo incontro avviene proprio durante l’esecuzione di alcune arie della Madame Butterfly di Puccini, interpretate da Song Liling con grande bravura. René è rapito dalla sua voce, dalla sua ambiguità, dal fascino misterioso che aleggia intorno alla sua persona. Per quanto incredibile possa sembrare (ma il film si ispira a una storia realmente accaduta) non si accorge mai che il suo partner è in realtà un maschio. Gli confida così tutti i segreti del suo lavoro, regolarmente recapitati nelle mani delle autorità di Pechino. René arriva addirittura a credere in una gravidanza, inventata dall'amante per evitare che il suo vero sesso venga scoperto. Ma la carriera del diplomatico, superficiale conoscitore del mondo orientale, volge al termine. Lo ritroviamo nel 1968 a Parigi, durante gli scontri al Quartiere Latino. Stanco e solo, ha un unico desiderio ritrovare l'oggetto del suo amore. L'ambiguità sessuale affascina da sempre il canadese David Cronenberg: basta ricordare l'inquietante Inseparabili, sempre con Irons protagonista. Anche M. Butterfly vive di atmosfere notturne, di disagi, di cose non dette: è, una volta ancora, un incursione in quell’interzona che tanto affascina il regista di Il Pasto Nudo.
Luigi Paini, Il Sole 24 Ore



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René Gallimard si (e ci) guarda in uno specchio: con un gesto fulmineo uccide una mosca che s'è posata sul vetro. E a noi viene in mente Seth Brundle. Lo ricordate? Era lo scienziato pazzo di La Mosca, l'ottavo film di David Cronenberg e quello che, nel 1986, gli consolidò fama e rispetto: fama fra gli spettatori, rispetto fra i critici. Per la verità, questo fu meno spontaneo e immediato di quella. Qualcuno fu tentato di continuare ad archiviare il caso-Cronenberg nella categoria «cinema horror di genere»: una categoria talvolta di gran livello, ma angusta per l'autore canadese. Il suo Seth Brundle aveva troppa individualità per entrare in pregiudizi critici, nel senso di giudizi codificati e seriali. Dunque: davanti allo specchio del bagno, ormai orrida via di mezzo tra un uomo e una mosca, lo scienziato pazzo (Jeff Goldblum) faceva considerazioni sulla propria metamorfosi. In lui c'era più autoironia che angoscia. In fondo, dallo specchio non emergeva che un suo doppio, un'immagine di sé "anticipata" rispetto alla normalità biografica, e perciò mostruosa. La malattia, l'invecchiamento, la decadenza del corpo: questo gli capitava di vedere in quel doppio. Doppio, metamorfosi, decadenza del corpo: ecco i temi "cronenberghiani" che furono poi estremizzati in Inseparabili (1988) e Il Pasto Nudo (1991), inquietanti come La Mosca e insieme più (volutamente) sgradevoli. E in M. Butterfly? Sono confermati, questi temi, nel rifacimento della favola melodrammatica d'amore e abbandono, d'eurocentrismo ed esotismo? Nella sceneggiatura di M. Butterfly - scritta da David Henry Hwang - non hanno parte gli incubi del cinema di Cronenberg. Non c'è fisicità del sangue (a parte quello che, alla fine, esce dalla gola squarciata di René). Non c'è metamorfosi dall'ordine del mondo umano verso il disordine di insetti mostruosi (a parte un cenno inquietante a strane libellule "pescate" da un cinese). Anche il tema del doppio è assente. René (Jeremy Irons, bravissimo) è affascinato, catturato da Song, attore che nell'Opera di Pechino sostiene ruoli femminili. Song recita e finge, "costruisce" una donna-fantasma, modellata sui desideri di René. René a sua volta partecipa a tale finzione, a tale costruzione. Insieme, stanno nell'ambiguità che separa e unisce vita e teatro, realtà e rappresentazione. Ma questa, appunto, non è l'ambiguità del doppio: è meno profonda, meno destabilizzante.
