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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 7

Ultimo Aggiornamento: 17/09/2012 19:27
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Sesso: Maschile
08/12/2010 15:54


RASSEGNA STAMPA PARTE 7


David incontra di nuovo Viggo sul set di un altro film abbastanza alieno, ma solo all'apparenza, alla filmografia del regista, come già lo era stato A History of Violence (magnifico lavoro di entrambi). Stavolta siamo nella malavita russa inserita nel contesto londinese, con tanto di ristorante lussuoso a fare da copertura e tana per la potente famiglia mafiosa che lì ha costruito il proprio quartier generale. Ma la storia inzia altrove: una sedicenne viene portata d'urgenza all'ospedale per partorire, la ragazza è ricoperta di lividi ed escoriazioni, di sicuro vittima di violenze e abusi e muore mentre partorisce la piccola che avrà come unico legame con il mondo l'ostetrica Anna (Naomi Watts sempre all'altezza dei ruoli che interpreta). Proprio Anna infatti si impadronisce del diario scritto dalla ragazzina morta, Tatiana, portandolo a casa per farlo tradurre allo zio russo nella speranza di ritrovare in quelle pagine un qualche appiglio per risalire alla famiglia della piccola e impedire che venga affidata ai servizi sociali. Lo zio però non è un genio né un fulmine di guerra, così Anna decice di inziare ricerche anche in proprio, per sveltire le pratiche. Ciò la porta a varcare la soglia del ristorante La transiberiana dove la accoglierà amorevolmente il vecchio Semyon, intento a cucinare con passione; l'atteggiamento dell'uomo trae in inganno Anna che in un primo tempo accetta di fidarsi di lui.
La duplicità d'animo dei personaggi è come al solito messa in risalto da Cronenberg, ognuno nasconde qualcosa, magari le cause interne a sé che determinano alcuni eventi, magari eventi oscuri o solo drammatici che lo hanno però cambiato sostanzialmente. Tutti i personaggi sono stratificati e ogni volta che la macchina da presa li inquadra questa stratificazione si manifesta, a volte lentamente, a volte con cambi repentini di carreggiata, a volte solo approfondendo la psicologia di quei personaggi. Tutti gli attori sono diretti alla perfezione a partire da Viggo Mortensen che interpreta l'autista senza scrupoli del boss, agghiacciante dalla pettinatura all'abbigliamento ai tatuaggi sparsi sul corpo e molto est europeo. Il suo personaggio è quello più complesso e di certo più affascinante e lui è bravissimo. Grande amico dell'autista Nikolai Luzhin (il già citato Viggo) è il figlio del boss, Kirill (Vincent Cassel), inconcludente e poco intelligente, istintivo e chiacchierone, è l'opposto dell'amico, ma è pur sempre il figlio del boss e questo è anche il suo unico pregio. Cassel mette in gioco le sue doti e regala la massima credibilità al personaggio lasciandosi andare a quai cambi di umore improvvisi e scene da esagitato che spesso ci ha regalato anche in passato, anche se il Vincent del capolavoro francese L'odio è impossibile da dimenticare. Brava e misurata ancora una volta Naomi Watts che dalla mirabolante intepretazione di Mulholland Drive continua a non calare mai in perfomance. Stavolta interpreta una donna che la vita ha reso triste, ma che diventa determinata quando si prende la responsabilità del futuro della neonata orfana che ha fatto nascere.
