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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 3

Ultimo Aggiornamento: 09/11/2011 11:21
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Sesso: Maschile
15/10/2011 12:16


A Dangerous Method: Cronenberg e la “peste” dell'anima

Reprimere la passione. Contenerla, razionalizzarla. Liberarla. Ancora violenza, per Cronenberg: ma questa volta è la silenziosa, strisciante, accecante implosione che solo A Dangerous Method può provocare.
Conflitto. Tra Carl Gustav Jung e la sua paziente/amante Sabrina Spielrein, tra il giovane psicanalista e il suo grande maestro Sigmund Freud, tra convinzioni (e convenzioni) mediche e culturali e venti di cambiamento all'alba di un nuovo secolo.
Ad inoltrarsi nelle spire di un tormentato rapporto erotico (nel puro e letterale senso della parola) ci aveva già pensato Faenza col suo Prendimi l'anima e tanto è già stato scritto ed elaborato sul doloroso ed inevitabile distacco del giovane Jung dal suo mentore.
Ciò che interessa a Cronenberg è invece il sempre più rapido e inarrestabile sgretolamento di rocce di pensiero di fronte all'ancestrale violenza di una forza che non si può domare: quella pulsione di morte, di distruzione che è del singolo uomo e dell'intera umanità, quell'elemento sconosciuto e 'libidinoso' precipitato nel giardino dell'eden delle strutture mentali per insinuarvi il peccato, il dubbio.
Guardare a quest'ultimo film del maestro del “body horror” troppo semplicemente come ad un melodramma, o ancora peggio come ad un biopic, senza percepire i feroci tremori di uno scontro che ha spalancato le porte di un nuovo sentire (“Lo sanno che gli stiamo portando la peste?”) è troppo riduttivo e superficiale. Come lo sarebbe elogiare la perfezione formale ed estetica della pellicola, che si basa sulla sceneggiatura di Christopher Hampton (Espiazione, Le relazioni pericolose) e vanta un cast tecnico da Oscar.
I colori de-saturati delle scene, la fotografia quasi sbiadita, gli interni claustrofobici, l'utilizzo solo del bianco e nero per i costumi, i pochi movimenti di macchina: tutto, in A Dangerous Method è perfettamente costruito per dare risalto ai dialoghi e agli attori (superba la prestazione di Michael Fassbender e Viggo Mortensen, appena sufficiente invece quella di Keira Knightley, eccessivamente “isterica”).
Manca il “cuore” del regista, è stato il giudizio della critica subito dopo la proiezione al Festival di Venezia, dove il film era in concorso. E forse non c'era, no, un muscolo pulsante e sanguinante. Ma, come ammette lo stesso Jung/Fassbender “a volte devi fare qualcosa di imperdonabile per poter continuare a vivere".
Florence Ursino, agenziaradicale.com



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Il capolavoro annunciato di Cronenberg non si è rivelato tale. Troppe aspettative sono state create per questo film, probabilmente a causa delle ultime ottime performance registiche di Cronenberg, che hanno raggiunto livelli molto alti, e la bravura del cast. Effettivamente questi due elementi non possono ottenere critiche negative; la parte debole del film è la sceneggiatura: il tema scelto - tratto dal testo teatrale The Talking Cure di Christopher Hampton e ispirato al libro A Most Dangerous Method di John Kerrun – è prettamente letterario. Ridurre il rapporto filiale di Freud e Jung a pettegolezzo non avrebbe avuto senso, gli sceneggiatori hanno così deciso di indagare l'amicizia dei due più famosi medici della "psycho-analysis", accennando ad alcuni studi da loro svolti nel corso degli anni, senza però avere la possibilità di approfondirli nel corso degli 89 minuti di pellicola: nelle prime scene, il dottor Jung accenna all'ideazione della "talking cure", la seduta psicologica, ma non vengono spiegate le modalità della scoperta o lo svolgimento della cura dell'unica paziente che guarisce; il regista si limita a mostrare qualche incontro tra i due, per giungere in tutta fretta alla guarigione della ragazza, Sabina Spielrein.
Il film è dunque il risultato di lunghe conversazioni, di cui non vengono forniti dettagli adatti per capire le vicinanze e le differenze tra Freud e Jung, che vengono molto semplificate; probabilmente il regista ha dovuto tener conto della scarsa conoscenza della tematica tra i fruitori del suo film e si è trovato davanti alla scelta biforcata di approfondire un discorso filosofico o di soddisfare il grande pubblico. Insomma, Cronenberg ha proposto un argomento troppo complicato per essere ridotto in un tempo breve e compreso da un pubblico vasto.
