Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Stampa | Notifica email    
Autore

Recensioni da Venezia - pt.2

Ultimo Aggiornamento: 14/09/2011 13:45
OFFLINE
Post: 529
Sesso: Maschile
14/09/2011 13:42


Rassegna Stampa
PRO & CONTRO da Venezia 2011

parte 2



Zurigo, 1904. Il giovane e brillante psichiatra Carl Gustav Jung si trova a dover curare una singolare paziente, la giovane russa Sabina Spielrein, diciotto anni, condizione sociale agiata e una storia di umiliazioni e violenze familiari alle spalle. La ragazza è affetta da una grave forma di isteria che le provoca comportamenti aggressivi e a volte violenti, ma ha anche una mente brillante, parla fluentemente il tedesco ed è intenzionata ad intraprendere a sua volta la carriera medica nel campo psichiatrico. Nel frattempo, le rivoluzionarie idee di Sigmund Freud stanno prendendo sempre più piede nel mondo della psichiatria, e lo stesso Jung, seguace delle teorie del medico austriaco, decide di applicare il suo metodo su Sabina. La ragazza migliora sensibilmente, ma intreccia anche una pericolosa relazione con il giovane psichiatra, mentre quest'ultimo, sempre più convinto che le teorie del suo maestro sul legame tra sessualità e disturbi emotivi siano insufficienti per spiegare la genesi di questi ultimi, inizia con questi un rapporto di amicizia prima epistolare, poi personale. Ma l'intreccio del sempre più intenso rapporto di Jung con Sabina, e della sua stimolante amicizia con Freud, porterà a conseguenze imprevedibili, ed emotivamente devastanti, per tutti e tre i soggetti coinvolti.
C'era molta attesa intorno a questo A Dangerous Method, film nato da una piece teatrale che il suo stesso autore Christopher Hampton ha trasformato in una sceneggiatura; una storia che esplora da vicino i torbidi ed ambigui rapporti tra tre personalità che si riveleranno fondamentali per l'evoluzione della scienza psichiatrica del ventesimo secolo. Non è casuale l'interesse per un soggetto come questo da parte di un regista come David Cronenberg, la cui evoluzione, negli ultimi anni, è stata peculiare: dalla graficità corporea delle sue pellicole degli anni '80 e (in parte) '90, alla predilezione di soggetti sulla carta più classici (A History of Violence e La Promessa dell'Assassino), in cui le ossessioni del regista canadese si sono spostate sul piano della mente e dei suoi labirinti, e in cui il tema della mutazione che da sempre lo affascina è divenuto tutto interno alla psiche umana, senza per questo perdere in pregnanza e forza espressiva. Cronenberg, qui, prosegue coerentemente in questo discorso, lavorando di nuovo su un soggetto non suo e insinuando nelle pieghe del racconto le sue tematiche di sempre, in quel binomio tra sesso e morte, pulsioni erotiche e istinti autodistruttivi, che qui viene asciugato di ogni spettacolarità filmica e fatto risalire alla sua fonte originale.
C'è una riflessione sul potere e sulla dipendenza, sul desiderio di possesso e sulla voglia di plasmare e riplasmare l'altro (che sia un amante o un proprio allievo) a proprio piacimento; c'è l'eterno contrasto tra natura e cultura, tra la necessità di soddisfare le proprie pulsioni e l'imperativo sociale di reprimerle, e i diversi modi di affrontare e gestire, da parte di ognuno, questo dualismo. Ci sono, soprattutto, tre personalità forti che tentano di trovare un riscontro, nel complesso intrecciarsi dei loro rapporti, alle teorie da loro elaborate, finendo per venirne consumati e profondamente cambiati. Il tema della mutazione torna dunque sul piano dei rapporti interpersonali, e su quello più squisitamente sociologico, come pretesa da parte della società di modificare l'individuo reprimendone gli istinti più profondi: l'unico personaggio che, nel film, sembra essere immune da questo processo è quello di Otto Gross, psichiatra dal carattere amorale e nichilista passato sotto le cure di Jung, e il cui sfrenato individualismo finisce per avere un'influenza fondamentale sul giovane psichiatra e sul rapporto con la sua paziente.
Quello che tuttavia ci si chiede, guardando questo A Dangerous Method, è se 100 minuti non siano forse troppo pochi per sviscerare tutti i temi contenuti in una sceneggiatura sì equilibrata ma che, specie nella prima parte, stenta un po' a far emergere il necessario aspetto emotivo della vicenda. La stessa componente sadomasochistica del rapporto tra Jung e Sabina, conseguenza delle drammatiche esperienze infantili di quest'ultima, non gode di un adeguato approfondimento, se non nei termini, piuttosto superficiali, di un rovesciamento dei rapporti di potere e del ruolo realmente dominante tra i due, che nell'ultima parte del film è decisamente appannaggio della ragazza. La regia è caratterizzata dal consueto rigore e dalla complessiva asciuttezza che abbiamo visto nel Cronenberg più recente, squarciata solo dai momenti, visivamente più forti, degli incontri tra i due amanti; ma sembra anch'essa soffrire, a tratti, di un'ingessatura tra le maglie di uno script che non sempre riesce a dare il necessario spessore ai personaggi e alle loro vicende. Personaggi che comunque godono di buone caratterizzazioni, dall'inquieto Michael Fassbender al volutamente granitico Viggo Mortensen nei panni dei due colleghi-rivali, oltre a un Vincent Cassel beffardo ed efficace nel ruolo di Otto Gross, e soprattutto a una Keira Knightley che supera brillantemente le insidie del ruolo, dando spessore, forza emotiva e credibilità al personaggio della futura psichiatra Sabina. Prove attoriali che si rivelano un elemento fondamentale di un film sì imperfetto ma affascinante, che conferma il suo autore come esponente di un cinema in grado di rimettersi sempre in gioco, senza aver paura di suscitare discussioni ed, eventualmente, dividere.
Marco Minniti, movieplayer.it