La regia è essenziale e rigorosa come un compito di matematica, non si concede fronzoli, né momenti di sperimentazione, ci racconta questi personaggi e le loro storie e ci rende partecipi di una scena che diventerà di culto: Nikolai-Viggo che ingaggia una lotta serratissima con due sgherri all'interno di un bagno turco, completamente nudo e incazzato forte. E qui ci sono tanto sangue e tanta violenza, qui c'è tanto Cronenberg in quel corpo che lotta vestito solo dei propri tatuaggi e mosso da una grinta indicibile. E' il corrispettivo della bellissima scena di sesso dei primi minuti di A History of Violence quella con la moglie vestita da cheerleader, per intenderci. L'attimo senza filtri e senza mediazioni, quello che ti si incide nella memoria, quello che avrebbero apprezzato i surrealisti nei loro pellegrinaggi tra una sala e l'altra. Il ritmo che il regista dà all'opera è pacato, senza essere lento, calcola i tempi giusti di immersione nella storia e coinvolge. Quella che vediamo è una Londra duplice incarnata nella duplicità dei personaggi: Anna è una persona positiva, fa nascere i bambini ed è da poco tornata a vivere con la madre dopo aver interrotto una relazione, il suo incontro con il lato oscuro della città non poteva essere meno soft. La malavita ha la solita parvenza accettabile e nasconde i peggiori crimini. Il punto di incontro è l'attrazione tra Anna e Nikolai costruita bene sulla fisicità dei personaggi più che sui dialoghi.
Il punto dolente è infatti la scrittura di Steven Knight (già autore dell'inutile Piccoli affari sporchi diretto da Stephen Frears nel 2002) che crea una storia banale da più punti di vista senza mai allontanarsi dai cliché. Tanto sono essenziali le riprese, quanto sono ridondanti alcuni risvolti dei personaggi, tanto è chirurgico Cronenberg, tanto Knight ci riempie di dettagli scontati. Di sicuro affrontare l'argomento della tratta delle minorenni dai paesi dell'Est non è semplice e qui i momenti che vi si riferiscono sono gestiti, sia come regia che come scrittura, molto bene, ma il resto della storia sa di già visto. Grazie al tocco registico del canadese però il film resta ottimo, nonostante la storia che di certo non sorprende. Altra perplessità riguarda la traduzione italiana del titolo originale, quell'Eastern Promises ha così tanto senso da aver spaventato la distribuzione? Perchè mai La Promessa dell’Assassino che sembra uno speciale di porta a porta su qualche omicidio recente? Non se ne capisce il motivo, ma non è intelligente penalizzare i film andando a braccio sulla traduzione dei titoli.
Sara Trolio, cineboom.it



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Dai tempi di Spider (2002) - passando per A History of Violence (2005) - David Cronenberg sembra aver adottato una sterzata nei confronti del suo "estremo" cinema passato: inizialmente imparentato con il migliore e lontano B-Movie Usa, poi già tra gli 80 e i 90 dallo stile gelido e controllatissimo. In realtà ci troviamo di fronte a un approdo maturo, di raro coraggio più che di convenzione verso le leggi della ricca Hollywood: l'autore canadese è riuscito a immergere la sua "poetica del corpo" in un contesto dove classicismo non coincide mai con banalità e riconciliazione, e Eastern Promises ne è un esempio folgorante.
Ci troviamo difatti davanti a un vero e proprio noir all'interno del quale sono riscontrabili le caratteristiche cardini del genere: una morte, buoni e cattivi, una ragazza combattiva e (forse) in pericolo, un destino (o forse più) da segnare, il passato che, imperterrito, macchia di sangue il presente. Ed è proprio quest'ultimo tema che ne fa una sorta di corollario di A History of Violence, che secondo chi scrive è in assoluto il capolavoro di Cronenberg.
Si parte da passi di diario che fluttuano durante tutto il corso degli eventi. Il versante noir è dunque riconducibile essenzialmente al già vissuto, e gli spettatori si pongono in perenne stato di tensione per eventi di vite passate pronte a macchiare vite future. In questo senso, se mettiamo da parte le sorti del neonato, i personaggi interpretati da Viggo Mortensen e Naomi Watts non assumono ruoli necessariamente di primaria importanza, ma dato che la mafia russa, impersonificazione del male, è un demone non curabile, i loro sforzi appaiono come segnati da una sorte già scritta: il finale, sussurrato, apparentemente buonista e lieto, si staglia sul volto di Nikolai e sembra quasi inchiodarlo in un circolo inesorabilmente macchiato di sangue, che fa sembrare ciò che abbiamo visto fino a quel momento soltanto un passaggio della sua vita, che non potrà che contenere innumerevoli fasi riconducibili a quelle già vissute, in attesa di una morte annunciata.
