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Guardando al "nuovo" Cronenberg - analisi

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 14:11
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Sesso: Maschile
11/06/2010 14:11


Guardando al “nuovo” Cronenberg

Un Cronenberg minore, più di mestiere che di sostanza. Lasciate le contaminazioni che ne hanno fatto forse il più acuto ricognitore degli ultimi quindici anni di quei mondi intermedi dove tutte le contaminazioni possibili, reale-virtuale, carne-metallo, sano-schizofrenico, sono state passate al setaccio con feroce lucidità e assoluto rifiuto di adesione a ogni parrocchia che non fosse quella personale, stavolta Cronenberg affronta una storia che sembra fondamentalmente priva di interesse per gli angusti confini nei quali pare cacciarsi da sola.
A farla breve David Cronenberg pare intenzionato a disegnare un apologo sulla circostanza che vede, ferma restando la natura violenta dell’uomo, un possibile contenimento della violenza stessa all’interno del nucleo famigliare.
In altre parole: mentre certe condizioni eviteranno la comparsa di reazioni violente, il verificarsi di altre condizioni ne provocheranno inevitabilmente la comparsa.
A History of Violence si muove lungo questi due assunti. Nel caso specifico l’episodio che scatena il secondo tipo di reazione è rappresentato dall’irruzione nel caffé gestito da Tom Stall, all’apparenza un tranquillo padre di famiglia, di due balordi assassini (ai quali Cronenberg dedica i primi assai riusciti cinque minuti del film dove la tensione si taglia col coltello…).
Nel preciso istante nel quale la situazione sembra precipitare (uno dei due balordi sta per ammazzare a sangue freddo una delle dipendenti del caffé), scatta la reazione di Tom che dimostrando un’insospettata abilità sia nel combattimento a mani nude che nell’uso delle armi, fa fuori i due senza tanti complimenti.
La logica vuole ora che si passi direttamente al finale del film che appare come perfetto contraltare a quanto descritto sin qua, proprio perché sarà nella chiusura, ossia negli ultimi due gesti attorno a una tavola apparecchiata, che sarà dato modo di assistere alla chiusura del cerchio con il ritorno di Tom, che nel frattempo abbiamo appreso non essere stato uno stinco di santo nel passato, all’interno del nucleo famigliare, il che pare preludere a una possibilità di riscatto o comunque di allontanamento da quel cuore di tenebra che lo ha inghiottito nella parte centrale della storia, a dimostrazione quindi del primo assunto.
Le cose stanno così, e allora non si capisce bene a chi possa mai giovare incensare un film che è facile accorgersi soffrire di un pesante schematismo di fondo proprio nel suo giustapporre prima il demone che sonnecchia nell’animo umano e subito dopo l’esorcista chiamato a mettere le cose posto.
L’alfiere poi di cotanta tesi sembra funzionare ancor meno della tesi stessa. Mi riferisco a Viggo Mortensen, costretto a dar vita ai doppi panni di Tom e del suo feroce alter ego. Evocato prima a parole, quest’ultimo avrà modo in seguito di dimostrare anche nei fatti il suo “eccellente” istinto omicida attraverso letali scoppi di violenza che alla lunga sembrano strabordare le intenzioni stesse della storia, col risultato di far apparire Tom (mi è stato suggerito…) come un redivivo Steven Seagal in uno dei suoi ruoli preferiti, quello dell’ammazzatutti.
Sarebbe stato bello, ma tant’è, vedere scambiate le parti tra lui e il magnifico, dopo tanti, troppi anni di interpretazioni mediocri, William Hurt. Nei panni di Richie, il fratello di Tom, fare mellifluo, occhi perennemente acquosi, dà vita per non più di dieci minuti (ma sembrano due ore…) a un tale sfoggio di espressioni, cambiamenti di tono e di umore, da fare sembrare lo statuario Mortensen quello che è: un attore mediocre che chiamato ad incarnare due opposti, si trova a suo agio soltanto in uno.
L’antidoto ad un film così? Non c’è da andare a cercare chissà dove visto che la risposta è quanto mai semplice: Cane di paglia.
In concorso al 58mo Festival di Cannes e 2 nomination al Golden Globe 2006 come Miglior film e a Maria Bello come Migliore attrice.
