Il disagio del vivere: da Bresson a "Crash"

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|Painter|
00giovedì 3 settembre 2009 12:43

Il disagio del vivere – da Bresson a Crash

IL DIAVOLO, PROBABILMENTE


Il cinema è sempre stato in primo luogo un mezzo espressivo. La maggior parte dei lavori, anche quelli apparentemente definibili leggeri, è portatrice di un messaggio. A volte l’autore è volutamente ermetico, altre volte lascia chiaramente emergere il senso del messaggio che intende inviare, ma inevitabilmente un lavoro ben fatto è quello che fa risuonare dentro di noi gli echi di ciò che esso rappresenta. Ovviamente la percezione dell’emotività, insita in un film, è influenzata da molti fattori: primo tra tutti la nostra disponibilità a percepire il senso dell’opera che andiamo a visionare, e inoltre la nostra apertura verso il tipo di tematiche di cui essa è portatrice.
Ritengo che ci siano film che, più di altri sono destinati a rimanere nella storia del cinema per la loro capacità evocativa e per il senso che essi hanno all’interno dell’epoca storica in cui sono stati prodotti. Molti sono i film che mi vengono in mente, a questo proposito ma sono pochi quelli che mi sentirei di indicare come realmente significativi.
Dovendo fare una selezione, per cominciare un discorso su alcuni di questi film occorre tracciare dei binari all’interno dei quali definire delle categorie per un’analisi a tema. Morale e redenzione all’interno di un discorso sulle scelte esistenziali dei protagonisti mi sembra molto calzante, specialmente in registi come Robert Bresson, Abel Ferrara e David Cronenberg.
Ad un primo esame questi tre registi non hanno nulla in comune ma, se andiamo a guardare da vicino i protagonisti dei loro film scopriamo che sono tutti personaggi molto singolari, con storie fuori dagli schemi comuni e, inoltre sono tutti ad un bivio cruciale per le loro esistenze. […]
Idealmente si potrebbe seguire il filo del disagio del vivere, lanciato da Bresson e successivamente raccolto anche da Ferrara, fino ai film di David Cronenberg. La prima cosa che salta all’occhio in una disamina dei suoi lavori, tralasciando per un attimo tutte le chiacchiere sulla nuova carne e l’uso del corpo nei suoi film, è l’impossibilità per i suoi protagonisti di una vita cosiddetta normale. Il disagio ultimo dei suoi personaggi è dato da una totale incomprensibilità delle regole del vivere comune. In Inseparabili il problema è la simbiosi irrisolta tra i fratelli, il dolore della solitudine mai affrontata e del bisogno mai dichiarato, in Crash è l’impossibilità di accettare la morte come destino ultimo e il desiderio di trascenderla con esercizi di assuefazione, ancora in eXistenZ il desiderio della mente di esercitare funzioni al di fuori della cosiddetta realtà.
Crash è un fantastico esempio di quello che in Cronenberg è divenuto celebrazione del diverso, un discorso iniziato anni fa con i primi film e che è sfuggito ai più a favore di una facile individuazione di una tematica di superficie come quella della poetica della nuova carne. La chiave di lettura di Crash è da ricercarsi in una volontà di rappresentare i riti di passaggio nel corso della vita. Tutto il film è incentrato sulla sopravvivenza del mito alla morte violenta, in questo senso i protagonisti del film vivono tutti un tempo preso a prestito, dunque territorio assoluto del mito. Il rito dell’incidente stradale è la chiave per accedere al mondo mitico rappresentato, la sessualità è il mezzo per affermare la propria sopravvivenza e il modo per celebrare il tempo in più che i protagonisti sottraggono alla morte. La chiave d’accesso per comprendere al meglio il discorso sul rito di passaggio è nella rappresentazione dell’incidente di James Dean. La morte di Dean dovuta ad un incidente automobilistico lo ha consegnato al mito, i protagonisti del film, in quanto sopravvissuti ad un incidente d’auto sono essi stessi mitici, nel senso che hanno in comune sia la sopravvivenza che la menomazione, ma sono anche coscienti che per entrare nel mito bisogna aver avuto un’esperienza che, in qualche modo gli ha cambiato la vita, la rappresentazione ha la valenza di acclamare chi riesce a sopravvivere più volte, sia all’incidente in sé che al passaggio attraverso l’esperienza mitica che simula la morte, il cui superamento li fa sentire vivi e non più mortali, non immortali però, la differenza sta nel fatto che loro possono morire, ma non ne sentono più la paura.