Il Nikolai di Viggo Mortensen sa di non poter uscire vincitore dalla sua esistenza: è un vinto che vive alla giornata, e quotidianamente lotta affannosamente per uscirne vivo, ed è sotto quest'ottica che la scena della sauna (giustamente già divenuta cult) assume connotati "alti". E' come trascrivere la voglia di vita, tra vapori e mattonelle, tra fluttui di sangue e corpi martoriati, nonostante essa abbia assunto ineluttabili connotati amari. E' la voglia di potersi dire uomo, essere umano e non macchina segnata da tatuaggi che quasi hanno rubato il flusso degli avvenimenti al futuro stesso.
Mortensen (che sarebbe il caso di ammirare in versione originale per apprezzare a dovere i suoi sforzi per riprodurre un credibile accento russo) è meraviglioso nelle quasi impercettibili gamme espressive poste su di un volto che non ha paura di mostrare i segni dell'età, nel recitare con tutto il suo corpo. Uno sforzo non indifferente che, non fosse per la poca credibilità assunta con gli anni dal premio, vorremmo veder premiato con l'Oscar. Ma il resto del cast non è da meno.
Sceneggiato da Steve Knight, già autore del copione di Piccoli Affari Sporchi di Frears, La Promessa dell'Assassino è un film lucido e mai accademico; terribile per come applica quei mutamenti del corpo, tanto cari al regista canadese, in una realtà tragicamente realistica. Nerissimo!
Diego Capuano, ondacinema.it



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Tattoo You
Un diario lasciato da una ragazzina incinta morta di botte. Una bambina che ha fatto in tempo a vedere la luce. Una ostetrica di origine russa come la vittima che cerca di scoprire chi possa essere il padre, o un parente, della piccola. Un boss della mafia russa nascosto dietro la rassicurante e paciosa bonomia di un ristoratore. Il figlio debole e violento. L'autista con gli occhi del killer e un segreto inconfessabile. Non c'è molto di più nel nuovo film di David Cronenberg, La promessa dell'assassino.
In originale Eastern Promises, come se l'altra faccia di un giano bifronte ci parlasse di "promesse dell'Est" dopo che A History of Violence (il precedente titolo del cineasta canadese) si era occupato dell'Ovest, inteso come West, con archetipi di sangue annessi. E se nel film precedente era il fantasma di una natura criminale a irrompere nell'ordinary life dell'americano medio, ora avviene il contrario. Il mondo chiuso della mala è contaminato da una presenza non malvagia (anzi due, l'ostetrica e la bambina) e dalla possibilità di scegliere il bene.
Non c'è molto di più a livello narrativo. La storia è esigua, senza un'apparente chiusura, con un'agnizione attesa e negata, rapporti personali - anche sentimentali, tra il killer Viggo Mortensen e l'ostetrica Naomi Watts – e una vendetta che non esplodono.
Qualcuno ha storto e storcerà il naso. Come sempre con Cronenberg, tra i pochissimi rimasti su questa Terra a raccontare storie non per tutti, sempre ostiche, sempre avanti. Certo, A History of Violence, nella compattezza di una sceneggiatura di ferro, pareva più coinvolgente. Ma la radicalità non cambia, e in fondo l'astrattezza è una delle sfaccettature più interessanti. I destini di tutti, secondo le regole del noir, sono già tracciati; quindi perché ridefinirli, meglio determinarli a priori, come se i personaggi fossero in fondo tutti già raccontati e subissero le conseguenze del proprio ruolo, del proprio legame familiare, di un peccato originale impossibile da scrollarsi di dosso. I tatuaggi. Il regista della "nuova carne" non si lascia sfuggire la metafora: ogni disegno sulla pelle racconta qualcosa di te, di loro. La verità è la stella che hai sulle ginocchia o sopra le spalle. O la croce sulla schiena. O il serpente sull'avambraccio. Quello che sei davvero è finto, contano solo i marchi che ti porti addosso. Non è l'autista-killer il figlio vigliacco del boss, ma lo diventa quando gli incidono i tatuaggi addosso. Non solo l'epidermide racconta la tua storia e il tuo passato, ma li mistifica. E l'agguato nella sauna conferma l'idea dell'estetica della violenza cara a Cronenberg. Mai grafica, mai plastica, mai glamour, mai digitale; il più possibile brutale, invece, e realistica. Come a dire: è questa cosa qui, insostenibile e schifosa, prendere o lasciare.
