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Del metodo, della semiotica - alcune analisi

Ultimo Aggiornamento: 09/11/2011 11:27
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09/11/2011 11:27


Del metodo, della semiotica: alcune indagini sul "senso" di A Dangerous Method


Prima o poi doveva accadere che nella filmografia di David Cronenberg si incrociassero inesorabilmente la sua indagine personalissima sull’uomo e il tema scientifico della psicoanalisi. Un incontro annunciato da tempo, visto che l’intera opera del regista canadese, ormai non più “inscatolabile” dentro il puro genere, non è che una ricognizione sull’uomo e su tutti i possibili stadi del suo essere. L’esplorazione di un corpo in continuo movimento, colto nella fase in cui si avvia a mutamenti fisici (La Mosca, Brood – La covata malefica) o psicologici (Inseparabili, Crash) irreversibili; cambiamenti che sembrano quasi salti in avanti di un disegno evolutivo. Non c’è alterazione o lacerazione che interviene nella mente o dentro la carne dei suoi personaggi che non sia parte di un processo ri-generativo più complesso, un percorso inteso a ristabilire nuove coordinate dell’essere (umano). In Cronenberg, riflessione epistemologica e angoscia esistenziale non solo si incontrano e si armonizzano perfettamente, ma trovano anche una loro sintesi visiva ideale, grazie ad una messa in scena che riesce a mantenersi idealmente neutrale di fronte a qualsiasi sconvolgimento rappresentato, si tratti di parassiti sotto pelle o di pulsioni sessuali dirompenti. In più la sua è una filmografia che si distingue per l’eccezionale coerenza interna e per la continua ricerca che vi è impressa: non c’è episodio del suo personalissimo discorso filmico che non getti i semi per quello successivo.
Non esisterebbe infatti la riflessione dicotomica e psicologica di Inseparabili, se non passando attraverso la disintegrazione totale dell’essere fisico manifestato ne La Mosca, né sarebbe rappresentabile la meccanica sessuale e distruttiva di Crash, senza prima la demolizione dell’illusione sentimentale realizzata con M. Butterfly. Come per lo scienziato, anche per Cronenberg ogni traguardo non rappresenta altro che il punto di partenza per la successiva indagine. Oggi con A Dangerous Method, il regista porta idealmente a termine il discorso iniziato con le due opere precedenti, le più asciutte stilisticamente e per questo – a torto – giudicate “normali” o meno dirompenti, ma che in realtà affondano le loro radici nei territori più invisibili ma non meno perturbanti della socialità. Se difatti in A History of Violence era il nucleo familiare e socio-culturale ad essere scardinato nelle sue fondamenta (per poi essere ricomposto in una nuova forma dopo la liberazione del rimosso), con La Promessa dell’Assassino invece si assisteva, pur dentro una cornice da cinema di genere, alla messa in crisi dell’identità e al ripensamento del concetto stesso di “appartenenza”, in vista, anche qui, di una “rinascita” dell’individuo (e l’immagine finale di Viggo Mortensen a capo di un nuovo ordine, ne era il potente suggello).
In A Dangerous Method il regista, attraverso l’analisi del complesso rapporto maestro-discepolo-paziente instauratosi fra Freud, Jung e la giovane Spielrein, va dritto al cuore di questo scostamento identitario analizzando il progressivo ed inesorabile mutamento di personalità dei soggetti rappresentati, qui più che mai soggetti a continue inversioni del proprio essere (la Spielrein da paziente a studiosa, Jung da studioso a paziente). Se il pretesto è quindi offerto dalla particolare biografia dei tre personaggi, è pur vero che Cronenberg ritrae questo insolito triangolo sospeso fra la luce di nuove ispirazioni intellettuali e le ombre di un pericoloso rimosso (sessuale, familiare e, più sfocatamene, storico), come l’ennesima esplorazione sul tema a lui caro della contaminazione. Così, assistere allo spettacolo della ratio junghiana che cede sotto i colpi della sessualità sfrenata di Sabina Spielrein o al ridimensionamento della stessa mitologia freudiana, “contaminata” dal tema della morte come nuova forza pulsante, non è tanto diverso dallo spettacolo di un fisico ibridato progressivamente da un insetto o di una mente infestata da un germe televisivo.
