La realtà decodificata - due analisi

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
|Painter|
00sabato 21 febbraio 2015 18:36


LA REALTA' DECODIFICATA

“Non c’è tempo per non farlo”. Spiega Packer (Robert Pattinson) alla moglie semi-sconosciuta (Sarah Gadon). Nella N.Y. post-capitalista l’amplesso è un impegno, il denaro una forma d’arte e il tempo è agli sgoccioli. Anzi, peggio. E’ un “bene aziendale”. Ma Eric Packer è un giovane squalo della finanza: sa quello che vuole, sa quando lo vuole e anche da chi. Sa persino il futuro. Fino a prova contraria…
A un anno di distanza dall’uscita di A Dangerous Method, Cronenberg accoglie la sfida di Paulo Branco e porta sullo schermo il Cosmopolis di DeLillo. Ma il romanzo non è che il punto di partenza per un film perfettamente inserito nella poetica del regista.
Ci aveva lasciato con Jung e Freud persi nell’impossibile mappatura della psiche ed ecco che ne è stato di un secolo di Occidente. La realtà di Cosmopolis è un’entropia malamente filtrata da rappresentazioni inadeguate e fallaci. Eric Packer la vive soltanto per interposta persona, con un intero staff che fa da tramite con l’esterno, raccoglie i dati e li riferisce. Per l’universo asfittico della limousine i mercati sono numeri sui monitor, le minacce la faccia di un bodyguard al finestrino e la rivolta sociale nient’altro che stilemi tracciati con lo spray sulle fiancate. Nell’alienazione del suo abitacolo si consuma l’odissea capitalista, si mischiano e si accavallano sesso e affari, ispezioni mediche e commiati funebri, perle di saggezza e brandelli di cultura. Ma non il taglio dei capelli. Quello è il “rito” per cui Eric è disposto a rischiare la vita e attraversare da una parte all’altra una Manhattan in piena sommossa.
In una realtà codificata dai simboli- dove persino immaginare il futuro è immaginarne i titoli e gli slogan-“aggiustare il taglio” è scolpire l’immagine che definisce identità. Il barbiere è allora il sacerdote investito del potere di farlo, l’unico depositario del passato di Eric, il solo rapporto con le radici che conservi un approccio cultuale. Ma anche questo non è che un feticcio illusorio e quando il mondo di Eric si sgretola, fatalmente fiaccato dall’imprevedibile, il taglio ne riflette l’irrimediabile dissesto.
Trincerato dietro gli occhiali scuri e un’automobile insonorizzata Packer è l’emblema dello scollamento tra capitalismo e mondo reale, totalmente assorbito nei codici di un sistema ormai prossimo al collasso e corroso dalle psicosi contemporanee. Prima tra tutte, quella dell’interpretazione della realtà attraverso i segni per prevedere e anticipare il futuro, che all’ossessione divinatoria per l’andamento dei mercati unisce l’ansia preventiva tipica delle crisi- e degli Stati Uniti post 11/9.
La presa di coscienza della cellula degenere- sia questa l’errata previsione di mercato o l’asimmetria “endemica” della prostata- determina il crollo delle certezze di Packer e l’implosione del suo universo. Nella proliferazione del caos (di cui il ratto è il simbolo) Eric fa fronte alla propria incapacità di comprenderlo. Vi si immerge progressivamente spogliandosi di ogni filtro intermedio, dagli occhiali fino alla scorta personale. La sua parabola discendente è un disperato affrancarsi dai suddetti codici, dalla loro ripetizione identica e autoreferenziale: appropriarsi del codice che dà accesso all’agire– nella fattispecie quello della pistola- per poi tentare di superarlo alla ricerca del gesto imprevedibile, dell’azione anomala e quindi unica, il prototipo originale (“Cosa stai facendo?” “Non lo so”).
Cronenberg mette in scena la migliore rappresentazione cinematografica dell’instabilità contemporanea, traducendola nella dissociazione tra linguaggio ipertrofico e messa in scena essenziale. La macchina da presa incombe sui volti come memento mori, incollando i personaggi in perimetri claustrofobici in cui il contesto è solo sfondo fuori fuoco. La nemesi di Packer, il suo doppio speculare (Paul Giamatti) è l’ultima, delirante illusione di equilibrio. Ma non c’è alcun ritorno all’ordine, nessuna ottimistica speranza di armonia.
Lisa Cecconi, indie-eye



***

LA RICERCA DEL RIFUGIO IN SE STESSI

“Ho reso la mia limousine insonorizzata, tramite del sughero, per non sentire i rumori della città”
“E ha funzionato?”
“Ovviamente no, ci sono rumori del diciassettesimo secolo che ancora non si sono estinti, ma l’importante è che ci sia”
“Cosa?”
“Il sughero!”