Alla fine il killer-autista-altro-da-sé invece di sedere alla destra del padre, siede al suo posto. E la macchina da presa perimetra il campo d'azione con una circolarità che non lascia scampo e vie di fuga. Senza la catarsi terminale tipica dei mafia-movie (si pensi alle melodrammatiche conclusioni dei Padrini di Coppola) la storia pare monca. E invece sono le plumbee atmosfere di una Londra catacombale a parlare, il rosso del sangue e il nero che spegne ogni colore a segnare la "pelle" di Eastern Promises, e il suo senso. In un anno molto avaro di grandi film da ricordare (A prova di morte di Tarantino, L'assassinio di Jesse James di Dominik, Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, Ratatouille di Brad Bird e davvero poco altro…), quello di Cronenberg riconcilia con un cinema ormai incapace di rischiare e di stupire.
Mauro Gervasini, carmillaonline.com



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La vicenda di La Promessa dell’Assassino prende spunto da una giovane ragazza russa che muore nel momento in cui dà alla luce una bambina in un ospedale di Londra. L’ostetrica Anna (Naomi Watts), un’inglese di padre russo, prendendo il diario della ragazza, si accorge che essa è stata violentata e maltratta. Inizia cosi una ricerca che la porta in breve tempo in contatto con una famiglia di ristoratori (in apparenza) russi, dove l’anziano proprietario, dai modi gentili e raffinati, campeggia su tutti (l’interpretazione di Armin Mueller-Stahl è di quelle che rubano la scena a tutti gli altri protagonisti), in particolare sul figlio Kirill (Vincent Cassel) e sul suo guardaspalle Nikolai (Viggo Mortensen). Nel racconto iniziale della trama ci fermiamo qui per non togliere allo spettatore il gusto di una perfetta narrazione thriller, grazie all’eccellente sceneggiatura di Steven Knight.
E’ attraverso la linearità non solo narrativa, ma anche formale (campi in primo piano e controcampi in piano americano configurano la classicità della costruzione del racconto visivo), che Cronenberg riesce in una delle descrizioni più efficaci di un mondo chiuso e violento come quello della Vory V Zakone, la malavita proveniente dalle varie repubbliche dell’ex Unione Sovietica, una malavita - e una comunità - completamente impermeabile agli usi e alle mode delle società occidentali, dove essa si è installata nel corso del tempo, ma delle quali riprende alcuni topoi retrogradi (per esempio quello tipico del maschilismo e della violenza che esso porta con sé) e il fine ultimo della società dell’apparenza e dell’opulenza occidentale, quello del denaro come simbolo del potere e della famiglia intesa come nucleo base sul quale costruire, attraverso il dominio e la violenza, la società (criminale o istituzionale che sia).
La caratterizzazione dei diversi nuclei sociali in gioco (la normalità della protagonista e dei suoi parenti, il dominio violento della famiglia criminale, capitanata però da un uomo dalle maniere apparentemente suadenti), per mezzo di piccoli tratti appena accennati, che definiscono la psicologia dei protagonisti, riesce a rappresentare un discorso narrativo intrecciato finemente, facendo del racconto il vero e proprio protagonista del film. Un’ambientazione e una scelta formale alquanto inusuali in Cronenberg, che però risultano efficacissime, come altrettanto efficace risulta la scelta della voce fuori campo della ragazza uccisa che legge il suo diario. Vero e proprio deus ex machina del racconto, ma altresì macguffin che permette all’autore di introdurre lo spettatore nel mondo complesso dei codici e delle spietate leggi della Vory V Zakone.
Altrettanto appropriata, al di là dell’ambientazione londinese, risulta la scelta della fotografia del film (realizzato dal fido Peter Suschitzky), una fotografia impregnata di cromatismi grigi e blu, che donano alle immagini un senso di inquietudine perenne, una tipica scelta stilistica che caratterizza da almeno un ventennio una delle innovazioni linguistiche più evidenti del cinema della New British Renaissance (da Ken Loach a Mike Leigh, giusto per citare alcuni dei massimi esempi della costruzione dell’immagine del cinema anglosassone).