Pur avanzando con uno stile molto più sorvegliato del passato Cronenberg (ri)costruisce questo momento cruciale del pensiero del Novecento, con lo stesso passo che contraddistingue i suoi lavori più audaci e (visivamente) sconvolgenti, rinunciando a certe sue tipiche astrazioni solo per rendere ancora più obiettiva la sua visione generale. È proprio grazie a questa lucidità stilistica che A Dangerous Method finisce per offrirsi non (solo) come nuova audace perlustrazione dell’inconscio, ma si trasfigura quasi in rappresentazione emblematica di un preciso e cruciale momento storico, quel momento in cui a confrontarsi non furono semplicemente le idee scientifiche sulla psicoanalisi, ma anche le ragioni culturali degli eventi. Sotto echi wagneriani che annunciano la tempesta successiva, le intelligenze qui messe a confronto non sono che evidenti metafore della storia: la fragilità ariana che si afferma attraverso la sopraffazione fisica (Jung), l’orgogliosa fermezza ebraica che però nasconde dentro i semi della futura sottomissione (Spielrein), la razionalità scientifica che vuole codificare una realtà suo malgrado sfuggente (Freud).
Tutti i personaggi con la loro vicenda personale, partecipano diversamente a questa rivoluzione, mentre la Storia (con la “S” maiuscola) nel frattempo decreterà i diversi destini di ognuno, facendo soccombere fisicamente la Spielrein (ma non le sue idee) e destinando i due studiosi a differenti conclusioni del proprio pensiero. Nonostante l’ambiziosa allegoria, sembra che a Cronenberg anche in questa ultima opera interessi più mettere in scena le dinamiche del cambiamento che l’importanza degli effetti successivi dello stesso. Ecco perché la figura della Spielrein è per lui l’epicentro perfetto di questo sisma ideologico, un po’come lo era già stato il personaggio di Geneviève Bujold che, in “Inseparabili”, incarnava il pretesto per operare la scissione psicologica fra i gemelli Mantle. La Spielrein come il virus di Rabid – sete di sangue o la bio-porta di eXistenZ che apre nuovi confini alla realtà, è il nuovo «strumento ginecologico per donne mutanti» che avvierà la “separazione” fra il maestro Freud e il discepolo Jung, sovvertendo gli ordini costituiti (del pensiero) e che, non a caso, è destinata a perire per mano degli eventi, scontando idealmente la novità delle sue intuizioni.
Anche in A Dangerous Method i sistemi vengono sovvertiti, ma non più al grido di “Lunga vita alla nuova carne!”, quanto piuttosto sotto i tagli silenziosi e profondi delle parole, che nel carteggio conclusivo fra Freud, Jung e la Spielrein si insinuano come altri demoni sotto la pelle pronti a sancire nuovi mutamenti. La psicoanalisi per Cronenberg non è che un Big Bang che ha liberato le idee per il nuovo secolo, il suo cinema invece sembra l’eco di questo universo ancora in tumulto, orgogliosamente fiero della sua infinita mutevolezza e ancora aperto verso nuovi sorprendenti viaggi. Non a caso il suo prossimo futuro porta il titolo di Cosmopolis
Andrea Lupo, dietrolequinteonline.it



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Clinico per tema e rigore formale, chirurgico per costrutto e linguaggio, asettico nella narrazione dialogica e visiva. Al di la del suo pur apprezzabile valore filmico, A Dangerous Method acquisisce ancor più spessore se lo si interpreta sul piano semiotico legato al suo autore.
E' come se in questo film Cronenberg avesse deciso di giocare a carte scoperte con il suo pubblico mostrandosi per quello che realmente è: uno psicanalista che usa come linguaggio il cinema nello stesso modo in cui Freud e Jung utilizzavano la "parola" con finalità maieutiche per la mente, anche se partendo dalle stesse basi e separandosi poi, inevitabilmente, sull'evoluzione degli studi (di questo, ma non solo, parla A Dangerous Method).
Il film è la nuova tappa di un percorso artistico scomodo ma al contempo affascinante attraverso le mutazioni, fisiche e mentali, della realtà, a costo di mettere in discussione se stessi con sprezzo del pericolo. E Cronenberg, cinematograficamente, non si può dire che non l'abbia fatto, che non lo faccia e, è ipotizzabile, che non continuerà a farlo.