Ci sono tuttavia degli aspetti positivi da riconoscere: in primis i costumi e le scenografie di inizio Novecento realizzati in maniera impeccabile, poi la bravura di Keira Knightley nell'interpretare una donna che somatizza i suoi problemi psicologici, infine alcune argute osservazioni del dottor Freud, interpretato da Viggo Mortensen, il quale ha però poco spazio nel film (per esempio, a proposito del ruolo del medico della psicoanalisi, "qualunque cosa facciate, rinunciate all'idea di curarli"). Nelle vesti del protagonista Jung è Michael Fassbender, che non risulta particolarmente brillante. Nel cast è presente anche Vincent Cassel, che già aveva lavorato con Cronenberg e Viggo Mortensen in Eastern Promises, e interpreta con abilità il ruolo del dottor Gross.
La vicenda raccontata nel film ruota attorno al "natural istinct": è consentito all'uomo soddisfare i propri istinti naturali suggeriti dalla psiche, anche quando essi non sono accettati dalla società? Il dottor Jung, sposato e con figli, cede al fascino della paziente Sabina Spielrein, nonostante sia una scelta condannata. "Freedom is freedom": è necessario dunque porsi dei limiti? È quanto pensa Freud, ma non quanto pensa il dottor Gross, che cede davanti ad ogni singolo istinto e persuade Jung a fare lo stesso. Apprezzabile è la volontà di approcciarsi ad argomenti filosofici, sebbene non si tratti di una novità: il personaggio di Freud compare in oltre sessanta film, più originale la scelta di porre Jung come protagonista. Un film troppo ambizioso.
Giulia Bramati, storiadeifilm.it



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I toni: noir, horror, erotico. I temi: la mutazione del corpo, il suo uso ed abuso, il doppio. Con queste premesse, questi elementi caratteristici del cinema di Cronenberg, e gli “highlights” pettegolotici che accompagnavano A Dangerous Method (inspiegabilmente il titolo non è stato tradotto...), c'era da aspettarsi un film in cui il sadomasochismo sessuale avrebbe fatto da padrone, un po' come in Crash. Invece no. Complice la sceneggiatura di Christopher Hampton, che di fatto è il co-autore del film, è una pellicola molto british e intellettuale, raffinata e composta, come l'ordinato e represso dottor Jung che ne è protagonista. Ma come può appassionare dei non addetti ai lavori, una storia incentrata sul dibattito filosofico tra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung? Può, perché in realtà poco ci cale se davvero il dottor Freud è troppo rigido sull'interpretazione sessuale o se il dottor Jung prende una deriva troppo misticheggiante (dibattito tuttavia ancora attuale tra gli psicoanalisti): ciò che conta nel film sono altre cose. Intanto, il rapporto che si instaura tra i due, più di padre e figlio che di maestro e discepolo, con annessi i conflitti edipici di eliminazione della figura-guida. Poi, la dinamica a tre della relazione, grazie alla figura di Sabina Spielrein, che coi suoi stimoli intellettuali e sessuali non solo sconvolge la vita e le teorie di Jung, ma diventa dapprima il catalizzatore del rapporto tra i due uomini e poi l'elemento perturbante, vertice e “terzo incomodo” di un triangolo amoroso, dove la passione più grande non è quella fisica ma quella della scoperta di nuove teorie mediche e nuovi metodi sperimentali. Quindi proprio questa passione pionieristica: durante la sequenza della prima prova di “flusso di coscienza” è quasi impossibile per lo spettatore resistere dal rispondere mentalmente alle parole che vengono proposte. Ancora: il tema – questo molto caratteristico di Cronenberg – della confusione di ruoli tra medico e paziente, attraverso le figure della Spielrein e di Otto Gross, dottori ma anche malati, e dello stesso Jung, le cui nevrosi sono assai meglio dominate ma sempre presenti. Infine non vanno dimenticati due elementi esterni al triangolo, ma assai importanti nello svolgimento della relazione: il citato Otto Gross, “ammalato” di sesso, che di fatto spinge Jung a non reprimersi sessualmente con la Spielrein, con conseguenze devastanti per tutti; e la moglie di Jung, la malinconica Emma, sempre ai margini ma sempre presente accanto al marito e suo unico punto fermo.