Questo rappresenta chiaramente un passo avanti rispetto alle tematiche celebrate in Inseparabili dove sembrava impensabile il superamento della paura, anzi l’intero film non rappresentava altro che il desiderio di Incesto Uroborico dei protagonisti, tale condizione di partenza era oggetto di nostalgia durante tutto il corso del racconto e neanche la tentazione rappresentata da Claire risultava abbastanza forte da attirare i due verso la separazione e la cosiddetta normalità. Chiaramente in queste condizioni il problema non è più la morale di partenza o la redenzione, se così si può dire come punto di arrivo, il tutto è capovolto a favore di un discorso sulla capacità di coesistenza dell’una e dell’altra in una condizione di totale alienazione dal reale. Inseparabili è il punto di incontro della paura di vivere con il desiderio di essere nel tempo, nel senso che i due fratelli coltivano sia l’illusione di potere data dal desiderio di controllo che esercitano sulle donne, che il culto della staticità all’interno di un’illusione di autosufficienza che verrà negata con forza nel finale dove la morte è il tentativo ultimo di mantenere lo status quo. Se in Inseparabili la scelta finale ha il sapore di sconfitta e la redenzione risulta irraggiungibile, in Crash il tutto è capovolto ancora una volta, la morte non è più la soluzione, bensì il problema che viene mascherato da una sessualità iperattiva, una sessualità che nega la morte, in contrapposizione con essa e che alla fine diventerà il veicolo del contagio, come nel Demone Sotto la Pelle. La redenzione è ancora una volta irraggiungibile, almeno attraverso la strada percorsa dai protagonisti, i quali fanno dell’assenza di senso una bandiera e della negazione della morte l’ultimo baluardo da condividere nel delirio onirico che pervade il film. Il delirio onirico diventa a questo punto la base dell’ultimo film di Cronenberg, eXistenZ nel quale risultano evidenti alcune manipolazioni di natura tecnica alle sue ossessioni basilari. Il punto di partenza è ancora una volta il corpo, che viene fornito di bioporta, come a voler suggerire che il gioco può essere una funzione dello stesso, senza moralismi né tentativi di interpretazione, il corpo oltre a sognare può anche giocare. Partendo da questo fatto fondamentale ecco dipanarsi il nuovo tentativo di Cronenberg di farsi strada al di là delle convenzioni comuni, il gioco è il nuovo veicolo, come in passato egli aveva usato la televisione ora ci regala una visione del gioco virtuale che sembra suggerire un futuro di funzioni abusate e di snaturamento della realtà. Come Max in Videodrome Allegra si fa risucchiare nel vortice rappresentato dal nuovo gioco, solo che questa volta si coglie una condanna sottile all’ipocrisia di chi vede nel gioco un pericolo per la realtà, poiché Allegra stessa sembra godere del suo duplice ruolo di vincitrice del gioco e vendicatrice dei sostenitori della realtà a tutti i costi. La morale è palesemente ostentata nel finale dove il tutto sembra richiamare l’attenzione sul rischio degli estremismi, gioco e realtà sono solo il pretesto che Cronenberg usa per dichiarare la sua personale visione del mondo dove chi agisce per conto di ideologie esterne non può sfuggire comunque al fascino di ciò che condanna. Mai siamo stati più lontani dalla redenzione, Allegra e i suoi amici sono la porta attraverso cui il mondo futuro di Cronenberg erompe nelle nostre tranquille esistenze urlandoci l’impossibilità di uscire dal dualismo normalità/appiattimento da una parte e unicità/distruzione dall’altro.
Siamo molto lontani dal punto di partenza, se con Bresson avevamo esplorato il dolore del tramonto del sacro, e i suoi personaggi ci avevano raccontato storie di quotidiano disagio di fronte alla consapevolezza dello scarso significato dell’essere; con Ferrara siamo entrati in un discorso di degrado sociale e di condanna di quelle che sono le modalità attuali di soluzione dell’angoscia di fronte all’annichilimento del Sé. Ed è con questa evoluzione del discorso che precipitiamo nel futuro che Cronenberg individua per noi, un futuro dolorosamente meccanicistico in cui l’unica possibilità di sopravvivenza è l’adattamento dell’uomo alle prospettive di alienazione che esso stesso ha preparato per sé.
Anna Maria Pelella, bloomriot.org

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