***

La passione di una mente pericolosa
Tra Vienna e Zurigo, pochi anni prima del grande conflitto mondiale, si intrecciano le vite di Carl Jung e Sigmund Freud, padri della psicanalisi moderna, e Sabina Spielrein, giovane paziente psicotica di Jung che diventerà sua amante e si emanciperà dalle sue nevrosi fino a diventare una brillante allieva dei due maestri. Nel frattempo, tra una conversazione e l’altra, le posizioni di Freud e Jung riguardo ai metodi e agli obiettivi dell’analisi sembrano divergere sempre più. Sta per aprirsi una lacerazione che segnerà la storia della scienza e del pensiero occidentale...
È un metodo assai pericoloso, quello della psicanalisi, perché costringe ad entrare nelle caverne che solcano la nostra mente e a percorrerle fino in fondo, ad aprire porte che potrebbero non richiudersi.
Pericoloso lo è anche perché smuovere certi macigni può far affiorare la forza carsica della passione amorosa, della libido che, come sostiene Freud, è alla base delle nostre ossessioni o forse, come sostiene un turbolento paziente sessuomane di Jung, è l’unica chiave per la libertà.
Cronenberg parte da un romanzo di John Kerr (A Most Dangerous Method) e una pièce di Christopher Hampton (The Talking Cure) per entrare come sempre nei meandri della psiche umana, solo attraverso un percorso diverso. Come la mostruosità della mutazione umana, della carne e del sangue erano l’incarnazione delle nostre ossessioni, la psicanalisi è solo un altro modo per analizzare le nostre fragilità individuali.
Con rispetto, simpatia e grande classe, il cineasta canadese si avvicina a questi personaggi intessendo una trama squisitamente narrativa attorno a quelli che sono stati veri eventi biografici. Visita la pellicola storica, il melodramma e la commedia (grazie soprattutto alla sceneggiatura dello stesso Hampton, tra le maggiori voci della drammaturgia britannica) lasciando da parte il genere che lo ha consacrato ma mantenendone i presupposti di partenza.
Tutto fila alla perfezione, dalla accurata ricostruzione d’epoca (i costumi sono della sorella del regista, Denise Cronenberg) all’elegante colonna sonora di Howard Shore, fino alle impeccabili interpretazioni dei tre protagonisti, capaci di ritrarre con ironia personaggi che hanno un peso specifico ed una complessità non trascurabile.
Vista tanta grazia, forse ci si sarebbe aspettato qualche guizzo visivo in più da un maestro come Cronenberg, per andare fino in fondo al pensiero psicanalitico di inizio novecento: la scoperta, come spiega lo stesso regista, che "l’evoluzione da angeli ad animali suggerita dal progresso altro non era che la sottile patina della civiltà", capace di essere distrutta in qualsiasi momento dalla "eruzione del subconscio".
Andrea Vasentini, nonsolocinema.com



