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"Method" secondo Gianni Canova

Ultimo Aggiornamento: 27/10/2011 19:13
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Sesso: Maschile
27/10/2011 19:13


La peste di Cronenberg
È la psicoanalisi la vera epidemia del ’900: questo dice A Dangerous Method, capolavoro di fredda bellezza


Lo skyline di New York appare all’orizzonte dopo che il bastimento ha attraversato l’Atlantico. Sigmund Freud (Viggo Mortensen) e Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) osservano dal ponte l’apparizione dell’America. Nel loro spazio visivo irrompe all’improvviso la Statua della Libertà. E Freud, con l’immancabile sigaro acceso tra le dita, mormora all’allievo/rivale: «Secondo lei lo sanno che stiamo portando la peste?». David Cronenberg non si smentisce: anche questa volta continua a essere il cineasta del contagio. Delle infezioni epidemiche. Delle mutazioni patogene. Altro che “tradimento” del suo cinema: in A Dangerous Method Croneberg racconta la psicoanalisi come la peste del ‘900. Come la malattia mortale del secolo. E lo fa con una trovata registica che può piacere o no, ma che è a suo modo geniale: se la psicoanalisi è una peste, le parole sono i suoi germi e i suoi virus. Perché la psicoanalisi – nella lettura che ne dà Cronenberg basandosi sul testo teatrale di Christopher Hampton – è prima di tutto una pratica discorsiva. Una forma del linguaggio. Un’arte della conversazione (quando Freud e Jung si incontrano la prima volta, parlano ininterrottamente per 13 ore…). Chi ha liquidato il film come “verboso”, forse non ha ragionato abbastanza sulla spregiudicatezza di questa scelta: la psicoanalisi è una “disciplina” che cerca di trasferire il corpo (la libido, l’eros, il desiderio) nel linguaggio. Per questo A Dangerous Method è un film fatto quasi solo di parole. Parole vergate con l’inchiostro su fogli bianchi porosi come nei bellissimi titoli di testa, parole scritte di getto nei fittissimi epistolari che i tre protagonisti (Freud, Jung e Sabina Spielrein, prima paziente e poi amante di Jung) si spediscono ininterrottamente, parole intessute l’una nell’altra nel setting analitico. Parole. Nient’altro che parole. Logos. Cronenberg – che piaccia o no ai detrattori di questo film così rarefatto – è sempre stato un cineasta “mentale” : freddo, raziocinante, glaciale. Il suo sguardo ha sempre indagato il linguaggio. E qui l’indagine va al limite estremo di tensione: l’effetto, certo, a qualcuno potrà sembrare noioso. Ma anche 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick lo era. A Dangerous Method non è un film-game né un luna park emozionale. Cronenberg non è uno stimolatore clitorideo del visibile. Con Cronenberg si pensa. Si prova la fatica e il piacere del pensiero. Se vi va, accomodatevi; se preferite la Tv, non avete che da cambiare canale.
In questo film, il cineasta canadese rende visibile lo strazio del corpo che cerca di trasformarsi in linguaggio: guardate anche solo le scene iniziali in cui Keira Knightley nei panni isterici di Sabina urla, scalcia, sbraita, si tende, si dimena, si gonfia, si infanga, e vomita le parole a fatica, recalcitrando quasi, di fronte al tentativo di dire quel che il corpo sente. Anche qui qualcuno, sprezzantemente, ha sentenziato: overacting. Sarà. A me pare piuttosto la messinscena dello spasimo necessario affinché la carne si faccia verbo. Perché verbo e carne coincidano. Anche se poi il film ci dice che non coincidono mai. Che continuamente si eccedono, tracimano, debordano. A Dangerous Method è un film su questa eccedenza. Ed è un film su una mutazione. Fin dagli anni ’80, i personaggi di Cronenberg sono sempre stati mutanti. E la mutazione è sempre stata l’elemento che rende impossibile l’amore. In La Mosca il tragitto che va dall’uomo alla donna era reso impraticabile da ciò che l’uomo stava diventando (un insetto). In Inseparabili da ciò che l’uomo non riusciva a smettere di essere (una copia, un gemello). Qui, in A Dangerous Method, dalla “disciplina” analitica che impedisce a Jung di continuare ad amare Sabina. A suo modo, anche quest’ultimo Cronenberg è un mélo. Un gelido, tenero film su una storia d’amore impossibile. Quello fra un uomo e una donna (Jung e Sabina), ma anche quello fra due uomini: uno vecchio, povero, ebreo (Freud), l’altro ricco, giovane, ariano (Jung). Ma non c’è l’inconscio nel film, dice qualcuno. Già, non c’è. Per fortuna. Perché se A Dangerous Method ha infine un merito, è quello di ricordarci che l’inconscio, in fondo, bisogna cercarlo nel linguaggio.
Gianni Canova, Il Fatto Quotidiano
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