Nello specchio di La Mosca, Seth Brundle vedeva un altro se stesso. Meglio: vedeva se stesso come altro. In questo sta l'orrore perturbante del doppio: nel ritrovare il familiare trasformato in mostruoso. In tedesco, l'ambiguità che ne viene si ritrova nel termine unbeimliches; in italiano può essere resa al meglio con spaesamento. Lo spaesamento è la sensazione d'essere e insieme di non essere in un "luogo" familiare, di specchiarsi in sé riconoscendosi e insieme non riconoscendosi. Non c'è spaesamento, nella storia d'amore tra René e Song. Cronenberg segue e descrive emozioni che sono del tutto nuove, nel suo cinema. Il che però non significa che abbia girato un film sbagliato. Al contrario, la distanza che lo separa dalla sua poetica più personale gli consente di raccontare un melodramma sfuggendo al melodramma. Lo sguardo del cinema resta "esterno" e freddo per tutto il film. René è un fallito descritto impietosamente, ancor più impietosamente del piccolo gruppo di occidentali che vivono in Cina senza riuscire a capirla. La sua sola grandezza sta nel lasciarsi andare completamente all'inganno, alla finzione inscenata da Song. La sua sola realtà è quella irreale della rappresentazione. Ma qui, in questa dimensione artificiale, la sua è appunto grandezza. E infatti nella parte finale, Cronenberg la racconta con la stessa intensità gelida con la quale fino a quel momento ha raccontato la sua nullità. Chi può dire che Song abbia davvero ingannato René? Chi può dire che alla "rappresentazione" non sia stato sospinto proprio da lui? L'ambiguità più profonda del film non sta negli inganni di Song, ma nel desiderio di René d'essere ingannato. Il quale René, più che stupirsi della verità che emerge in tribunale, soffre per il fatto che la rappresentazione sia terminata, che il fantasma sia svanito. Infatti - e qui la macchina da presa sublima la freddezza in commozione paradossale - proseguirà da solo nella stessa rappresentazione uccidendosi in palcoscenico come una Butterfly innamorata. E Seth Brundle? Cronenberg s'è dimenticato di lui? M. Butterfly segna l'abbandono della poetica dello spaesamento, del doppio mostruoso, della decadenza del corpo? No, di sicuro: lo suggerisce - marginalmente, ironicamente - lo sguardo di René nello specchio, con il colpo repentino che s'abbatte sulla mosca. Di questi particolari è fatto il cinema di David Cronenberg.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore



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Quella ambigua M che sta nel titolo M. Butterfly potrebbe significare Madama, come nella tradizione che dal dramma di David Belasco (1900) arriva all'opera di Puccini (1904), e significa invece Mister. La confusione dei sessi nasce dal fatto di cronaca, incredibile ma vero, che ispirò la commedia recitata nell'88 da John Lithgow a Broadway, dopo a Londra da Anthony Hopkins e da noi (1990) da Ugo Tognazzi, tutti con la regia di John Dexter. L'autore è l'oriundo cinese David Henry Hwang, californiano della seconda generazione, che ora ha scritto anche la sceneggiatura del film di Cronenberg. Per l'occasione sono tornati al disonore della cronaca il diplomatico francese Bernard Boursicot e il suo amante Shi Pei Pu, un impersonatore femminile dell'Opera di Pechino utilizzato dal suo governo come spia. Nel corso del processo per alto tradimento, che si svolse a Parigi, l'ingenuo Boursicot affermo' di non aver mai capito che la pretesa madre di suo figlio (fornito surrettiziamente dai servizi segreti) era un uomo, mentre l'ineffabile orientale si limitò a dire che non aveva mai capito se l'altro aveva capito. Il pasticciaccio, finito bene perché i protagonisti sopravvivono sereni avendo il francese di 65 anni accettato la propria omosessualità, accanto al tema dell'ambiguità ne introduce un altro più interessante: quello dei rapporti impossibili fra l'Est e l'Ovest. Con un rovesciamento della vicenda della geisha "illusa e tradita dallo yankee vagabondo"; colui che fa harakiri per il dolore dell'abbandono è l'uomo ed è