Sergio Gualandi, thrillermagazine.it


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L’ultima volta per Cronenberg erano serviti sei mesi. Sei mesi durante i quali mi ero interrogato sul senso si Spider, del suo film più strano, ancorché più normale. Del suo abbandono del cinema di mutazioni della carne, concentrato ora più sulle evoluzioni della mente.
Poi, improvvisamente quel film aveva rivelato tutta la sua bellezza, tutto il suo essere profondamente intriso della poetica del regista, solo più matura, più compiuta. Anche stavolta la sensazione uscito dal cinema è stata di profondo turbamento. Cosa ha fatto il nostro canadese? Come mai queste scelta tanto divergenti dal suo cinema passato?
A History of Violence è un film linearissimo, una catena di cause ed effetti senza apparenti scossoni, talmente gelido da sembrare vuoto. Non che la pratica analitica fosse sconosciuta all’entomologo. Anzi, tutti i suoi film sono costruiti con rigore scientifico. Ma qui non c’è nessun carattere a prima vista ascrivibile al modo di fare cinema di Cronenberg. Il regista ha dato una svolta, molto decisa alla sua carriera, inaugurando una nuova stagione.
Lasciatosi alla spalle il terrore quasi surreale dei suoi precedenti lavori, in questa pellicola è concentrato sul grado zero della settima arte. Un film che gioca a sottrarre elementi, opera tanto estrema da apparire nulla. Ma è solo apparenza, perché il contenuto profondo si fa largo nella mente poco alla volta, lentamente, crescendo via via che il tempo passa.
La storia di Tom, padre perfetto della provincia americana, si incrocia con quella di Joy, spietato killer metropolitano: è la storia di una persona sola, di un unico uomo. I fantasmi esistono davvero, sono il passato e il futuro delle persone stesse, sono ciò che cerchiamo di cancellare.
Una famiglia si distrugge, trasformata dal virus della violenza. Un espandersi virale, appunto, di sangue e morte: un virus che si trasforma a seconda della coltura (o della cultura) sulla quale si trova ad agire. Una violenza orientata allo scopo, come quella di Joy, una violenza orientata alla protezione, come quella di Tom, oppure una rabbia cieca, senza senso e brutale: ancor più pessimistica perché è la violenza del figlio, appena sfiorato dal germe e già contagiato, più brutalmente, rispetto al padre.
Dunque l’assenza di aspettative che pervade il film, la sua catena consequenziale trova ragione nel suo voler essere storiografia di una violenza, come il titolo, fortunatamente lasciato in originale, lascia intendere. Una Storia di violenza, quell’“History”, traducibile con la S maiuscola dalla storia di tutti, invece che di un racconto personale. Quell’“a”, generalizzazione indeterminata, volta ad astrarre il racconto per farne una storia di molti. Ed infine quel “Violence”, senza articolo, parola ce già identifica il lungometraggio, lo incanala in un magma dal quale non si può più emergere.
Spesso, nel linguaggio comune, alla violenza si associa la spirale, curva generata da una funzione complessa. Ma qui siamo più dalle parte della retta, con la sua catena di cause ed effetti, magari difficilmente spiegabili, ma pur sempre tenuta sotto controllo da uno stile efficacissimo, da una messa in scena asciutta oltre ogni previsione.
Cronenberg ha svoltato nella sua carriera. Non è più tempo di curve pericolose, in cui il senso era difficile da afferrare nelle spire di una messa in scena stordente o di trame complesse. Non c’è più nemmeno la speranza distopica di una nuova carne. C’è solo l’uomo nuovo, vecchio come la Storia del mondo. L’uomo che può essere contagiato in ogni momento dalla violenza, e che non si fermerà più.
Non è più nemmeno il tempo di allucinazioni, quando la realtà stessa è allucinatoria. Una straight story quasi lynchana, un ritorno alla linearità. Ma una linearità da conquistarsi a fatica, con il tempo e la concentrazione, ecco cosa richieda la nuova fatica del cineasta canadese, lucido come non mai.
Per il voto reale, mi dispiace, amici, si dovrà attendere un po’ di tempo. Il tempo che serve al vostro recensore per digerire un percorso che da barocco si fa classico. E’ un salto importante, e significativo. E’ il tempo dell’analisi, della sottrazione contrapposta all’accumulo. Ed è un tempo necessario per districarsi dalla spire di una linea retta, figura così complessa da non esistere in natura, ed essere solo frutto della più vertiginosa delle astrazioni.