Un po' come Burroughs faceva con la droga per la letteratura e Jung con la sperimentazione per la psicanalisi.
Non a caso quest'ultimo è il protagonista del film in questione e l'altro del memorabile Il Pasto Nudo (1991).
A Dangerous Method, in quest'ottica, oltre che la scommessa di Jung, diventa la perifrasi dell'opera cronenberghiana: un metodo pericoloso di usare l'immaginazione per dimostrare fino a che punto essa possa arrivare.
Il "dangerous method", in definitiva, è anche quello utilizzato per scrivere queste poche righe, prescindendo dalla materia statica della sceneggiatura per ambire al livello dinamico delle suggestioni che la cinematografica, grazie ai suoi maestri, è in grado di dare, elevandosi ad arte concettuale.
Sergio Palomba, F052.it



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L’incontro tra il drammaturgo Christopher Hampton e David Cronenberg si verifica nello spazio di un testo, The Talking Cure, scritto dal primo per il teatro e sviluppato intorno alla relazione complessa che ha attraversato le vite di Carl Gustav Jung, Sigmund Freund e Sabina Spielrein, figura centrale nel testo di Hampton cosi come nella sceneggiatura adattata da questo per il film del regista Canadese. Un territorio difficile e intimamente Cronenberghiano la cui derivazione teatrale non dovrebbe trarre in inganno come al contrario ci è capitato di leggere da parte di una critica da cronaca pagata per dormire al cinema o peggio ancora per stenografare, tout court, la superficie della visione. Insieme al fedele Peter Suschitszky Cronenberg ha lavorato con la consueta meticolosità ad una semplificazione della superficie visiva, riducendo la saturazione cromatica e costruendo uno sfondo tra scenografia e luce impalpabile e neutro, soluzione utile a rendere la presenza corporea degli attori ma anche ricerca sull’immagine molto simile agli spazi mentali di M. Butterfly, alle superfici cognitive di Spider, ai “drome” (circuiti, stanze, arene) del suo cinema. Viene in mente un vecchio (non certo come incisività) film sulla mutazione del corpo nell’immagine dello spirito che è Therèse di Alain Cavalier, dove la fissità del quadro e la neutralità pulviscolare dello sfondo rispetto ai corpi allontanavano quell’occhio dallo spazio “ovvio” del teatro avvicinandolo così al cinema delle origini; in questo caso i custodi dell’esegesi su Teresa di Lisieux non potevano accettare l’orrore che si nascondeva in quelle immagini, arrivando a giudicarle “infedeli”; siamo sicuri in questo senso che lo stesso cancro filologico potrebbe muovere le ragioni principali di alcuni detrattori del nuovo film del regista Canadese. Nel percorso che ha portato David Cronenberg alla realizzazione di opere sempre più endogene al concetto di mutazione, sempre più sottili nel tentativo di filmare cicatrici ormai invisibili, carne pulsante che risiede in un interstizio mentale, l’identità in transito del contesto familistico è un passaggio ulteriore che sposta la ricerca di un cineasta radicale nella difficile conquista di uno spazio invisibile che risiede tra parola e immagine, tutta la sequenza che ci mostra Sabina, Carl ed Emma Jung in una sessione legata alla “cura delle parole”, è una dolorosa metamorfosi in atto che percepiamo attraverso i volti, le parole stimolate da Carl, le risposte di Emma, il testo scritto dallo stesso Carl sul quaderno, e quel riverbero di luce che Sabina cerca di catturare e seguire con il dispositivo meccanico adibito alla rilevazione; oltre ad essere uno straordinario momento di possessione visionaria, ci suggerisce una volta di più come Cronenberg metta in atto un metodo davvero pericoloso di trasmutazione del corpo in immagine, parola, segno grafico, luce; se pensiamo a cosa ne avrebbe fatto, o meglio, a cosa ha fatto fino ad adesso (e a dove ahimè è giunto) Peter Greenaway, ci potremmo immaginare un accumulo di lessemi e sememi, dispositivi e formati; come a dire che nell’apparente distruzione dello spazio teatrale l’autore inglese tende quasi sempre a ricostruirne le trappole più ovvie a causa di una cieca ipertrofia visiva , Cronenberg invece a disintegrarle