***

In A Dangerous Method il teorema cronenberghiano è messo a contatto con il suo versante razionale, la definizione precisa di un conflitto che disegna universi ignoti nel dispendio di energie passionali, di vettori sentimentali, di immaginazioni inaudite. Michael Fassbender è Gustav Jung, Viggo Mortensen Sigmund Freud, Keira Knightley Sabina Spielrein: siamo nel cuore della psicanalisi come "liaison dangereuse". Scrive, del resto, Christopher Hampton
Il dissidio, la pulsione, la ferita, la mano che fruga dentro di te, la sottomissione del corpo all’idea, la soggiacenza dell’idea alla forma, il dominio del desiderio, la mutazione e la dipendenza… Non c’è nulla di tutto quello cui ci ha abituato David Cronenberg col suo cinema che non attenga precisamente al “metodo pericoloso” di questo suo nuovo film, così levigato in superficie come solo le cromature di Crash sapevano essere e, di conseguenza, così “bagnato” e perturbante dentro come solo le ferite e le cicatrici scaturite da quel lucido metallo… A Dangerous Method è il teorema cronenberghiano messo a contatto con il suo versante razionale, la definizione precisa di un conflitto che disegna universi ignoti nel dispendio di energie passionali, di vettori sentimentali, di immaginazioni inaudite. L’apparato romantico da “liaison dangereuse” offerto a Cronenberg dalla pièce di Christopher Hampton (autore anche della sceneggiatura) non è che il guscio di un film che brulica di dissidi e rimozioni, che sembra volersi scrivere sull’evidenza un po’ didascalica di un narrare l’inconscio ordinandolo nel gioco psicanalitico, ma in realtà disloca ogni suo elemento nell’ambiguità pulsionale del rapporto tra la figura e il suo mandato, ovvero nello spostamento di senso (di funzionalità) tra la dottrina di corpi e azioni e la determinazione mutante dello spirito, la ratio alternativa delle pulsioni…
C’è Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) che attinge alla psicanalisi di Freud, cura Sabina Spielrein dalla sua isteria, la avvia alla professione medica psicanalitica, la accetta come amante segreta assecondandone le pulsioni più umilianti e spingendosi nel lato oscuro della propria pulsionalità. C’è Sigmund Freud (Viggo Mortensen) che accoglie Jung come suo erede, ma ne subisce la superiorità e ne rifiuta le spinte eterodosse prima di disconoscerlo del tutto. C’è Sabina Spielrein (Keira Knightley) che è la creatura che crea il suo creatore, lo plasma, sì insomma la mosca che si fonde con Seth Brundle e lo costringe alla sua metamorfosi… Cronenberg lavora chiaramente su un dramma in cui la triangolazione tra i personaggi descrive un continuo spiazzamento di ruoli, un insistito passaggio di stato tra figure che cercano disperatamente di piazzarsi sulla scena con reciproca geometria di funzioni (maestro/discepolo, medico/paziente, moglie/marito…), ma non fanno altro che soggiacere a mutazioni a vista, in cui ogni ruolo è il riflesso del suo opposto in ragione di un persistente gioco delle pulsioni. La pericolosità di questo metodo sta tutta nel lavorio che impone alle identità mutanti: Cronenberg scrive il suo dramma della psicanalisi nascente sulla pelle sempre più trasparente di corpi che, quanto più cercano di ordinare nella logica le pulsioni, tanto più si ritrovano esposti nel loro disordine pulsionale.
Il rischio sta nel non saper evitare di essere la cura per i propri pazienti (è la frase di Freud che Jung dichiara di aver inciso nel proprio cuore), laddove la malattia è il territorio da esplorare per diventare davvero se stessi: è questo il nocciolo del dissidio tra “padre” e “figlio”, innestato nel film proprio da quel germe impazzito che è il quarto personaggio del dramma, Otto Gross (Vincent Cassel), nella realtà storica fiero oppositore di Freud, qui inserito nel triangolo come una sorta di Mr. Hyde freudiano, destinato a catalizzare le pulsioni reciproche dei personaggi e a determinare i cambiamenti di stato.
Massimo Causo, sentieriselvaggi.it



***

A Dangerous Method, elegante ma didascalico
Ci scherza perfino lui, Cronenberg stesso, sull’uso che si fa dell’aggettivo “cronenberghiano”, generalmente intendendo un modo di rappresentare il mondo e le persone attraverso la mutazione (corruzione, decadimento, trasformazione) dei corpi.
Nonostante tutto, non si sottrae alla collocazione nemmeno A Dangerous Method, in concorso a Venezia 68, in cui il regista canadese racconta la nascita della psicanalisi – che, in prima approssimazione, significa curare un paziente attraverso il dialogo – concentrandosi sul doppio rapporto che Gustav Jung (Michael Fassbender) instaurò prima con il suo mentore e maestro Sigmund Freud (Viggo Mortensen), e poi con una paziente affetta da pulsioni masochistiche, che diventerà la sua amante e poi essa stessa psicanalista.
Quest’ultima, Sabina Spielrein (Keira Knightley), è appunto il personaggio più legato alle ossessioni di Cronenberg, per come abbiamo imparato a conoscerle. La donna ci viene presentata alla stregua di un animale selvaggio, atteggiata quasi in modo scimmiesco, e trattenuta dagli infermieri durante una crisi isterica. Una volta rinchiusa in clinica, inizia il suo rapporto con il dottor Jung, alla ricerca delle cause del disagio. E man mano che queste vengono a galla, la sua trasformazione psicologica si accompagna a una mutazione della sua postura, della sua camminata e del suo abbigliamento.
Sabina riconosce le sue pulsioni, smette di reprimerle, e così facendo trova il modo di convogliarle in modo non distruttivo. Questo modo, però, è una relazione sado-masochistica con lo stesso dottor Jung che, mentre fa i conti con le coscienze e i blocchi altrui, si ritrova per le mani i propri tabù sociali.
Su questa traccia si instaura l’altra, con Jung che si confronta con il maestro in cerca dell’origine dei suoi desideri, attraverso l’analisi freudiana dei sogni (in un caso, Freud fa notare a Jung che stanno parlando addirittura da tredici ore).
La distanza tra i due dottori si misura su più fattori. Quello sociale: Jung ha sposato una donna molto ricca, mentre Freud vive in relative ristrettezze. Quello caratteriale: Jung è più propenso al conflitto, mentre Freud, anche mentre lo analizza, tende a negarlo. Infine quello professionale: Freud si sente accerchiato, il pensiero dominante nell’Impero austro-ungarico di inizio ‘900 è di un razionalismo quasi fondamentalista, e risulta difficile accettare che esistano problemi che non possono essere ricondotti alla ragione. Per questo è ossessionato dal dare un vestito scientifico inattaccabile alle sue teorie. Jung crede invece ci sia qualcosa che resta fuori da questo territorio, qualcosa che ha a che fare con l’intuizione, la telepatia, addirittura la precognizione.
Se tutto questo vi sembra didascalico e poco appassionante, ebbene, lo è: A Dangerous Method è un film di raffinata eleganza, istruttivo ma distante. E paradossalmente è un film che parla di pulsioni negando nei fatti quelle tradizionalmente associate al suo autore, che cristallizza una storia piena di erotismo, violenza repressa e incombenti minacce (la Prima Guerra Mondiale è alle porte) in una esibizione registica di museale brillantezza. Ve ne diranno meraviglie, ma per amarlo dovrete sforzarvi per bene.
Giorgio Viaro, bestmovie.it