Michele Travagli, occhiaperti.net


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Che per David Cronenberg la sceneggiatura di Josh Olson propostagli dalla New Line Cinema avesse assunto le sembianze di un’allettante proposta di svolta o ulteriore maturazione della propria concezione teorico-cinematografica, ce lo fanno comprendere proprio le quantità ma soprattutto le qualità di budget e cast a disposizione per la realizzazione del progetto A History of Violence. Per Cronenberg non è mai stato possibile attuare la produzione di un film con simili presupposti, a partire dalla massima libertà legata alle scelte registiche concesse dalla produzione, e nel contempo anche la possibilità di rivedere integralmente lo script insieme agli attori; anche se è norma per il regista instaurare rapporti aperti con il cast e addirittura confrontarsi riguardo alle scelte più importanti. Quindi A History of Violence viene da subito interpretato dal regista come un progetto stimolante a livello tematico, in quanto apparentabile per molti versi all’excursus retorico intrapreso nel corso della propria carriera e filmografia, ma anche – al tempo stesso – come una non trascurabile rivincita pecuniaria da parte del regista rispetto alle fatture dei progetti più o meno “indipendenti” realizzati finora. Dopo le difficoltà di un lavoro come Spider, soprattutto a livello di finanziamenti, era fondamentale poter tornare a dirigere un film che consentisse con serenità il raggiungimento di ambedue i fini sempre perseguiti dal regista: quello di raccontare le diverse fisionomie psichiche e carnali dell’uomo post-moderno e quello di permettersi un’esposizione stilistica personale e incondizionata, che però contempli nello stesso tempo una parallela evoluzione tematico-stilistica del modus operandi cronenberghiano. Risulta evidente, a prodotto finito, come la formula utilizzata questa volta dal maestro canadese differisca da quella cui ci aveva precedentemente abituato: notevolmente più raffinata ed elegante la confezione tecnica, ma anche (più semplicemente) di minor effetto e approfondimento psicologico il contenuto. Tale osservazione esula dal manifesto e oneroso impegno dimostrato dal regista in sede di messa in scena, la quale spicca soprattutto in virtù di un agile e al tempo stesso marziale impiego della macchina da presa, basti pensare all’incipit in carrellata o al frequente calcare su primi piani raggelanti.
Appurato che come opera formale ci si trova probabilmente al cospetto di valori assoluti, nonché di una dimostrazione di grandezza registica (qualità che Cronenberg comunque non si è mai prefissato di inseguire ufficialmente durante la sua lunga carriera), A History of Violence non colpisce tanto perché film di David Cronenberg “come comunemente lo si intende”, piuttosto in quanto opera di lucida ed emozionale raffigurazione e conseguente riflessione sulla violenza che ci circonda e di cui noi stessi siamo primi artefici inconsci.
Il tema, per certi versi, ufficialmente, “poco cronenberghiano”, diviene tale a pieno titolo in corso d’opera; perché la violenza, come in eXistenZ la percezione del virtuale/reale, sono inquadrati come oggetti universali e concreti, a noi vicini perché con noi essi interagiscono quotidianamente, senza per questo motivo entrare a far parte della sfera deformante della psico(pato)logia e di come questa si riesca a manifestare nella nuova carne dall’interno dei corpi. La metodologia utilizzata in A History of Violence è però diametralmente opposta, in quanto Cronenberg fa provenire l’agente deformante dall’esterno, la violenza cui il protagonista viene richiamato giunge da fuori, è forestiera e si insidia nel suo inconscio, permeandolo con la sostanza ineffabile e insopprimibile della colpa, e del passato. Tom Stall è infatti vittima del passato, riemerge come lui stesso ammette da “tre anni di peregrinare senza meta nel deserto”, alla ricerca di chi, quando, come e dove essere, e di che nome e moglie avere. Insidiatosi in una tranquilla e solitaria cittadina americana, vive serenamente con moglie e i due figli gestendo un caffè, fino a quando proprio all’interno del suo locale entrano due rapinatori per compiere una strage. Il buon padre di famiglia a quel punto reagisce uccidendo abilmente i due delinquenti, e divenendo ben presto eroe per i media che lo proclamano cittadino americano modello, ma Tom Stall o chi ha indossato le vesti dell’esemplare giustiziere viene visto in televisione da chi probabilmente può far tornare presente quel passato solo apparentemente rimosso di violenza. A Carl Fogarty e Richie Cusack, due pezzi grossi della mala organizzata, il compito di giustificare un vita violenta come vita, e uno stato di apparente felicità come una struttura così debole da crollare al primo avvertimento di pura e indiscreta violenza.