bianco. Questa scena terribile è fatta svolgere nel film, poco plausibilmente, davanti al pubblico di una recita in carcere, mentre in teatro l'evento avviene nella cella del protagonista in forma solitaria, masturbatoria e autopunitiva. Chi l'ha visto (e non siamo molti perché l'attore morì alla vigilia della seconda stagione dello spettacolo) ricorda con un brivido il modo in cui Tognazzi, da veterano dei grotteschi di Ferreri, si dava la morte acconciato in parrucca e chimono. Il culmine di un'interpretazione certo diseguale e poco amata dalla critica, ma in quel punto autorevolissima e sconvolgente. Molto più del suicidio sanguinolento di Jeremy Irons, che pure sostiene l'ostico personaggio del diplomatico gabbato da quell'intrepido attore che è. Per la verità Cronenberg, che non è un cineasta qualsiasi anche se qui è impegnato in un lavoro su commissione, esalta e pantografa l'ambiguità della vicenda, tanto più che al cinema, più oggettivo e ravvicinato del teatro, è difficile credere che il bravo John Lone sia una donna. La sorniona mascherata si allarga a una mascheratura degli sfondi dove il regista, messo nella condizione di poter girare solo qualche immagine nei luoghi veri (qui la Grande Muraglia, là Notre Dame), fa di necessità virtù collocando Pechino a Toronto e Parigi a Budapest. Il tutto con un bizzarro effetto di straniamento, alla maniera di Il Pasto Nudo. Meno convincono le modifiche al copione originale apportate o accettate da Hwang. Citerò la sparizione ingiustificata della moglie del protagonista: se la scena in cui lui chiede il divorzio è stata tagliata in montaggio, la Sukowa dovrebbe chiedere i danni alla produzione.
Tullio Kezich, Corriere della Sera



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Quando, nel suo appartamento di Rue Bousquet, a Parigi, lo arrestarono per spionaggio, il diplomatico francese Bernard Bouriscot rimase di stucco. Non per l'accusa di avere passato documenti ai cinesi; quello lo aveva fatto davvero e lo confessò subito. A lasciarlo sbalordito fu la notizia che il suo complice, l'attore dell'Opera di Pechino Shi Pei Pu, non era una donna, ma un uomo. I due erano stati amanti sin dal 1964, quando Bouriscot ventenne venne inviato all'ambasciata francese a Pechino. Il diplomatico non solo pensava che Shi Pei Pu fosse una donna, ma anche che gli avesse dato un figlio. E adesso, mentre Bouriscot si sentiva un idiota tradito e umiliato, era inevitabile domandarsi: come era stato possibile, per 18 anni, fare all'amore con una donna che in realtà era un uomo? Era stato ingannato o aveva inconsciamente voluto farsi ingannare? È una storia, quella del diplomatico e dell'attore, che ha tutto: cecità, passione, tradimento, spionaggio. Un dramma di tali proporzioni che, quando è stato portato a Broadway sotto forma di musical, è stato ricoperto di Tony Awards e poi esportato in trenta Paesi. Adesso M. Butterfly (portato in scena, in Italia, da Ugo Tognazzi e Arturo Brachetti) è diventato un film, diretto da David Cronenberg e interpretato da Jeremy Irons e John Lone. E venerdì sera, a una settimana dalla presentazione, mentre al festival del cinema di New York veniva presentato Addio mia concubina, il film cinese su Opera di Pechino e ambiguità sessuale, vincitore a Cannes, il dramma è arrivato in tv. Protagonisti proprio loro, Bouriscot e Shi Pei Pu, che per la prima volta ha acconsentito a farsi intervistare da Barbara Walters, inviato del settimanale televisivo 20/20. Quando Bouriscot conobbe Shi Pei Pu era convinto fosse un uomo. Dopo sei mesi di amicizia, nella Pechino chiusa e ostile agli stranieri di metà Anni 60, l'attore rivelò al diplomatico di essere una donna allevata come un maschietto dalla madre, che già aveva avuto altre due femmine e provava vergogna nel non avere avuto ancora un maschio. E lei ci credette? “Si'”, dice Bouriscot. “Le sue mani erano molto fini, il suo volto, la sua voce potevano essere quelli di una donna”. Divennero amanti. E il sesso? “Io non ero molto esperto”, risponde il diplomatico. “Anzi