***

Interessante ma non memorabile, il nuovo film di David Cronenberg esplora la guerra di pensiero tra Freud e Jung, non attraversando mai fino in fondo l’anima dei suoi protagonisti.
Alla fine della proiezione di A Dangerous Method si ha la sensazione di aver assistito a un film, sì interessante e ben recitato, ma anche abbastanza piatto a livello visivo e poco capace di osare. L’uomo dietro la macchina da presa è quello che ha trasformato Christopher Walken in un sensitivo, Jude Law in una console vivente, Jeff Goldblum in una mosca umana e naturalmente Viggo Mortensen in padre di famiglia e serial killer. Eppure, nel trattare la disputa di pensiero tra Freud e Jung, adattata da Christopher Hampton e basata sul suo play The Talking Cure, David Cronenberg inserisce il pilota automatico per gran parte del film, quasi rimanesse anche lui a guardare i suoi personaggi da lontano. Costruendo immagini patinate che non avvolgono lo spettatore, il regista apre le menti dei due geni della psicoanalisi, ma nel farlo non ci mette il cuore.
È così che si assiste a un ibrido tra un biopic statico e una pièce capace di mostrare un po’ di ironia nei confronti del transfert, soprattutto nell'indicare quanto i pazienti e i loro “curatori parlanti” possano trovarsi sullo stesso piano (il personaggio di Sabina Spielrein, interpretato da Keira Knightley, ne è l’esempio perfetto). Non basta per realizzare una pellicola indimenticabile, sebbene non manchino scene memorabili e interessanti spunti di storia, come l’intera parte incentrata sulla corrispondenza epistolare tra i protagonisti. Nel restare troppo legato alla cronaca, Cronenberg tiene a bada la sua capacità di immaginare.
Di tanto in tanto il ritmo viene rilanciato, specialmente con l’ingresso in scena del perfetto Vincent Cassel nei panni del totalmente folle Otto Gross, la cui passione è quella di portarsi a letto le pazienti. Il bravo Viggo è più tranquillo del solito nei panni di Freud, Keira è la più scatenata e Michael Fassbender si conferma comunque una delle scoperte più interessanti degli ultimi anni. Alla fine non c’è traccia di delusione, piuttosto di un’opera non troppo personale che potrebbe rappresentare il punto più alto d’incontro tra Cronenberg e il grande pubblico, con una regia di sottrazione schiava dello stampo teatrale della sceneggiatura e tenuta troppo a bada nella sua esplorazione (soltanto verbosa) della violenza psicologica e sessuale.
Pierpaolo Festa, film.it



***

Cronenberg: chi era costui? La psicanalisi non fa bene al regista canadese: uno "sceneggiato televisivo" in Concorso.
“Una torbida storia di avvincenti scoperte in nuovi territori della sessualità e dell’intelletto”. Non è Harmony, ma questione di metodo: A Dangerous Method di David Cronenberg, in concorso a Venezia 68. Di metodo, in effetti, ce n’è fin troppo in stile molto divulgativo, ma non in regia: tratto dallo spettacolo teatrale (The Talking Cure) dello sceneggiatore premio Oscar Christopher Hampton, il triangolo tra Carl Jung, Sigmund Freud e Sabina Spielrein è di impronta e imprinting televisivo. Uno sceneggiato, paratattico e tradizionale, afflitto da aulica verbosità e legato a doppio filo al genitore teatrale: insomma, non va, ancor più considerando il nome e cognome in regia.
A Dangerous Method è un film di Cronenberg? Secondo noi, non lo è, almeno se per Croneberg intendiamo quello duro e puro de La Mosca, Inseparabili, M. Butterfly. Viceversa, prosegue la china di Spider, A History of Violence e La Promessa dell’Assassino - i suoi ultimi tre film, non solo cronologicamente… - ma l’isterizza per contrasto, deprimendo la poetica, tenendo in rigoroso fuoricampo le peculiarità, le idiosincrasie del regista canadese e finendo meramente per illustrare una storia straconosciuta eppure anche qui fondamentalmente incompresa.
Cronenberg sceglie subito da che parte stare: Jung, “il più grande psicologo - chiosa l’incomprensibile cartello finale - di sempre”, a scapito di Freud, con la Spielrein che fa da metronomo terapeutico e punchball emozionale tra i due, al netto dello spanking gentilmente offertole dall’amante Jung. Tutto il resto è noia rettilinea: la singolare e intellettuale tenzone tra i due non è sviluppata come conviene, e come converrebbe, relegandola a pochi “diverbi”, molte lettere e poco cinema. Un’occasione sprecata, con Jung che - almeno qui - preferisce la deriva “spregiudicata e amorale” sulle tracce di Otto Gross (Vincent Cassel, bravo), collega psichiatra in vena di anti-monogamia: che c’azzecca questa digressione - regressione - molto narrativa e poco storicizzata?
Boh, ma il peggio è altrove: se Viggo Mortensen (Freud) e Michael Fassbender (Jung) fanno il loro onesto compitino, a fare danni è la bella e basta Keira Knightley, che fa di prognatismo (scucchia) unica virtù, incarnando un’isteria da macchietta. Non è solo merito suo, ma l’emozione latita davvero, imprigionata in un’architettura saggistica senza profondità e in una decorazione romantica che fatica a trovare un’autentica residenza: saranno pure relazioni pericolose, ma il metodo qui è solo titolo e calco (l'ennesimo: diciamocelo, a chi interessa ancora questa storia?), la psicanalisi la grande sconosciuta, il triangolo quello no di Renato Zero. Con Cronenberg che finisce per ridursi a Carneade: chi era costui?
Federico Pontiggia, cinematografo.it