I ruoli degli spietati conduttori di violenza spettano a due cameo d’eccezione come Ed Harris e William Hurt, in due interpretazioni “eccessive” che profumano di magistrali tópoi abbondantemente frequentati da molto gangster cinema. Questi assurgono a chiaro medium di violenza, causa di travalicazione temporale tra ciò che distanzia Tom Stall dalla propria vera identità, rendendolo “altro da sé”, e ciò che in realtà è Tom Stall, l’incarnazione di un’idea trascendente di una violenza evanescente che sembra riuscire a filtrare in ogni spazio. Per questo, anche il solo apparentemente superficiale – e manieristico – episodio di sottomissione al bullismo scolastico da parte del primogenito Jack Stall, all’improvvisa reazione iper-violenta di questi, nel mettere in scena il fattore genetico come agente mediante il quale la violenza è primo elemento del DNA a essere trasmesso, restituisce l’intero film a una dimensione puramente “storica” e immanente al destino degli uomini. La violenza, altro tema caro al regista, è qualcosa di trasmissibile attraverso la fecondazione e la psiche umana, proprio con lo stesso metodo per cui veniva allargata la tribù degli Scanners attraverso la trasmissione ereditaria di facoltà telepatiche. E un po’ come lo scontro finale tra Darryl Revock e Cameron Vale attraverso la (sop)pressione telepatica una volta scopertisi fratelli in Scanners, qui fra Joey/Tom e il fratello Richie Cusack avviene uno scontro “ad armi pari” che segue un tragitto maggiormente “classico” rispetto a una più consueta visione allegorica “croneberghiana”, risolvendo l’azione in uno sparo che perfora il cranio, lasciando a terra un cadavere devastato quanto una testa fatta esplodere sotto forte pressione telepatica. L’interpretazione dell’atto di uccisione è nel frattempo cambiato, maturato o meno l’effetto non è dissimile né in una nuova stirpe di uomini-alieni, né in una sparatoria fra scagnozzi da fumetto. La morte è sempre la stessa e non esiste una tangibile percezione di questa, sembra volerci suggerire Croneberg, sia che nel 1996 girasse un film dove le strade erano un percorso interrotto di amplessi infecondi e morte orgasmica, sia che oggi queste siano esclusivo mezzo di ricongiungimento violento e mortuario, come accade dopo le ben quindici ore di traversata americana praticate da Stall/Cusack verso il proprio passato.
Insieme alla propria collaudata troupe che ormai lo accompagna da quasi trent’anni, David Cronenberg parte da un fumetto (l’omonima graphic novel di John Wagner illustrata da Vince Locke) per universalizzare ed esteriorizzare attraverso il cinema i mali umani e sociali che caratterizzano il tempo in cui viviamo. Prediligendo ironica linearità e apparente coerenza espositiva a unione e analisi disturbanti delle psicologie e delle realtà percettive, A History of Violence si traduce in un film contemporaneo, quantomai necessario alla consapevolizzazione inconscia della vera e oscura causa di violenza, e degli sconvolgenti e forse addirittura inspiegabili effetti della stessa violenza sulla psicologia umana.
I corpi di Viggo Mortensen e di Maria Bello, disperatamente avvinghiati sopra le scale, sono di splendore incommensurabile, come del resto le rispettive interpretazioni e le musiche d’atmosfera composte da Howard Shore.
Davide Ticchi, positifcinema.com


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J. G. Ballard giudicò Crash di Cronenberg superiore all’originale autografo. Il romanzo affida al resoconto di una vittima le gesta di Vaughan, l’immolatore di Liz Taylor, e della sua congrega di adoratori di incidentali sepolcri. La psicologia dell’io narrante appare deliberatamente trascurata dal narratore, a vantaggio della libertà di invenzione. Il film conferisce alla psicosi di coppia i compiti del narratore onnisciente: racconta una storia dal punto di vista, spaventoso e mirabolante, della storia; in questo somigliando più a Giro di vite che alla matrice. I più preferirono celebrare all’uscita del film l’ennesima dissertazione scandalosa sulla fusione imminente di uomo e macchina: tema reso forse improrogabile dall’instabilità delle nuove versioni del più comune sistema operativo. Se l’eccellenza di Woody Allen nel trattamento delle nevrosi individuali è proverbiale, Cronenberg meriterebbe la “palma d’orco” per le simbiosi perverse e gli adattamenti estremi, anche cinematografici.