Dal punto di vista formale il film si distingue per una viscontiana eleganza (ci sarebbe da scrivere un articolo a parte per la colonna sonora wagneriana...), con ambienti ricostruiti nei dettagli quasi in maniera maniacale (la poltrona e i libri appartenuti realmente a Freud, la marca esatta dei suoi sigari, i pennini d'epoca....) ma mai in modo ostentato o fine a se stesso, grazie a un certo minimalismo registico: colori pastello, luci opache, movimenti di macchina quasi inesistenti e inquadrature sempre curate come acquerelli. Il “non sentire” la regia, e la scelta di inquadrare sempre con i protagonisti in primi piani, mezzi piani e piani americani, consente di seguire più da vicino i personaggi e di immedesimarsi con loro, evitando il rischio di fare un teatro filmato (nonostante l'abbondanza di dialoghi, non si risente dell'origine teatrale del testo) o un'opera accademica: del resto un merito di Cronenberg è quello d'aver sempre fatto film innovativi senza bisogno di ricorrere a trucchetti di montaggio o a inquadrature ardite.
Fondamentale, in un film di questo tipo, era scegliere bene il cast, e ciò è stato fatto. Viggo Mortensen (ottimamente doppiato dal fedele Pino Insegno) è talmente bravo da far dimenticare che ha il naso finto: il suo Freud è un genio a cui la consapevolezza della realtà ha tolto ogni idealismo, tetragono nel sostenere le sue idee forse per paura di sbagliare e gelosia nei confronti del giovane pupillo, pieno di sé e al contempo cinico e umanamente amareggiato; Mortensen ne imita con cura gesti e grafia e lo dota di carisma e tristezza. Vincent Cassel ha una fugace e devastante presenza, come il vero Gross, disturbante e ricca di fascino, mentre l' Emma di Sarah Gadon unisce forza e dolcezza, assenza-presenza con cui Jung deve sempre fare i conti. Michael Fassbender conferma il proprio momento d'oro: è pienamente Carl Jung non solo grazie agli abiti e agli occhialini (del resto Jung era un bell'uomo, ma non a questi livelli...), ma in virtù di quel continuo controllo di sé anche nei momenti più disturbanti, un controllo da cui traspare chiaramente il vulcano di passione ed emozioni che tiene soffocato: minimi gesti che esprimono la repressione delle inquietudini, sorrisi che non seguono gli occhi, e nella bellissima, malinconica inquadratura finale sembra di rivedere Burt Lancaster nel Gattopardo. L'acqua della vita è però data da Keira Knightley, nella migliore prova della sua carriera: fragile, sempre vulnerabile, sempre attenta a trattenere gli spasmi muscolari, col rischio latente di una crisi isterica anche anni dopo la guarigione, entusiasta e sensuale quanto disperata e deviata. L'interazione tra la Knightley e Fassbender sembra vibrare come tra una paziente e il proprio analista, rendendo realistici dialoghi altamente letterari e artefatti
Elena Aguzzi, quartopotere.com



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Se ogni film di Cronenberg può essere tranquillamente definito un piccolo trattato di psicologia, sembra una naturale conseguenza che i protagonisti del suo ultimo lavoro siano Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, i padri putativi della disciplina e pionieri della psicoanalisi. Socrate e Platone, sole e luna, zenith e nadir del pensiero moderno: l’uno legato al singolo, l’altro al collettivo; il primo fermamente convinto che nella sessualità ci fosse la chiave per ogni tipo di nevrosi, il secondo persuaso che “il mondo non può reggersi su un solo cardine”. La rocciosa pragmaticità e il rigore scientifico di Freud viaggiavano su una strada parallela rispetto alle aperture mistiche e all’impulso fortemente caritatevole che anima la ricerca del delfino svizzero, due percorsi destinati ad allontanarsi sempre di più per non incrociarsi mai.
Siamo alle soglie della Prima Guerra Mondiale e Vienna e Zurigo sono i vibranti centri nevralgici del pensiero e della cultura moderna. Il giovane psichiatra Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) decide di prendere in cura una giovane paziente russa, Sabina Spielrein (Keira Knightley), bella e colta, affetta da una gravissima forma di isteria. Per curarla Jung usa una nuova cura sperimentale studiata da Freud (Viggo Mortensen) in persona, la “terapia delle parole”: è l’inizio della moderna concezione di psicanalisi. Gli enormi progressi registrati dalla paziente sono la scintilla che fa nascere un rapporto di profonda amicizia tra i due scienziati che progredisce di pari passo con il rapporto tra Jung e Sabina, ormai guarita ed avviata, lei stessa, a una carriera da psichiatra. A scardinare l’equilibrio tra i tre è Otto Gross (Vincent Cassel), psichiatra tossicodipendente, dalle teorie provocatorie e dall’esibita, completa, amoralità. I suoi pensieri, in particolare sull’innaturalità della monogamia, scalfiscono lentamente ma inesorabilmente le ferme convinzioni scientifiche, ma soprattutto la granitica deontologia e la convinta etica protestante di Jung, minando lentamente il vincolo che lo lega alla devota moglie Emma (Sarah Gadon). Ne nasce un torbido rapporto tra Jung e Sabina che sconvolgerà ancora di più i delicati equilibri dialettici tra lui e Freud.