***

A Dangerous Method: farsi coinvolgere dai pazienti
Una tripla biografia che si trasforma solo in una morbosa love story. Keira Knightley nella sua peggiore interpretazione.
Quando un autore abitua il suo pubblico a prodotti di massimo livello, l’aspettativa per i suoi nuovi lavori diventa altissima, e quando il nuovo film non è del tutto all’altezza dei precedenti, la critica diventa a dir poco acrimoniosa. È già accaduto recentemente a Clint Eastwood e a John Carpenter, accade ora con il nuovo lavoro di Cronenberg. Si etichetta come brutto un film che brutto non è, ma che di certo è al di sotto del livello medio a cui il cineasta ci ha abituati. A ben guardare, però, A Dangerous Method si inserisce benissimo nella poetica del canadese soprattutto per il ragionamento contenutistico. L’incontro tra Jung e Freud non poteva che generare domande e riflessioni nello spettatore affezionato a Cronenberg, nonostante i dialoghi non siano dei più felici.
Protagonista di un tormento che si fa quasi ossessione professionale (Jung non parla d’altro che del suo lavoro, e se da un lato potrebbe essere visto come un personaggio monodimensionale, dall’altro può anche venir letto come un antenato dell’odierno workaholic) è Michael Fassbender, qui alla sua prova meno incisiva, troppo adagiato su scenografia e costumi e una espressione facciale piuttosto ripetitiva. Viggo Mortensen è sfruttato poco e male, ed è naturale chiedersi come mai due attori così poliedrici non siano stati utilizzati con uno script migliore e più approfondito.
Sul trio comunque spicca Keira Knightley, non certo per bravura. Sempre più magra (troppo per essere credibile a quell’epoca), imbruttita dal trucco, nevrotica a monodimensionale, l’attrice ha segnato forse un picco in basso con la sua Sabina Spielrein. E pensare che il personaggio della dottoressa era a dir poco affascinante: isterica e ossessiva, in cura da Jung da giovane, divenne poi una delle prime donne psicanaliste della storia e le sue teorie vengono studiate ancora oggi. Keira la interpreta con fisicità convulsa, esagerata ed esilarante, non smette mai di accentuare i gesti schizzoidi, nemmeno quando il suo personaggio ha trovato la sua strada, il suo posto nel mondo, l’amore e la realizzazione professionale. Non c’è dubbio che con un’attrice più brava (si pensi a una Emily Blunt, per esempio) A Dangerous Method sarebbe potuto essere un film di gran lunga migliore, giacché la Knightley ha una gran quantità di scene.
A parte la sua protagonista, però, se un difetto si può imputare alla pellicola è l’eccessivo didascalismo, a partire dalla fotografia per finire di nuovo ai dialoghi. Certo allo spettatore si potrebbe lasciare una maggiore libertà interpretativa, e magari porlo anche di fronte a un interrogativo più profondo. Del lavoro di Jung e Freud, del loro rapporto prima di grande amicizia, stima e confronto, e poi di dolorosa rottura, si narra ben poco. Quella che poteva essere una buona biografia addirittura tripla, si risolve in una love story morbosa e pettegola, rendendo tre personaggi importantissimi della storia recente delle marionette di carta, che viste di profilo non hanno alcuno spessore.
Federica Aliano, alphabetcity.it