Ridotto a dichiarazione poetica, M. Butterfly attesta l’emancipazione di Cronenberg da un canone inibente di aderenza. Con schiettezza paragonabile al fair-play di Ballard, e in misura minore all’inerzia del recensore, Cronenberg afferma di aver intrapreso solo sul set la lettura del fumetto da cui è tratto A History of Violence (scritto da Wagner, autore del notevole Judge Dred, e disegnato da Vince Locke). Qual è l’animale che fa il barista nell’Indiana, il gangster a Filadelfia e zoppica vistosamente dopo aver ucciso per difesa due balordi in fuga verso l’Est? Tom Stall (Viggo Mortensen, tra i migliori interpreti di Cronenberg), il cui cognome inglese dice subito “stallo”, “casupola” e “poltrona teatrale”. A History of Violence si colloca al crocevia della storia atavica dell’uomo da cui il passato si nasconde con la storia americana dell’uomo con un passato da nascondere. Un gangster orbo dell’occhio sinistro, una bambina scenicamente invecchiata, due pretesi genitori adottivi, persino un portico di finte colonne greche si premurano di rammentare allo spettatore la parentela di Tom Stall con Edipo; e con tutta la stirpe tebana di precursori dei supereroi revisionati. Un atto violento di coraggio rende il mite capofamiglia Tom Stall televisivamente ubiquo e la sua prima vita lo rintraccia: non è la tarda pubertà al college nelle fantasie inscenate da sua moglie (una splendida Maria Bello, regressiva e funebre). Per difendere i familiari e la propria millantata identità Tom Stall stermina tutti i fantasmi che si fanno vivi, dopo aver tentato di dissuaderli applica i metodi di un tempo: forse non basterà perché la sfinge è in lui ed è un animale assai poco domestico. I suoi, ormai, sanno chi è; gli abitanti della piccola polis del Midwest in cui era rinato si sono come dissolti: nei film di Cronenberg, con felice automatismo, quando un cerchio ossessivo si stringe l’habitat trascolora in ellisse. Hitchcock, come è noto, identificò l’arte nella realtà depurata dalle parti noiose. Poe, padre fondatore del thriller, teorico suprematista della short novel, ne esaltò il rapido organizzarsi in funzione del momento finale. Un vero racconto di morte non dovrebbe avere parti morte. A History of Violence è breve e asciutto. Ma è anche lento e ridondante, paradossalmente.
Interrogati in proposito, informatori di solito attendibili argomentano che Cronenberg sarebbe abitato da due demoni gemelli: uno espressionista sciamanico, l’altro strutturalista necrofilo. L’espressionista è un artista della improvvisa dilatazione semantica del dettaglio. Ama assumere, come in Crash, il punto di vista dell’allucinazione, uno sguardo gorgonico. Si possono attribuire all’espressionista alcuni momenti capitali di A History of Violence: penso alle mosche che ronzano nervose dietro una zanzariera, presentendo un banchetto; al cincischiare di due banditi nel bel prologo: inconsapevoli della morte imminente, ma come per rimandare l’appuntamento; a un paio di memorabili accoppiamenti: solo Cronenberg riesce a filmare in modo così raggelante atti sessuali, mostrandoli come l’esito della virulenza cieca dei sottostanti polipai, comprovabile o delirata che sia. Il suo è un realismo patologico: vero non è il principio di realtà, ma il coacervo di forze irrazionali che lo determina. Non c’è esperienza fuori del trauma, esperimento senza rappresaglia dell’oggetto di studio, formazione senza deformazione, conoscenza senza affezione, forma senza vizio.