cercando al contrario l’invisibile nella semplificazione delle superfici, inclusa la scrittura percepita attraverso i carteggi epistolari che diventano elemento fondamentale in questo suo ultimo lavoro. Chi scrive allora che A Dangerous Method è un film “superficiale”, non avendo probabilmente ben presente di cosa stà parlando (o più modestamente, di quale superficie stia parlando) è evidentemente disturbato dalla rottura di un patto di verosimiglianza, che nell’individuare uno spazio dato (o percepito) come teatrale ce ne mostra i difetti, le aporie, le aperture, l’epistemologia brutale della mutazione. Era lo scandalo di M. Butterfly, ovvero, non riuscire ad accettare che John Lone fosse filmato in modo non “credibile”, ed è lo scandalo di un film che come un cuneo si conficca nel cervello della famiglia occidentale, mostrandone ancora, e con una prospettiva che diventa anche storico antropologica, le potenzialità più oscure come un raggio di luce sulla trasformazione delle relazioni. Sabina Spielrein nel suo diario scriveva: “mio padre ha su di me l’effetto di far comprimere nel mio intimo tutti i sentimenti“; una frase che non può non aver colpito Cronenberg, tanto da affidare a questo concetto un complesso scambio di mutazioni dove la figura della psicoanalista di Rostov diventa centrale solo a patto di considerarla come un conduttore di energia, un portatore sano di schizofrenia che colpisce non solo il mondo di Jung ma anche la fitta rete di relazioni che lo circondano. Come puoi sopportare tutto questo? chiederà Sabine a Carl dopo la descrizione di un nuovo percorso identitario; a molti sarà sembrata una banale fotografia sui residui di un rapporto, per chi scrive era la dolorosa e in-acettabile immagine di una metastasi al lavoro.
Michele Faggi, indie-eye.it



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L’unico metodo pericoloso è quello di David Cronenberg

Per anni Cronenberg ha dato forma, meglio carne, a quello che, mutuando una celebre espressione di J.G. Ballard, possiamo definire “lo spazio interiore”. Per anni ha lavorato intorno all’ossessione del corpo come entità in grado di produrre, proprio come un virus, altri corpi. Da discepolo di William S. Burroughs, Cronenberg ha sempre saputo che “language is a virus”. E come Burroughs ha condotto la sua indagine sino ai margini estremi del pensiero contemporaneo. Tutta la sua filmografia è un’indagine accurata è meticolosa, quasi tassonomica, delle teratomorfie implicite nel corpo. Come il Leslie Fiedler di Freaks, i film di Cronenberg hanno indagato le possibilità di vita al di là dei codici esistenti.
La grande intuizione filosofica di Cronenberg è stata di avere compreso, attraverso lo studio di Marshall McLuhan e William Burroughs, come il nostro sistema nervoso si sarebbe trasformato a contatto con la modificazione del principio d’individuazione e di realtà introdotti dalle nuove tecnologie digitali. Cronenberg, come Burroughs, ha condotto queste sue sperimentazioni in territorio analogico, proprio come l’autore de Il Pasto Nudo che studiando i cut up dei nastri magnetici ha dato corpo e forma totalitarismo della comunicazione di massa.
Marshall McLuhan interviene nella costruzione dell’universo poetico di Cronenberg attraverso la sua convinzione che i media, e soprattutto l’introduzione di nuovi media, rappresentano delle vere e proprie guerre psichiche. Ossia i nuovi sistemi di decodifica della realtà sostituiscono i precedenti e in questo processo attivano delle trasformazioni (anche fisiche). Per intenderci: il cervello di un bambino che usa il computer oggi è senz’altro diverso da quello di un suo coetaneo di venti o trent’anni fa. Videodrome, per esempio, raccontava proprio questo processo di mutazione e come e se era possibile intervenire su e in esso. Ogni nuovo media è un’estensione del sistema nervoso. E se il sistema nervoso modificato s’innamora di un virus e produce un nuovo organo? La poetica di Cronenberg danza sempre sulla sottile linea che separa il principio d’individuazione dal principio di realtà. L’uno modifica impercettibilmente l’altro, come dimostra M. Butterfly.