***

Sigmund Freud e Carl Gustav Jung amici, nemici o semplici conoscenti? Questo si chiede l’ultimo film di David Cronenberg in concorso a Venezia 2011. A Dangerous Method è scontro di teorie psicanalitiche, di punti di vista su concetti come scienza, inconscio, sogni e pulsioni sessuali. Forse è solo un’occasione per dire la propria sulla psicanalisi a costo di far passare il suo padre fondatore per un mentecatto!
È il giorno del probabile vincitore. Questo secondo i bookmaker che, si sa, con i leoni d’oro non ci beccano mai. Viene proiettato l’ultimo film di David Paul Cronenberg, film biografico eccellente, pellicola d’autore freddina e, forse, persino furbetta. Da un regista che ha segnato la storia del cinema ci si aspettava un peso specifico decisamente maggiore. Della filmografia base dell’artista canadese, La Mosca, Inseparabili, La Zona Morta, non c’è neppure la più piccola traccia. Del Cronenberg più recente, Spider, A History of Violence e La Promessa dell’Assassino, non si nota pendere nessun filo rosso. La trama…
Sabina Spielrein (Keira Knightley) viene portata nella clinica in cui opera Carl Jung (Michael Fassbender). È il più classico dei ricoveri coatti visti in migliaia di altre pellicole. Le cure scelte da questa parte dell’Europa, tuttavia, sono rivoluzionarie. Siamo alla fine dell’800. In pieno Impero Austroungarico si inizia a testare la rivoluzionaria “terapia delle parole”. Il trattamento sembra dare da subito dei buoni risultati tanto che la giovane, se all’inizio sembra preda di strane psicosi, poi accetta di aprirsi e parlare delle umiliazioni ricevute dal padre durante l’infanzia. Lo strano caso di Sabina Spielrein si delinea subito come particolarmente interessante perché conferma e smentisce allo stesso tempo tanto le teorie psicanalitiche di Freud (Viggo Mortensen) che quelle del suo allievo Jung.
In un film in costume molto parlato (e forse troppo spiegato) sembrerebbe facile trovare un punto di incontro. Freud secondo Cronenberg, in più, non sembra per nulla un personaggio dalle forti convinzioni. Il padre della psicanalisi sembra piuttosto uno scienziato che si fa prendere la mano dalla propria fantasia. Cos’è allora questo film? Una serie di discussioni interessanti e ingenue tra scienziati che cominciano a muoversi a tentoni in una zona completamente inesplorata: la mente. C’è anche il corpo, però. Lo sa bene quel folle amorale di Otto Gross (Vincent Cassel) e gli spettatori presenti in Sala Darsena che hanno visto su grandissimo schermo cosa eccita il personaggio interpretato da Keira Knightley.
Mentre i primi luminari del campo parlano di “pulsioni sessuali”, “ambivalenza” e “rimosso”, Sabina diventa amante e poi assistente personale del protagonista indiscusso della pellicola, Carl Gustav Jung. Una volta guarita del tutto, però, si schiererà apertamente dalla parte di Freud. Strano oggetto questo primo biopic cronenberghiano e altra piece teatrale dopo quella di Polanski. Questa volta il testo è “La terapia delle parole” di Christopher Hampton. La regia, come si dice in questi casi, è invisibile. È un peccato.A Dangerous Method, a firma di un autore capace di mettere in scena demoni con uno stile che nessun’altro ha mai neppure tentato di emulare, rinuncia a dare una rappresentazione ai mostri interiori. Se non forse per una sola scena, particolarmente evocativa di quello che accadrà poi nel Novecento. Freud e Jung arrivano via mare negli Stati Uniti, scorgono da lontano la baia di New York e si discutono di fronte alla Statua della Libertà. Il primo azzarda: “Il futuro certo è da queste parti”. Il secondo sentenzia: “Non sanno che siamo venuti a portargli la peste”.
Sandro Paté, film-review.it



***

Cronenberg, un regista spento
La sessualità come temperatura dell’esistenza: dall’incontro-scontro dei padri della psicanalisi ai tormenti estivi di giovani in cerca di un punto di connessione con il resto del mondo.

Ieri era il giorno di A Dangerous Method ("Un metodo pericoloso"), a suo modo triangolo, anche professionale, tra Sigmund Freud (Viggo Mortensen) e Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) con l’inserimento della paziente e poi collega Sabina Spielrein (Keira Nightley), nell’Europa che va verso il suo primo Novecento di guerre e dittature. Lo firma David Cronenberg, grande regista canadese, che degli incubi, dei desideri più morbosi e del rapporto violento tra carne e mente, ha costruito il suo privilegiato e affascinante punto di vista di un cinema di mutazione e di smantellamento anche fisico di ogni certezza.
È per questo che, postosi per la prima volta "al di fuori" dal contesto "personale" e provando a immergersi nel tema dalla visuale dello studioso, inseguendone il percorso teorico-rivoluzionario, Cronenberg smarrisce la sua forza perlustrativa, accontentandosi di ricostruire prima di tutto un’epoca di grande innovazione (soprattutto con l’aggancio, banalizzato, dei temi wagneriani) e successivamente la sfida didattica tra due colossi del pensiero, con una classica rappresentazione, che rischia di diventare perfino asettica, nell’uso scintillante dell’estetica digitale, che appiattisce ogni contrapposizione.
Mancano, marchio indiscusso di fabbrica, ombre e disturbi (di un’epoca, dei rapporti, delle pulsioni: non bastano certo un po’ di scene nella turbolenta relazione amorosa), come se il peso della storia e dei personaggi mettesse Cronenberg in una dimensione di sofferenza autoriale (per altro già captabile nei suoi ultimi lavori. Si fatica quindi a trovare il segno del Maestro, quello di Inseparabili (il film che più sembra avvicinarsi a questo) e anche di M. Butterfly, con quel terreno della sessualità tutto da esplorare: lecito attendersi, nel corso di una carriera, digressioni e perfino ribaltamenti di prospettiva, ma altrettanto la richiesta di un’impronta personale, che purtroppo qui spesso manca. Così il "viaggio" del pensiero diventa un po’ troppo paludato con Mortensen e Fassbender in impeccabile rigore attoriale e la Knightley caricata da manuale.
Adriano De Grandis, gazzettino.it