La violenza che ha sempre caratterizzato i film del regista canadese qui non è mai esibita, ma è sempre emotivamente presente, riempiendo in maniera capillare ogni singolo fotogramma: c’è violenza nel passato di brutalità subito da Sabina, e violenza è quella che cerca nel torbido rapporto con Jung; c’è violenza nella sottile ma onnipresente tensione che anima le dispute teoriche tra i due psichiatri; c’è violenza in una società ancora bigotta e sessista (la disperata ricerca di Emma di avere un erede maschio). Il fulcro della storia è Sabina, personaggio centrale nella vita e nelle teorie di Jung e Freud: la sua nevrosi, dalle cause meramente sessuali, è la scintilla che permette a Jung di dare sfogo alle sue pulsioni represse e alle frustrazioni imposte da una morale e da un’etica costringente e punitiva. Sabina, appassionata di Wagner, vive come una sorta di possibilità di riscatto la vicenda di Sigfrido e della sua palingenesi, per la quale qualcosa di eroico può nascere da qualcosa di abietto. E l’immorale rapporto con Jung è il grimaldello che la libera dalle sue nevrosi permettendole di diventare ciò che è “destinata ad essere”, secondo le parole di Jung. L’interpretazione che ne dà la Knightley è decisamente sofferta e fisica: davvero impressionante dal punto di vista visivo (Sabina è magrissima, pallida, quasi eterea), leggermente esagerata dal punto di vista recitativo, soprattutto nella prima parte dove Keira sembra calcare decisamente troppo la mano e patisce il confronto davanti allo Jung di Fassbender, eternamente dilaniato tra etica e passione, al titanico Freud di Mortensen e al deflagrante Gross di Cassel. Eros e thanatos, passione, paura, ossessione, follia, nevrosi: c’è tutto Cronenberg in A Dangerous Method estremamente affascinante ma faticosamente assimilabile e difficilmente catalogabile, tra dramma e biografia. Destinato a non piacere a tutti.
Marco D'Amato, silenzio-in-sala.com



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Zurigo, 1904. Il giovane psichiatra Carl Gustav Jung è affascinato dalle teorie di Sigmund Freud e dal metodo della psicanalasi (o psicoanalisi come preciserà più avanti lo stesso psichiatra viennese), e decide di sperimentarlo sulla paziente diciottenne Sabina Spielrein, alla quale è stata diagnosticata una grave isteria.
Ben presto il rapporto tra medico e paziente andrà oltre, diventando una relazione extraconiugale (Jung è sposato).
Parallelamente inizia un epistolario tra Jung e Freud, che poi diventa una frequentazione e un'amicizia.
Le due vicende in qualche modo s'intrecceranno e subiranno una loro evoluzione, una curva discendente e una frattura.
E' storia sulla quale ci sono ben pochi spoiler da fare, raccontata in libri, tra cui proprio quello di John Kerr, Un metodo molto pericoloso (1993), da cui è stato tratto un allestimento teatrale, scritto dallo stesso sceneggiatore di questo film, Christopher Hampton.
Purtroppo non sempre a belle e interessanti storie riescono a corrispondere film altrettanto interessanti e belli.
Nonostante la messinscena curata, con ottimi costumi e scenografie, il film alla fine è sbagliato dall'inizio alla fine.
La fotografia di stampo televisivo, per scelta di illuminazione e di inquadrature, appare da subito sciatta e poco ispirata. La visionarietà di David Cronenberg, conosciuto dai nostri lettori per film come Videodrome, Scanners, Rabid, La Mosca, Il Pasto Nudo tra i tanti, è asservita alle regole di una coproduzione internazionale che tende all'agiografia da fiction di prima serata di un canale nazional popolare.
In novantasei minuti poi sono tanti i temi che vengono buttati nel calderone, senza che vengano adeguatamente sviluppati. Interessante lo stridente contrasto di censo tra il ricco Jung e il quasi povero Freud per esempio, me è affidato solo a un paio di casuali battute.
Il film non affonda mai il coltello insomma, non mostra mai la carne viva, cosa che al regista canadese è sempre riuscita benissimo.
Anche le scene in manicomio non urtano, mostrando una realtà molto edulcorata rispetto a quanto sappiamo avvenisse in realtà. Non sono più immaginibili delle rappresentazioni così limitative di certi luoghi e situazioni, non ci meritiamo di essere preservati dalla verità.
Persino un tema molto interessante come la deriva junghiana verso il paranormale e il mistico, osteggiata dal più scientifico Freud, rimane un conflitto inespresso, appena accennato.