Il demone strutturalista di Cronenberg è incline al totalitarismo: è un feticista del tutto quanto il gemello delle parti. In quanto strutturalista antepone in fondo il sentire in accordo con gli altri al sentire secondo interna necessità. Nel comporre tende a prefigurare le reazioni del fruitore: una teoria, un modello perfetti altro non sono che la classe delle risposte a qualsiasi obiezione contemplabile. Strutturalista necrofilo suole alludere attraverso il pieno sistemico al vuoto incombente (penso al proliferale stordente di ruoli in eXistenZ; alla sovrabbondanza di sollecitazioni sensoriali ne Il Pasto Nudo). Tramite tra l’uomo e l’assoluto sono nei film di Cronenberg le malattie, la devianza e le tecnologie: le capacità endocrine di adattamento all’ambiente-tutto e quelle esogene. Non in A History of Violence, senz’altro la storia più schematica che Cronenberg abbia mai raccontato; e l’equilibrio tra i due gemelli si altera.
A History of Violence può essere con interesse letto come il caso di un individuo afflitto dall’idea morbosa di venir scoperto malvagio, e delle sue criminogene proiezioni; o addirittura coma la/una storia del perpetuarsi di quell’idea attraverso gli uomini che la pensano. Ma la difesa di Tom, della propria presunta normalità da supposte minacce, non passa per apparati intersoggettivi, siano essi sindromi o tecnologie contagiose (o l’intreccio di arti e pulsioni di M. Butterfly): la nozione di normalità non è trattata, come avrebbe potuto, nel suo costituirsi, ma data per assioma; e i significati non trovano, per la prima volta in Cronenberg, abbastanza significante. Vengono meno il senso di immobilità forzosa, di circolarità ineludibile, propri del cinema di Cronenberg, e più in generale di tutti gli incubi che io conosca. Cronenberg potrebbe aver esagerato nel mettere ordine nella sua Wunderkammer: almeno per i miei discutibili gusti, su cui ha peraltro esercitato costante influenza; forse A History of Violence è l’arte di Cronenberg depurata delle sue parti migliori. Il lavoro sugli attori protagonisti è ancora una volta eccellente. Ma senza i veicoli abituali delle malattie e delle tecnologie i suoi personaggi sono le schematiche ombre degli eroi in ambigua lotta con l’assoluto, con l’astratto e l’organico, dei film maggiori. Popolano un universo creativo provvisoriamente degenerato o in via di ristrutturazione. Lamento, in ordine sparso e senza pretesa di sistematicità, le inefficaci vicissitudini freudiane del figlio di Tom; il diritto consuetudinario malamente ipostatizzato nello sceriffo; il calligrafico fratello gangster e la sua ingombrante magione; il vuoto che intercala gli episodi clou, affatto diverso dal cupo senso di quiescenza post-coitale caratteristico dell’autore; i pochi immaginari visivi convocati da Cronenberg (con l’eccezione dei riusciti accenti western nei fatti di sangue e per qualche funzionale e suggestivo richiamo alla pittura americana degli anni Sessanta); la colonna sonora che, considerati i cospicui precedenti, è difficile credere sia stata curata dal regista.
Che il demone strutturalista di Cronenberg si sia liberato di sé, della sua connotante strumentazione, come Tom dei propri trascorsi, inaugurando un nuovo ciclo creativo? Che abbia spinto il suo massimalismo fino al minimalismo, alla riduzione estrema del tutto alle mere evidenze? Un film di Jarmusch, un racconto di Carver, un quadro di Hopper, un brano di Glass simboleggiano certo qualcosa, ma qualcosa di indefinito e perciò opprimente e indefinitamente allusivo. In una narrazione minimalista esemplificatoria “John annaffia i fiori” pesa quanto “Ho ucciso a colpi di vanga Tizio”. Un minimalista di tale sorta canta il disorientamento, la continuità informe delle cose, uno specchiato squallore. Un espressionista mira invece a esprimere la mutevolezza (anche in senso genico) del dettaglio, l’imprevedibilità minacciosa dell’ambiente. I due atteggiamenti poetici appaiono in irrisolto conflitto nello A History of Violence che ho malvolentieri diagnosticato entrare in fase critica ben prima dei titoli di coda: annoverando nondimeno parecchi numeri magistrali. Girato, si dice, per riparare all’insuccesso commerciale di Spider, A History of Violence (“il film che ha sconvolto Cannes” secondo l’ipocrita formula del trailer radiofonico) è un peculiare momento di sofferenza nella cinematografia del regista canadese.
Alessandro Carlini, frameonline.it
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