Eric pranza con sua moglie, i due non si conoscono, nonostante siano sposati. Questo scambio di battute, al di là della scientificità asfissiante dello script, ci permette di capire il vero senso dell’ufficio-limousine dove il protagonista passa la maggior parte del tempo: regno dell’ordine blindato e insonorizzato, scortato a vista da un bodyguard che lo affianca a passo d’uomo, luogo squisitamente mentale, concentrato di hi-tech e di design futuribile all’interno del quale ricercare un ordine ed una simmetria impossibili. Del mondo esterno, tutto ciò che interessa o entra fisicamente o è a portata di scroll. Raramente come in Cosmopolis gli spazi scenici derivano direttamente dall’inconscio dei personaggi, la prossemica assume una funzione espressiva analoga e complementare a quella dei dialoghi, costituendo insieme ad essi l’affronto maggiore di Cronenberg al cinema tradizionale. Le parole-chiave, a livello sia scenografico che di script, sono autoreferenzialità, razionalizzazione, controllo, imperturbabilità: come nei dialoghi abbiamo persone che parlano e non comunicano, allo stesso modo gli spazi sono radicalmente divisi, visivamente e acusticamente, compartimenti stagni. Eric è assolutamente indifferente alla comodità del suo abitacolo, e anzi, da un lato non capisce bene che senso abbia muoversi su un bestione così lungo e ingombrante, dall’altra parte lo impaccia in qualsiasi azione che abbia a che fare con il proprio corpo (fare sesso, urinare, farsi ispezionare il retto). Allo stesso modo, non è neanche il tipo di persona che ostenta la sua ricchezza: la limousine, tradizionalmente simbolo di lusso e di potere, viene qui svuotata di tutto il suo significato simbolico tradizionale, per farsi altro. Dopo l’atto vandalico dei manifestanti, Eric non si curerà minimamente di eliminare lo spray e le ammaccature dalla sua carrozzeria: l’immagine di sé all’esterno non ha alcuna importanza, ciò che conta per Eric è avere il controllo sul suo mondo. Eric controlla quello che esperisce, esperisce quello di cui ha bisogno, e ha bisogno di perfezione, di “micronizzazione”. In questa logica, andare dal barbiere acquista molta più importanza del clima barricadiero che si intravede dai finestrini, e agli stimoli del quale il protagonista reagisce in modo totalmente indifferente (non reagendo nemmeno alle forti scosse fisiche che i manifestanti imprimono all’auto).
La distruzione di questa torre di Babele, l’attrazione (o meglio, la mutazione) verso il disordine e la caoticità della realtà si manifestano, infatti, come uscite fisiche da questo castello contemporaneo, senza storia e senza coscienza di sé (“tutto ciò che è attuale è troppo contemporaneo”, dirà Juliette Binoche in una scena). Uscire dalla limousine, per Eric, equivale a perdere il controllo: la conversazione raziocinata (e resa in rigidi campi-controcampi) si sgretola. La moglie, ricca poetessa che non riesce a sostenere l’impazienza e l’autoreferenzialità di Eric; il pasticcere rumeno, simbolo di un’esaltazione del disordine fine a se stessa (l’agguato tra l’altro avviene in una piazza piena di fotografi a cui, ovviamente, Eric non bada); il campo da basket, luogo chiuso alla rete (o libero dalla rete di un mondo in decadenza, a seconda del punto di vista della MdP), rete al quale il protagonista si aggrappa prima di sbarazzarsi del bodyguard. È il punto di svolta, di non ritorno, la guardia dell’ordine diventa superflua, il castello di carte crollerà fatalmente: Eric non si pulisce la faccia (in contrasto con la pulizia impeccabile della sua auto), si taglia i capelli a metà, e abulico e divertito si reca verso il luogo della sua disfatta: la casa di Benno, ex “servo del padrone”, ora disoccupato rancoroso che ha fatto della vendetta nei confronti di Eric la sua unica ragione di vita.
Come l’ufficio mobile di Eric è il regno del controllo, così lo scantinato di Benno è il regno del disordine, del cumulo, della polvere, del tempo. Entrambi i luoghi (scantinato e limousine) sono totalmente autoreferenziali, rifugi non comunicanti l’uno con l’altro: è proprio la non comunicazione (verbale e spaziale) a rappresentare la cifra stilistica e il nucleo drammatico dell’opera. Eric arriva nell’antro di Benno, e si chiude istintivamente in bagno, un bagno scomodo, di fortuna, esattamente come quello della limousine: da ambo le parti c’è un’innaturale chiusura antisociale, a riccio, raccolti in se stessi persino nelle proprie funzioni più elementari. Il bagno, inoltre, serve rimanda ad un altro spazio scenico, se così si può dire: quello rettale. Entrambi i contendenti hanno la prostata asimmetrica, entrambi fanno parte della stessa necessaria imperfezione del mondo, ma reagiscono a questo caos naturale uno ottimizzandolo e razionalizzandolo oltre ogni limite, l’altro adottandolo come forma mentis e rifiutando al contrario ogni tipo di raziocinio. Il contrasto è inevitabile ed esplode nel drammatico finale, che si lega a doppio filo con la contemporaneità: la denuncia anticapitalistica, solo apparentemente lasciata in secondo piano (“tu dovevi salvarmi!”, sarà l’ultima battuta del film), già visivamente si era manifestata in altre sfide visive, come gli agguati già descritti o i lanciatori di topi all’interno della tavola calda.
In questa lotta, che molto cronenberghianamente vede l’uomo contro la sua stessa natura, l’unico rifugio sembra essere la biblioteca, vissuta dalla moglie e evocata da Benno nel finale, luogo dove l’attualità esce dal contemporaneo, dove la percezione di sé e della propria limitatezza (sia nel caso di Eric che di Benno) si fa totale. Il resto è solo un’esibizione di sé senza scopo, in un mondo dove nulla viene nascosto, tutto è palese, ma nessuno lo vede. La distruzione, il disordine, e la morte, sono perfettamente esibiti (si pensi solo alla bara trasparente del cantante morto), le informazioni sono a portata di tutti (basta accendere la tv, come farà Eric su suggerimento del suo consigliere): il limite alla conoscenza non è imposto in maniera coercitiva da un’istituzione politica o economica, ma auto-imposto dall’uomo stesso, protagonista o antagonista che sia. Questa, sembra dirci Cronenberg, è la chiave per interpretare non solo il film, ma anche e soprattutto la Cosmopolis in cui viviamo.
Raffaele Pavoni, indie-eye.it
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 06:19.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com