Nella sufficienza il cast. Michael Fassbender stavolta spicca per mancanza di avversari, tra una Kiera Knightley eccessiva e "attaccata alle tende", e il solito pallido Viggo Mortensen. Vincent Cassel è ingiudicabile, anche per un ruolo nella narrazione della vicenda parecchio marginale, una parentesi che aggiunge veramente poco, anche se in realtà il personaggio è un catalizzatore di eventi, ma è trattato male dalla sceneggiatura e da dialoghi scritti senza il senso del ridicolo.
Le musiche di Howard Shore sono professionali, rispettando i didascalici stilemi da prodotto televisivo, ma di quelli poco ispirati, fatti con lo stampino.
Non c'è niente da fare, la storia di Jung e di Sabina Spielrein al cinema non ha avuto la fortuna che merita, neanche stavolta ha trovato narratori adeguati.
Emanuele Manco, fantasymagazine.it



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Gli elementi significativi che caratterizzano A Dangerous Method, opera più recente di David Cronenberg appartengono a tre ordini di categoria: lo stile registico, la drammaturgia e le motivazioni profonde che hanno spinto l’autore a realizzarlo.
Gli aspetti visivi del film appaiono graniticamente chiari, nitidi, di raro equilibrio. Non esiste in questo lungometraggio una sola inquadratura inutile e compiaciuta. Anche quando sembra che Cronenberg stia debordando nel territorio della sterile estetizzazione e del formalismo si avverte l’esigenza del regista di costruire un’architettura visuale funzionale all’espressione della dimensione psicologica e drammaturgica dei personaggi e del racconto. E tale impostazione è possibile solo se dietro la macchina da presa è posto un cineasta in grado di articolare il linguaggio cinematografico con la misura e la razionalità necessaria, potremmo dire anche con eleganza e acutezza intellettuale.
La stessa misura è riscontrabile nella struttura del racconto e nei dialoghi. In questo caso, il merito va allo sceneggiatore e autore teatrale Christopher Hampton che aveva elaborato il copione già da diversi anni. Lo sguardo severo e algido di David Cronenberg e l’ossessione di Hampton di evitare ogni tipo di eccesso nella sostanza delle scene e nei dialoghi sono i fattori che hanno consentito a A Dangerous Method di divenire un’opera che potrebbe segnare una svolta nel rapporto tra cinema e psicoanalisi, sempre (purtroppo) a rischio. Il ridicolo, il grottesco e il ridondante sono, infatti, costantemente dietro l’angolo e hanno prodotto in passato molti danni.
Questo lavoro possiede qualcosa di più, un aspetto che lo salva da un possibile disastro: la forza espressiva, gelida e lucida, di un cineasta come David Cronenberg, che mai si era inoltrato così tanto non solo nella materia che forse maggiormente lo affascina ma anche in quel meccanismo di pensiero e di analisi della storia del XX secolo su cui evidentemente sentiva il bisogno di riflettere in chiave creativa e in prima persona. Un po’ come L’uomo che non c’era e A Serious Man per Joel e Ethan Coen, A Dangerous Method sembra essere il film della vita di David Cronenberg. Magari per qualcuno non il suo migliore (anche se per noi è così), ma certamente il suo più profondo, sentito, sconvolgente, intimo.
Il groviglio relazionale tra Gustav Jung, Sigmund Freud e Sabina Spilrein è organizzato attraverso procedimenti raffinati di connessione emotiva. Le implicazioni intellettuali sono fuse a quelle erotiche, l’amicizia al sentimento, la fisicità alla speculazione mentale.
Cronenberg, grazie anche al prezioso apporto di Hampton, ha reso questi personaggi “storici” più umani e veri di quanto abbiano fatto innumerevoli cronache storicistiche, biografie letterarie e altri, imbarazzanti, lungometraggi. Il regista canadese ha lavorato sulle umane fragilità, sulle sofferenze individuali, sulle tragedie personali più o meno mascherate. Ma non si è limitato a costruire dei personaggi, li ha contestualizzati all’interno di una processo storico-sociale che annunciava l’arrivo in Europa dell’orrore e dell’indicibile: il bagno di sangue della Prima Guerra Mondiale e in seguito l’immane tragedia della Shoah e dello sterminio del popolo ebraico.
Probabilmente David Croneberg non lo dirà mai, ma appare evidente come in questa sua opera venga fuori qualcosa di interiore che riguarda i suoi personali sentimenti legati all’appartenenza e al drammatico destino del popolo ebraico. La figura di Freud sembra il cardine di questo processo personale, quella di Jung la finestra aperta verso l’immaginazione, la libertà, ma anche verso l’angoscia della morte, mentre Sabina Spilrein rappresenta l’impulso alla conoscenza (fuori dagli schemi), alla verità e alla ribellione.