***

Cronenberg soccombe dinnanzi a Freud e Jung
Casualmente e sorprendentemente, le visioni veneziane che sto prediligendo sembrano inconsapevolmente unite tra loro dal filo rosso di un discorso intorno all’essere umano, alla nascita, allo sviluppo ed all’evoluzione del suo rapporto nei confronti di questa indefinibile esperienza che è la vita. In una riflessione a cui anche il terzo autore ci introduce, nel tema da lui trattato. Chi meglio di David Cronenberg, da tempo immemore attratto dai labirintici cunicoli della mente, dagli incontrollati e deformanti effetti che la scienza e la tecnica produco o sono in grado potenzialmente di scatenare nel corpo e nella psiche umana, potrebbe addentrarsi negli albori della psicanalisi, e toccare la vita e le interrelazioni che suggellarono il controverso e ramificato sviluppo futuro delle (allora) deliranti teorie nate da Sigmund Freud?…
A Dangerous Method, tratto dal testo teatrale di Christopher Hampton The Talking Cure, e ispirato al libro A Most Dangerous Method di John Kerr, reca in sé materiale assolutamente manipolabile in chiave asettica e da “incubo virale”, nel rapporto tra nevrosi, tensioni, ribellioni del nostro inconscio a pulsioni e istinti repressi.
Cronenberg focalizza l’attenzione sull’ingresso nella vita e nelle teorie freudiane di due personalità determinanti nel loro sviluppo: l’allora giovane psichiatra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein, dapprima paziente presa in cura da Jung e affetta da una grave forma di isteria, successivamente allieva dello stesso Jung e sua amante, e infine, membro della Società di Psicoanalisi di Vienna. L’arrivo di Sabina e la scoperta dell’origine sessuale dei suoi disturbi nevrotici, indirizzano Jung esattamente in linea e sulla scia di Freud. Sabina comincia ad espellere, grazie ad una arcaica “seduta di analisi”, le sue imbriglianti e paralizzanti verità: l’eccitazione estrema causatale dalle umiliazioni cui veniva sottoposta sin da bambina, il proprio bagnarsi in preda ai colpi di vergate del padre, che riceveva nuda, quale punizione per insignificanti mancanze a cui non aveva provveduto, le generavano un insostenibile disagio e disprezzo di se stessa, sfociante in una reazione isterica feroce. Sabina percepisce sempre più chiaramente la chiave sessuale della propria nevrosi, e si lega in un solido e crescente meccanismo di transfert al giovane medico Jung, già sposato e prossimo a diventare padre. Lo psichiatra cerca il confronto con Freud, al quale rivela il caso Spielrein e dal quale riceve conferma delle sue diagnosi. Sabina è una donna colta ed intelligente, che desidera diventare un medico, e visti i progressivi miglioramenti della sua condizione, Jung la coinvolge nell’assistenza ai suoi esperimenti. Lo psichiatra percepisce lucidamente la difficoltà nel gestire un controtransfert sempre più dirompente con la sua paziente. Sabina è ancora vergine, e desidera sperimentare la sessualità nella consapevolezza che le catene spezzate della sua nevrosi le hanno donato. E vuole farlo con Jung. Lo psichiatra ne è attratto, cerca di resistere, ma l’arrivo nella sua clinica di un paziente di Freud, Otto Gross, e della casistica che si porta appresso, ossia la propria volontà di un assoggettamento pieno ed incondizionato ai suoi istinti, gli toglie le ultime remore. Il controtransfert è totale, Jung cede al suo desiderio e si unisce a Sabina. E questo “errore”, oltre a rivelarsi pericoloso per la vita emotiva di Jung, sarà la molla che porterà professionalmente il giovane psichiatra a distanziarsi sempre più da una visione freudiana esclusivamente incentrata sulla sessualità e sulla scientificità dell’approccio con i problemi della psiche ed esente da qualunque componente “trascendentale-metafisica” e dalla possibilità di indicare un percorso di autorealizzazione attraverso l’esame dell’inconscio.
Con un tale “combinato disposto”, e con un occhio cronenberghiano dietro la macchina da presa, l’aspirazione ad una composizione filmica e narrativa ‘deviata’, labirintica, incalzante, ossessiva, era il desiderio a cui mi sarei piacevolmente e completamente abbandonata, pronta a perdermi in tali tentazioni-sollecitazioni cerebrali e sessuali. Ma così non è stato. Inspiegabilmente, il regista mantiene un piano da ‘racconto in costume’ piatto e superficiale, limitandosi a momenti di astrazione asettica soltanto in poche inquadrature, dalla quali traspare il potenziale erotico della relazione tra Jung e Sabina e l’isolamento psicologico ed emotivo di Jung. Altra e fondante pecca alle ambizioni competitive di tale pellicola, la imbarazzante recitazione di Keira Knightley, incapace nel rendere qualunque caratterizzazione plausibile ad un personaggio femminile estremamente complesso e affascinante come Sabina Spielrein. Unidimensionale, a prescindere dagli stati d’animo e dagli atteggiamenti da esternare, completamente imbarazzante nella resa degli spasmi nevrotici e compulsivi, in cui ci imbattiamo da subito e che danneggiano (da subito) la credibilità del lavoro del cineasta canadese.
Maria Cera, taxidrivers.it