ero vergine e a me sembrava tutto normale”. Ma non sentiva e non vedeva niente di strano? “Shi Pei Pu aveva una sua strategia. La prima volta mi fece persino vedere del sangue, come se avesse voluto farmi credere che era una vergine”. Shi Pei Pu in effetti ha un aspetto delicato, vulnerabile. Esordisce dicendo che è uno che preferirebbe “venir lasciato da solo”. E quando finalmente parla, è impenetrabile. “Monsieur Bouriscot”, dice, “era un amico. Ma non c'è bisogno di parlarne, è finita”. Ma lei gli ha mai detto di essere una donna? “Ha detto cosi'?”, chiede. “Non sono così folle”. Ma guardi che lui dice proprio questo... “Se questo è quanto va dicendo, questo è quanto va dicendo. Per quanto mi riguarda lo contraddirei. E poi a me non piacciono le bugie”. Il diplomatico francese venne a sapere che Shi Pei Pu “aspettava un figlio” nel '65, alla vigilia del suo primo richiamo in patria. Partendo, lasciò alla nuova famiglia tutti i risparmi. Nel '69, in piena rivoluzione culturale fu inviato ancora in Cina. Cercò Shi Pei Pu e il bambino. Ma per superare il divieto di contatto con gli stranieri, dovette passare documenti segreti a due funzionari cinesi. Era diventato una spia. Dopo incontri e separazioni, il diplomatico torna a Parigi, dove si innamora di un uomo. Ma il suo sogno resta quello di fare arrivare Shi Pei Pu con il bambino, e sposarla. Nell'82 il sogno si avvera e Bouriscot invita l'amante a svelare il suo vero sesso di donna. Shi Pei Pu prende tempo. Dopo l'arresto, gli fanno un esame medico e in aula il giudice legge: “I suoi organi sessuali sono normali, costituiti da un pene e due testicoli”. Incredulo, Bouriscot domanda un'altra prova. “Voglio vedere”, dice. Shi Pei Pu abbassai pantaloni. “Avrei voluto morire”, ricorda il diplomatico. “Mi sentivo un folle, un idiota”.
Lorenzo Soria, La Stampa



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Un contabile dell'ambasciata francese a Pechino che s'innamora sino a morirne d'un attore cinese dell'Opera: M. Butterfly. Un angelo che scende su Berlino e si fa uomo per sperimentare felicità, emozioni, dolori umani: Così lontano così vicino. Ma poi anche un gangster che in Carlito's Way vorrebbe e non può sottrarsi al proprio destino criminale; anche il carissimo antieroe malato e risanato di Caro diario, la ragazza irlandese incinta di The Snapper, la caccia dei Texas Rangers all'evaso Kevin Costner in Un mondo perfetto. E naturalmente la religione senza Dio di Piccolo Buddha; il matrimonio infernale di Occhi di serpente, il matrimonio omosessuale di Banchetto di nozze. Insomma David Cronenberg, Wim Wenders, Brian De Palma, Nanni Moretti, Stephen Frears, Clint Eastwood, Bernardo Bertolucci, Abel Ferrara, Ang Lee: chi diceva che il cinema d'autore e le feste di fine d'anno sono incompatibili, che a Natale e a Capodanno la gente vuole dai film soltanto favole, dinosauri, commedie sentimentali, comici sfrenati, disegni animati, risate ribalde, divertimento senza pensiero, irrealtà, volgarità, facilità? Se nel 1991 a Natale c'erano nei cinema pure Gli amanti di Pont-Neuf di Carax o Fino alla fine del mondo di Wenders, se nel 1992 c'erano pure Il danno di Louis Malle o Orlando di Sally Potter, in questo Natale i film d'autore sono molto più numerosi. Il fenomeno si amplia, si conferma: anche per l'accresciuta celebrità e accessibilità dei grandi registi, per i casi del mercato. Magari si è finalmente capito che non esiste Il Pubblico, entità sterminata unica e compatta dagli identici gusti, che esistono invece tanti tipi diversi di spettatori dalle molteplici scelte; che fra scelte differenti quella del cinema d'autore non è certo l'ultima, neppure quando è rappresentata da due film imperfetti come M. Butterfly e Così lontano così vicino. La vicenda di Madama Butterfly, opera in tre atti di Giacomo Puccini su libretto di Illica e Giacosa, andata in scena per la prima volta alla Scala nel 1904, la conosciamo tutti: la geisha Cio-cio-san sposa secondo il rito giapponese il tenente della marina americana