Per questi motivi, A Dangerous Method può essere considerato il film più personale, sofferto e autentico di David Cronenberg, regista che, comunque, di opera in opera continua a riservarci delle sorprese, sintomo di vitalità intellettuale e di freschezza creativa come raramente è possibile riscontrare nella cinematografia contemporanea.
Una doverosa citazione nei riguardi dei tre interpreti: Michael Fassbender (Jung), misurato ed efficace, Viggo Mortensen (Freud), maturo, raffinato e ricco di sfumature interpretative, Keira Knightley (Spilrein), attrice chiamata da David Cronenberg alla sua prova più difficile e commovente.
Maurizio G. De Bonis, cultframe.com



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Medice, cura te ipsum

A Dangerous Method è una storia di uomini e donne, di mariti, mogli e famiglie, di amore e sesso, di passione e razionalità, di perversioni e tradimenti, di rimorso e ribellione. E’ una storia come capita a molte persone comuni, sennonché nel film di Cronenberg i protagonisti sono gli inventori della moderna psicanalisi, Gustav Freud e Carl Gustav Jung, collegati dalla figura di Sabina Spielrein, una paziente di Jung divenuta poi sua allieva e amante, oltre che allieva dello stesso Freud.
La storia inizia nel 1904 e vede un giovane Jung sperimentare il “Dangerous Method” cioè la “terapia delle parole” sulla giovane, disturbatissima Sabina Spielrein. Del caso Jung discute anche con il suo maestro, Gustav Freud, misurando in lunghe conversazioni e in un fitto scambio epistolare, fra Vienna e Zurigo, le differenti visioni sul rapporto fra sessualità e disturbi della personalità. Mentre si interrogano su quanto l’ego possa sopportare nella repressione dei propri impulsi, Jung intreccia una passionale relazione, che diviene anche materia di studio, con Sabina, che nel frattempo ha intrapreso gli stessi studi dei suoi due maestri. Ma la relazione fra un analista e il paziente era già allora vietata e per di più Jung era sposato. Inevitabile quindi la disapprovazione di Freud. Un futuro tormentato attendeva così tutti i personaggi.
Convincenti i protagonisti, Viggo Mortensen, attualmente l’attore feticcio di Cronenberg, che è Freud, e il lanciatissimo Michael Fassbender, che impersona un glaciale Jung, mentre Keira Knightley, vera protagonista, forse eccede un po’ nelle scene d’isteria. Nel film compare anche brevemente Vincent Cassel nel ruolo determinante dell’autodistruttivo Otto Gross, oppositore delle tesi dei due analisti, che si autodistruggerà nella ricerca della soddisfazione della sua libido. Christopher Hampton (Le relazioni pericolose, Espiazione) ha scritto la sceneggiatura, traendola dal suo testo teatrale.
Molto atteso come sempre capita con i film di Cronenberg e grazie ad un cast di grande interesse, A Dangerous Method si rivela un impeccabile esercizio calligrafico dalla rigida impaginatura, un freddissimo biopic, non particolarmente appassionante né riguardo ai rapporti tra Freud e il suo, almeno all’inizio, discepolo, né quanto alla relazione fra Jung e la Spielrein, che prenderà derive sado-maso, a causa dei traumi subiti dalla giovane donna durante l’infanzia. Certo è che proprio in quegli anni nasceva la scienza che avrebbe permesso di collegare certe turbe ai problemi affrontati nei primi anni della vita, riconducendo tutto, come sosteneva Freud, al sesso. Sesso che domina anche le vite dei tre protagonisti che si dibattono per tentativo di ricondurre alle loro teorie i primitivi istinti, in un gioco di predominio non solo fra amanti ma anche fra colleghi, nell’affanno per conciliare i propri comportamenti con le regole sociali che sì cambiano, ma in ogni momento storico pur sempre esistono.
Se è vero che la sessualità è la forza più dirompente che esista, quante energie sono state spese per reprimerla, per imprigionarla, incanalarla e sublimarla, invece che lasciarla sfogare liberamente, quanti danni sono stati fatti e quante ferite inferte e quanti cattivi maestri hanno discettato a vuoto (medice, cura te ipsum…). E la felicità sembra sempre lontana dall’essere umano, a tanti anni dalla nascita di una disciplina che aveva sconvolto il mondo, come preconizzava Freud, avvicinandosi a New York in piroscafo: “Non sanno che siamo venuti a portargli la peste”. Chiedere a Woody Allen.