***

Un’occasione perduta, anzi più occasioni perdute. Questa è la sensazione che rimane allo spettatore (e in particolare a una spettatrice “devota”) dopo la visione di quest’ultima fatica del regista canadese di Videodrome, Crash, Inseparabili e degli ultimi A History of Violence e La Promessa dell’Assassino. La vicenda è ormai nota, e tratta della relazione tra Sigmund Freud, Sabina Spielrein e Carl Jung. Nell’Austria e nella Svizzera dei primi anni del Novecento. Fin qui il materiale di partenza, che avrebbe potuto fornire anche a un regista diverso dal Cronenberg che molti di noi conoscono un’occasione preziosa per esplorare alcuni temi a lui cari: contrasto tra pulsioni e razionalità, rapporto femminile-maschile, doppio, separazione, mutazione, ruolo della morte nella vita dell’uomo.
Invece tutto ciò non accade: sullo sfondo della perfetta scenografia di Carol Spier e dei costumi di Denise Cronenberg, come sempre più che all’altezza del compito, i personaggi si muovono come esseri di carta, vuoti di senso e privi di spessore, recitando la vita e le teorie dei due padri della psichiatria con poca convinzione. La colpa non è di Viggo Mortensen, Michael Fassbender o Vincent Cassel (sulle responsabilità della Knightley invece…); il punto debole del film è proprio la sceneggiatura che, dispiace dirlo, rasenta e a volte tocca con mano il più classico e il meno interessante dei biopic che passano sul piccolo e sul grande schermo. Così, tra battute prevedibili (e dimenticabilissime) tra i tre protagonisti principali, scene di sesso nemmeno troppo torbido, primi piani con terribile recitazione facciale, lo spettatore segue l’inevitabile svolgersi di una vicenda che non riesce assolutamente a coinvolgere e ben poco a interessare.
Inutile soffermarsi sull’ottimo livello tecnico del film che, praticamente sotto tutti i punti di vista, in quest’ambito non offre il fianco a critiche. Risulta a tratti, soprattutto negli esterni un po’ piatta la fotografia, forse a causa del girato in alta definizione, forse per espressa intenzione dell’autore, ma certo questo non è il problema principale dell’opera. Il vero problema di A Dangerous Method è che il film è praticamente assente, e oscilla tra la messinscena teatrale e la megaproduzione hollywoodiana, tanto che anche la colonna sonora di Howard Shore risulta poco originale e spesso irrilevante.
Peccato, perché Cronenberg ci ha dato, nel tempo, quasi sempre prove di alto livello, e che anche nei suoi film post-Spider aveva comunque mantenuto una più che dignitosa qualità. E non si tratta, come potrebbe sembrare, di aspettarsi per forza un film “cronenberghiano”, non è un problema di genere, dato che in questi anni l’autore ha spaziato tra molte delle tematiche possibili: horror, fantascienza, dramma, gangster movie… Si tratta di riconoscere, purtroppo, più della presenza di un nuovo Cronenberg, l’assenza di quello vero.
Insomma, quello che non si vede in questo film è il talento del regista, un autore che si è dimostrato unico nell’immaginare contesti e nel mettervi in scena personaggi e vicende (succede in Videodrome, Crash, eXistenZ e comunque in tutte le sue migliori opere) qui non crea assolutamente un contesto (perché il tutto è un set che si appiattisce sulla fedeltà alla ricostruzione). Tutt’altra cosa rispetto, ad esempio, alla Tangeri del Pasto Nudo. E così, se il “mondo” dove Cronenberg fa muovere i suoi personaggi invece che un ritratto punta ad essere una fototessera, allora gli attori non possono fare a meno di essere figurine di cartone ritagliate e messe in posa a recitare una versione estesa di Wikipedia. E allora esci dal film e pensi che in fondo ci sono decine e decine di registi-carneadi capaci di mettere su pellicola in questo modo questa storia. Speriamo quindi nel nuovo progetto, Cosmopolis, annunciato dallo stesso regista per Venezia 69, sperando che questo non sia l’incipit di una nuova, Dangerous Way.
Paola Cavallini, cinefile.biz

[Modificato da |Painter| 14/09/2011 13:45]
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Cerca nel forum

Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 17:35. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com