Pinkerton; poi lui parte, non dà più notizie, non sa del figlio nato dall'unione, si sposa di nuovo con un'americana; scoperto il tradimento, lei indossa l'abito cerimoniale e si uccide sventrandosi col pugnale, facendo harakiri. La M che nel titolo del film di David Cronenberg sta al posto di Madama non è Mr. (abbreviazione di Mister, signore, in inglese) né Mrs. (signora): è la inedita sigla d'una ambiguità sessuale. La storia non ricalca il melodramma, né semplicemente lo capovolge. Deriva da un testo teatrale del 1988 di David Henry Hwang, ispirato a un articolo di giornale su un processo per spionaggio del 1986 e quindi a un episodio di cronaca: vertiginoso mix multimediale di realtà e finzione, a cui si aggiunge un romanzo di Serge Grunber pubblicato da Sperling & Kupfer. Imputati a quel processo erano il diplomatico francese Bernard Boursicot e la sua amante cinese Shi Pei Pu, ex primadonna dell'Opera di Pechino, conosciutisi in Cina nel 1964, genitori di un bambino, accusati di spionaggio a favore dei cinesi: ma la primadonna era in realtà un uomo e il diplomatico affermo' in tribunale di non essersene mai accorto durante oltre vent'anni, “I nostri incontri avvenivano spesso al buio, Shi era molto pudica e timida”. Quella che in teatro era una commedia, in M. Butterfly di Cronenberg diventa una tragedia d'amore, una parabola sull'identità, sull'automistificazione e sul sogno. Nel film non ci sono molti equivoci, si capisce subito che John Lone è un uomo, che la finzione d'un legame eterosessuale e d'un figlio è recitata per il sentimentalismo e il piacere della coppia, che il tradimento atroce dell'amante cinese non sta nell'essersi finto donna ma nell'aver spiato e sottratto segreti all'amato, che Jeremy Irons sapeva: “Quello che ho amato era una meravigliosa illusione. Sono un uomo che ha amato una donna creata da un uomo. Il resto è niente”. Il resto è morte: condannato alla prigione, durante uno spettacolo carcerario, truccato e vestito da Madama Butterfly, cantando e piangendo, Irons si taglia la gola. Il film è in gran parte irrisolto (pessima e povera la ricostruzione storica della Rivoluzione culturale cinese), rischia continuamente il ridicolo, non è drammaturgicamente centrato: ma la forza dell'eros, del dolore e dell'ambiguità lo rendono affascinante.
Lietta Tornabuoni, La Stampa


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Nessuno è perfetto. Neanche Cronenberg, che nella sua ormai lunga serie di variazioni sul tema dei sesso angoscioso e deviato, delle incerte identità, tenta con M. Butterfly un film sull’ambiguità sessuale e scivola fragorosamente sulla buccia di banana della credibilità. La storia è vera. Un piccolo funzionario dell’ambasciata francese a Pechino nei giorni immediatamente precedenti la rivoluzione culturale, tale Bernard Boursicot -che nella pièce teatrale di David Henry Hwang e nel film che Cronenberg ne ha tratto si chiama, con buona pace degli omonimi editori, René Gallimard, diventato l’amante di una primadonna dell’Opera di Pechino (senza ovviamente sapere che le primedonne dell’Opera di Pechino, come ormai ha insegnato a tutti Addio mia concubina di Chen Kaige, sono di sesso maschile), scopre dopo quasi vent’anni di convivenza che la sua bella è un uomo.
Roba da non credersi. E infatti non gli credette il tribunale francese che condannò Boursicot e il suo compagno a sei anni di carcere, in quanto la strana coppia aveva trasmesso una trentina di documenti riservati del governo francese agli agenti cinesi. Boursicot disse di aver fatto la spia solo per amore, preso dalle invenzioni dell’amico su ricatti politici e altro. E, cosa più incredibile ancora, sostenne a piè fermo di non essersi mai accorto che l’amico fosse, appunto, un amico. Una storia a cui si potrebbe credere solo se Boursicot avesse la faccia di Osgood Fielding III - il miliardario innamorato di Jack Lemmon in A qualcuno piace caldo - e David Cronenberg lo humour di Billy Wilder. O, quanto meno, il gusto del grottesco e la follia di Pedro Almodovar.