Giuliana Molteni, moviesushi.it



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A Dangerous Method, film su amore e psicoanalisi più scientifico che passionale

Chi come me ha ancora nel cuore Prendimi l’anima (2002) di Roberto Faenza, uno dei suoi film più riusciti, non può che accostarsi a A Dangerous Method con diffidenza e rimanerne poi, come previsto, deluso. Nonostante la regia sia tra l’altro di un tale David Cronenberg, con tanto di partecipazione in concorso (ma senza premi) alla recente Mostra del cinema di Venezia.
Probabilmente il risultato di delusione potrebbe essere lo stesso pur non ricordando ancora, con poesia e forza, la passione e la violenza della rinuncia che il regista italiano ha saputo mettere nel rapporto tra Sabina Spielrein e Carl Gustav Jung.
A Dangerous Method (dal 30 settembre nelle sale italiane), infatti, torna sul complicato e poco noto rapporto tra il grande psicanalista svizzero (interpretato da Michael Fassbender) e la psicoanalista russa (Keira Knightley), una delle prime donne a esercitare questa professione e soprattutto originariamente problematica paziente di Jung. La storia di Cronenberg però allarga di più la scena e si concentra anche sulla relazione di questi due con il maestro della psicanalisi, Sigmund Freud (Viggo Mortensen), in un triangolo di stima, affetto, livori, reciproche influenze di pensiero più o meno riconosciute.
Sabina, pur entrando nella vita di Jung come paziente dalle improvvise e acute crisi, è molto intelligente e su di lui ha un fascino magnetico e volontà seduttive. La professionalità incrollabile di Jung vacilla, soprattutto dopo aver preso in cura il collega psichiatra, Otto Gross, tossicodipendente e convinto sostenitore della più spregiudicata amoralità che non poteva che avere la prevedibile faccia di Vincent Cassel.
Con un simile materiale umano a disposizione eppure il film brilla in freddezza e austerità. Keira Knightley non dà al personaggio di Sabina un briciolo della sensualità e del calore che aveva saputo infondere Emilia Fox nel lavoro di Faenza. Le emozioni non passano, neanche quando in cura da Jung e in preda a spasimi e contorsioni del viso, Sabina sentenzia con dolore: “Non c’è speranza per me perché sono abietta, sono oscena, non devono farmi uscire”. In questo terribile frangente il solo potere emotivo lo evoca questa stilla di dialogo e non la forza della scena. Probabilmente la Knightley, bella ma sempre un po’ glaciale, non era l’attrice giusta per dare corpo a Sabina Spielrein.
Impeccabile, invece, nei panni di Jung, l’attore rivelazione Michael Fassbender, che tra l’altro proprio a Venezia ha vinto la Coppa Volpi come migliore attore, ma per il film Shame di Steve McQueen.
Se manca di fervore, a A Dangerous Method invece non si può rimproverare la qualità scientifica. La psicoanalisi alla fine del XIX secolo era un’idea rivoluzionaria e la sua origine è narrata con dovizia di particolari, come anche l’amicizia poi traumaticamente rottasi tra i due pionieri, Freud e quello che doveva essere il suo erede, Jung. Lo sceneggiatore Christopher Hampton intreccia fatti storici e citazioni dagli scritti dei protagonisti, ricomponendo con cura l’avvincente dibattito di idee e ricostruendo duelli verbali interessanti.
“Penso che David Cronenberg riesca a combinare, in modo davvero unico, una oggettività estremamente fredda e un coinvolgimento emotivo decisamente violento” ha dichiarato Hampton.
Non proprio, penso io. Oggettività estremamente fredda ampiamente pervenuta. Coinvolgimento emotivo decisamente violento non rintracciato.
Simona Santoni, blog.panorama.it



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Mutatis mutandis

Era il 2005 quando usciva A History of Violence, il primo film di Cronenberg con Viggo Mortensen protagonista e furono in molti a chiedersi che fine avesse fatto il regista di Crash, Il Pasto Nudo, Videodrome, dato che il film appariva straordinariamente ordinario, sia nell’impianto narrativo che in quello compositivo; due anni dopo è la volta di Eastern Promises e la storia sembra ripetersi: di nuovo Mortensen protagonista e di nuovo un bel film d’azione, che, apparentemente, non sembra avere molto a che fare con l’orizzonte estetico del regista canadese. Passano altri quattro anni e dopo aver visto A Dangerous Method, presentato in concorso alla 68ª Mostra del Cinema di Venezia, il sospetto che il cinema di Cronenberg stia effettivamente “mutando” diventa quasi una certezza: il film racconta del rapporto (fisico ed intellettuale) tra Jung (Michael Fassbender), Freud (ancora Mortensen) e Sabina Spielrein (Keira Knightley), è tratto da The Talking Cure, una pièce teatrale di Christopher Hampton sceneggiata dallo stesso Hampton, e mantiene un impianto rigorosamente classico, senza che niente lasci sospettare la mano del regista di Toronto; anche le rare scene di nudo sono estremamente pudiche ed evidentemente autocensurate.