La geniale perversione di Cronenberg è di trattare il corpo come uno strumento di comunicazione. Una morbida macchina che serve per (in)scrivere nuovi codici e processare realtà altre. I virus, in questo, sono gli agenti di un cambiamento, un po’ come gli zombi per Romero. Il corpo, dunque, è il luogo-narrazione, metastabile per definizione, il teatro del cambiamento.
Cronenberg, con il tempo, è progressivamente stato sempre più attratto dal versante invisibile della mutazione. Basti pensare alla scelta di eliminare tutti gli effetti speciali a vista da Inseparabili o a M. Butterfly dove tutto accade nello sguardo del protagonista. E, ovviamente, il cinema di Cronenberg è uno schiaffo per i fautori della “verosimiglianza” che mal tollerano le incongruenze psicologiche dei suoi film (quando non c’è il rifiuto basato sul semplice rigetto moralistico della violenza).
Non sorprende, dunque, che il regista che in Inseparabili teorizzava concorsi di bellezza per gli organi interni, nel corso degli anni abbia messo progressivamente a punto una strategia che a partire dall’evidenza del corpo e delle sue manifestazioni arretrasse verso il cervello. Il primo sintomo di questa strategia, e per chi scrive l’unico parziale passo falso del regista, s’era manifestato con Spider, la schizofrenia come l’alba della scrittura (e quindi del linguaggio). Progressivamente il regista ha continuato a muoversi lungo queste coordinate, e con A History of Violence, una vicenda di mutazioni senza mutazioni (apparentemente) e con La Promessa dell’Assassino, un’altra storia di scritture e corpi mutanti, ha trovato le energie necessarie per confrontarsi compiutamente con quella che sembra offrirsi come la scena primaria del cinema cronenberghiano.
A Dangerous Method, a dispetto di coloro che rimproverano al regista di essersi convertito a una sorta di accademismo inerte, e ai tutori del verbo freudiano offesi dalle libertà che il regista si è concesso, sembra invece, a tutti gli effetti, la reinvenzione delle origini del cinema cronenberghiano.
Sin da Transfer, il suo primissimo cortometraggio del 1966, Cronenberg mette in scena uno psichiatra perseguitato da un suo paziente. In From the Drain, film dell’anno seguente, due uomini in una tinozza parlano, mimando il processo dell’analisi, sino a che uno dei due non viene strangolato da una pianta misteriosa (l’inconscio che emerge dal basso…). Ma sono soprattutto Stereo e Crimes of the Future che sembrano già preconizzare A Dangerous Method, con la centralità del medico-guru che torna in tutti i film del regista insieme alla relazione medico (analista)-paziente.
A Dangerous Method, quindi, è l’origine ideale dei melodrammi virali di Cronenberg. Non a caso attraverso la psicosi del personaggio femminile è possibile dare vita a un processo di scrittura che viene decifrato a sua volta dal corpo di un macchinario che letteralmente trascrive i processi del corpo (e siamo sempre in territori burroughsiani: non si scrive mai, al massimo si trascrive). Il sesso è il virus liberato dal corpo in trasformazione e la scrittura diventa la mappa di un nuovo mondo. Tutto il cinema di Cronenberg si ritrova distillato in A Dangerous Method.
In questo senso anche il classicismo del regista, sinora rimasto sempre all’ombra delle sue invenzioni più visionarie, emerge per la prima volta in maniera compiuta. L’inquietudine è affidata a impercettibili movimenti di macchina, a angolazioni di ripresa inconsuete, a lievi torsioni dell’immagine. Anche il film di Cronenberg replica le strategie mimetiche dei corpi: si vede sempre un’altra immagine e l’immagine visibile è solo la copertura mimetica, strategica dell’altra. La quintessenza del cinema di Cronenberg.
Ed è in questa danza dominata dall’immagine invisibile che il gioco di seduzione fra parola, scrittura e corpo che A Dangerous Method formula un progetto politico preciso: il corpo come sperimentazione di patti sociali ancora tutti da immaginare.
Giona A. Nazzaro, temi.repubblica.it/micromega-online
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