Invece, dopo averci trasmesso la sua raccapricciante visione della maternità (Brood) e della sessualità femminile e dopo aver espresso in Il Pasto Nudo, attraverso gli incubi di William Burroughs, il senso di colpa per le tentazioni omosessuali, viste come l’orrenda aragosta gigante che succhia il midollo del protagonista, Cronenberg fa sua l’incredibile storia, con tutti gli interrogativi pratici che suscita (va bene l’ignoranza dell’anatomia femminile, va bene la fretta e la distrazione amorosa, ma insomma, questi due come si amavano?) e cerca - senza riuscirci - di raccontare una storia d’amore al di là del sesso.
Non fa neanche l’altra possibile operazione: l’analisi del perché un uomo che pretende di essere normale riesca a proiettare su un altro uomo la sua fantasia o il suo desiderio di un’immagine femminile di comodo. Come dice peraltro l’unica battuta del film illuminante in materia: perché le primedonne dell’Opera di Pechino sono in realtà uomini? Per permettere agli uomini di immaginarle come piace a loro. E quindi, in questo caso, femminile come solo un travestito sa essere, schiavo d’amore, masochisticamente e totalmente dedito come si confà a chi interpreta il ruolo della “honey trap”, della trappola al miele di cui sono piene le storie di spionaggio.
Peccato che Cronenberg, prima di dare il via al suo M. Butterfly, non abbia fatto in tempo a vedere Addio mia concubina, per capire come si possa esprimere in maniera commovente un’incerta e sofferta identità sessuale. E che non abbia visto La moglie del soldato per capire quanto a lungo si possa nascondere a chi va a letto con te di che sesso sei.
John Lone, già bravissimo ultimo imperatore, nel ruolo di Song Liling ha invece l’ambiguità dei Legnanesi, un’ombra perenne di barba e una voce (almeno nella versione italiana, che si immagina un’accurata copia dell’originale) da basso profondo che cerca di fare il vezzoso. E ancora più stereotipati sono i suoi atteggiamenti di pudore e di grazia femminile. Quanto al povero Jeremy Irons, forse perché il suo personaggio non brilla certo per intelligenza né per cultura (meglio tacere delle sue analisi politiche), non sa bene che faccia fare, mentre la sceneggiatura perde per strada senza pudore sua moglie Barbara Sukowa, racconta una rivoluzione culturale da offoffBroadway e, nel seguire la carriera à rebours di Gallimard, da viceconsole a motociclista del Ministero degli Esteri, maltratta la logica narrativa.
Dei peccati di Madame Bovary Flaubert dà la colpa - anche - alle troppe letture romantiche. Qui galeotta dell’intrigo è la musica di Puccini, che non riesce a commuovere, in questo contesto così evidentemente falso, nemmeno nel drammatico finale. Curioso: perché persino in una favola kitsch come Pretty Woman la musica della Traviata ci parlava dei personaggio e inteneriva i cuori. Ma a Cronenberg fa difetto un enzima fondamentale per chi non ha talento per la tragedia: l’ironia.
Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano (Feltrinelli)



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Debuttò al festival di Toronto, racimolò un milione e mezzo di dollari in due mesi e un pugno di teatri. Nessun battage, nemmeno per Jeremy Irons e John Lone/ultimo imperatore. Pochi l’hanno visto e quei pochi ne hanno scritto male: perché mai è stato prodotto, distribuito e imbavagliato? Risposta: perché David Geffen, già vice-presidente della Warner Bros., aveva portato M Butterfly a Broadway e allo Shaftsbury Theatre di Londra, con esiti trionfali. Perché Cronenberg aveva le carte in regola per un secondo exploit. Perché il suo cinema abita la zona morta fra il reale e l’immaginario, partorisce doppi e mutanti. Però la stampa americana boccia il film e alla Warner Bros mancano il coraggio e i quattrini per strapparlo all’oblio. Entrambe prendono un abbaglio: l’una apparentando M Butterfly e La moglie del soldato (troppo virile John Lone per clonare Jay Davidson), l’altra vagheggiandone gli incassi. Cronenberg se ne frega del verosimile; nulla gli importa dell’effetto-sorpresa o dell’affaire (pecoreccio) che ispirò il dramma; pochissimo dell’omosessualità, dell’androginia, del travestitismo, della devianza. Importano al pubblico dei talk-show, se mai; vi si arena l’attenzione della critica. Raboni così stroncava l’allestimento italiano con Tognazzi e Brachetti: “Sembra quasi che Hwang abbia deliberatamente trascurato il problema della verosimiglianza, considerando come una garanzia sufficiente la verità cronachistica dell’episodio (...) Se c’era nel fatto un potenziale spessore di senso (...) esso stava nell’insondabile ambiguità del comportamento del protagonista, nell’impossibilità di decidere con sicurezza se egli davvero ignorasse, oppure fingesse di ignorare, oppure fosse costretto dal suo inconscio ad ignorare l’effettiva identità dell’essere amato. Ho l’impressione che Hwang abbia (...) reso del tutto impraticabile, disinnescandola a priori, tale possibilità, per puntare invece su una spiegazione basata sull’ignoranza, l’ingenuità e i pregiudizi dell’uomo bianco”. (Corriere della Sera, 21 gennaio 1990). Impressione fondata. Sennonché Cronenberg smonta e rielabora la pièce. Chi abbia visto la messinscena londinese ricorda le tirate e i virtuosismi di un Anthony Hopkins-mattatore; chi quella italiana i voli grotteschi di un Tognazzi stanco e spaesato. Cronenberg decelera, prende le distanze dagli eventi, raffredda le scene madri, imbriglia i personaggi, licenzia la farsa e il mélo. Al contempo, gonfia la colonna sonora con le note della Butterfly pucciniana e inquina le immagini con i dettagli della partitura, del disco, della copertina, del grammofono. Si serve dell’aria “Un bel dì vedremo” per l’incipit del primo atto (il concerto), per quello del secondo (l’Opéra), per la fine del terzo (il suicidio). Nella scrittura polifonica, il contrappunto sovrappone due o più linee melodiche orizzontali; in quella cinematografica, il montaggio può alternare due azioni sincrone, ma spazialmente distanziate; sovrapporre le icone e la banda sonora. Con significati opposti e contrari. Già nei titoli di testa il melodramma sposa la computer-graphics; Puccini reclama un briciolo di pathos e Cronenberg glielo rifiuta; i diplomatici sono francesi, ma tradiscono un accento britannico. Ossimori? Antifrasi? Le marche linguistiche si sfrangiano e si annullano a vicenda, i contrasti sfumano, le dicotoie si svuotano? Ci convincono di meno i parallelismi storici: l’Opera di Parigi e quella di Pechino, il ’68 e la Rivoluzione Culturale, il consolato francese e i burocrati cinesi. Ma non convincono neppure Cronenberg, che si riscatta soltanto quando la cronaca assurge a simbolo: vedi la Giustizia, il tribunale, i magistrati col tocco e la toga. È esistenziale il tema del film, dichiara Cronenberg. Non cronachistico, né scandalistico. Questa la chiave: “I am a man who loved a woman created by a man (…) What I loved was the lie”. Il sogno, l’illusione di una femminilità senza macchia, pudica, arcana, mansueta, lontanissima da quella indocile e volgare delle donne bianche. René vuole un rapporto onesto, “no falseness between us”. Però lascia che Song Liling inventi se stesso come donna, la Cina come Utopia; lascia che si metta-in-scena come Madama Butterfly. “Only a man – gli dice l’artista – knows how a woman is supposed to act”. Quando la recita finisce, quando l’illusione muore, René smette i panni dello “yankee vagabondo” e veste quelli della fanciulla turlupinata, il kimono, la parrucca, la biacca. In uno specchio aveva guardato se stesso e la moglie parodiare la Butterfly di Puccini. Con uno specchio si squarcia la gola. Montaggio alternato: Song Liling in giacca e cravatta, l’aspetto virile. Gli amanti hanno completato la trasformazione e si danno il cambio. L’Uomo e la Donna, l’Oriente e l’Occidente, dicotomie infrante. I ruoli e gli spazi, già antitetici, si rivelano omologhi. Reversibili, intercambiabili.
Luca Norcen, Segnocinema n.65, gen-feb 1994
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