La storia inizia con l’arrivo della Spielrein all’ospedale psichiatrico di Zurigo, come malata mentale. Viene presa in cura da Jung, che ne riconosce le qualità e ne asseconda le aspirazioni permettendole di fargli da assistente e di iscriversi alla facoltà di medicina. Nel frattempo Jung conosce Freud, il quale vede nel più giovane medico svizzero il suo probabile erede. Allo stesso ospedale arriva, sempre come paziente (mandato da Freud) il collega psicologo Otto Grass (il Vincent Cassel di sempre): tossicomane, sesso-dipendente e poligamo, si diverte a ribaltare il ruolo tra paziente e psicologo facendo vacillare le convinzioni dell’integerrimo Jung, scoprendo che dietro alla sua apparente correttezza di marito fedele si nasconde un uomo sostanzialmente represso. Jung da sfogo alle sue frustrazioni iniziando una relazione sadomasochista con la Spielrein. La fine di questa relazione farà precipitare la situazione e lo porterà alla definitiva rottura con Freud.
Cronenberg, come un pittore d’avanguardia che improvvisamente torna a dipingere paesaggi, costruisce A Dangerous Method rispettando i più elementari dettami del cinema classico, partendo dalla figura forse più caratteristica ovvero il campo e controcampo con cui vengono filmati i molti dialoghi, all’interno dei quali i contrasti tra i personaggi sono scolasticamente risolti. Solo l’attenzione quasi feticistica alla “fase orale” degli attori rende minimamente palpabile la regia di Cronenberg: Mortensen tiene costantemente in bocca un grosso (e fallico) sigaro, Fassbender, quando non fuma la pipa, mangia o beve in continuazione, mentre la Knightley si dimostra preda delle sue convulsioni spostando in avanti la mascella in un ghigno mostruosamente alieno.
Cronenberg è sempre stato affascinato dalla psiche umana, dalle sue infinite possibilità e dalle sue indefinite perversioni, una fascinazione che ha sempre costituito la base del suo cinema esplicitamente contaminato; con A Dangerous Method compie un percorso a ritroso andando alle origini del pensiero che ha generato questa fascinazione ed alle origini dell’idea stessa di cinema narrativo, ma, a ben guardare, la componente “mutante” c’è ancora, basta volerla cogliere. Sposta la mutazione e la contaminazione ad un livello diverso da quello che contraddistingueva le opere precedenti al suo sodalizio con Mortensen. Se prima il mutante era chiaro, esibito ed affiorava sulla pelle dei protagonisti andando a colpire senza esitazione l’occhio dello spettatore, adesso le mutazioni si fanno meno esplicite, più sottili, quasi nascoste sotto un tessuto filmico classicamente tranquillizzante, un tessuto che lo spettatore deve alzare per continuare a godere dell’intelligente crudeltà di Cronenberg. Guardando il film attraverso quest’ottica ecco che lo stesso Mortensen rappresenta la prima importante mutazione, in quanto non tenta di imitare o di somigliare a Freud, ma resta Viggo Mortensen, con i suoi tratti somatici ed i suoi vezzi attoriali estremamente lontani dall’icona conosciuta del padre della psicoanalisi; così l’estrema somiglianza tra Mortersen e Fassbender non fa altro che stabilire fisicamente il rapporto di discendenza diretta del pensiero di Jung da quello di Freud; e ancora l’eterea e prolifica moglie di Jung (un’ottima Sarah Gadon) viene fatta letteralmente sparire da intere parti del film, salvo ricomparire per incarnare, con il suo pallore e le sue parole dirette, i sensi di colpa che devastano il marito. La stessa nevrosi contagia i personaggi passando come un virus da uno all’altro, partendo dai mostruosi ghigni iniziali della Spielrein fino alla finale inespressiva fissità con cui Jung guarda il lago di fronte a casa sua.
Se in A History of Violence e Eastern Promises la mutazione arrivava dal mistero che avvolgeva il passato del protagonista, in A Dangerous Method la mutazione colpisce direttamente le menti mutanti di personaggi che rappresentano uno dei pilastri del pensiero del XX secolo all’interno di un cinema che, a causa del suo continuo cambiamento, appare subdolamente normalizzato.
Luigi Nepi, drammaturgia.it
[Modificato da |Painter| 09/11/2011 11:21]
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