Ne La Promessa dell’assassino Cronenberg ricostruisce ciò che aveva decostruito nel precedente A History of Violence, dove faceva implodere la forma standard del noir, ricreando in quest’ultima opera una classica struttura thriller aggiornata alla contemporaneità. Infine, oltre alla nota bravura degli attori principali, vanno segnalati i ruoli secondari dello zio e della mamma della protagonista, tratteggiati in maniera magistrale da Jerzy Skolimowsky e da Sinéad Cusak. Un ultimo consiglio, non perdetevi i titoli di coda, degni dei migliori titoli di testa creati nel passato da Elaine e Saul Bass.
Alessandro Morera, carmillaonline.com



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Eastern Promises segna il ritorno dietro la macchina da presa di David Cronenberg dopo A History of Violence. La trama è ambientata a Londra e incentrata sul mondo della mafia russa. Mondo in cui si trova catapultata Anna Khitrova, ostetrica presso un ospedale di Londra, dopo che una quattordicenne russa muore di parto dando alla luce una bambina. Per rintracciarne i familiari, malgrado l'opposizione dei suoi parenti che la sconsigliano di farlo, Anna si servirà del diario della ragazza, fino ad approdare ad un ristorante il cui proprietario è Semyon, all'apparenza gentiluomo dai modi affabili, ma che in realtà è un boss della Vory V Zakone legato al mercato delle prostitute venute dall'est e direttamente coinvolto nella vicenda personale della ragazza morta.
Alle dipendenze di Semyon c'è il figlio Kirill, debole e instabile, e Nikolai Luzhin, autista dal passato misterioso.
Anna e Semyon sono i personaggi simbolo di due mondi contrapposti, nettamente separati: la mafia russa da una parte, la "brava gente" dall'altra. Nel film di Cronenberg sono le caratterizzazioni più definite, quelle che presentano meno lati nascosti rispetto agli altri attori della vicenda. Anna, spinta dalla volontà di trovare una famiglia a quella bambina rimasta orfana, entrerà in contatto con il mondo mafioso di Semyon. L'incontro/scontro tra questi due mondi influenzerà profondamente sia Kirill, che Nikolai. Kirill vive all'ombra del padre che profondamente detesta, ma non ha la forza nè la volontà per ribellarsi, finendo per esserne una pallida imitazione.
Nikolai è solo un "autista": va dritto, a destra o sinistra a seconda dei bisogni dei suoi capi. E' un mero esecutore di volontà altrui.
Kirill e Nikolai sono uomini senza identità, vivono nell'ombra, le loro azioni e le loro scelte sono dettate dalla volontà degli altri, da stimoli esterni. Sono spiriti affini, pur nella loro differenza caratteriale: glaciale e impassibile Nikolai, ridondante ed eccessivo Kirill, ma tuttavia legati tra loro da una profonda amicizia e rispetto reciproco. Anche se non a livello biologico, sono come dei gemelli.
Il loro legame è simbiotico come quello dei gemelli Mantle di Inseparabili; i due condividono le stesse esperienze e le azioni dell'uno devono essere replicate dall'altro. Nel bordello, durante un festino sfrenato con delle ragazze, Kirill imporrà a Nikolai di scegliersi una ragazza e scoparsela come ha fatto lui e suo padre prima di lui "per essere un vero uomo e non sembrare una checca". Quando Nikolai sarà promosso al rango di capitano, (l'abbraccio tra Kirill e Nikolai in un campo/controcampo è identico a quello fra Beverly ed Elliot Mantle di Inseparabili), l'identità tra i due sarà perfetta. I tatuaggi aggiunti sulle spalle e sulle ginocchia di Nikolai sanciranno la loro perfetta interscambiabilità e sarà il motore scatenante della scena migliore di tutto il film: l'aggressione a Nikolai nel bagno turco. La scena della sauna è di una violenza inaudita, perfetta nella propria crudezza, nella sua rappresentazione coreografica così poco hollywoodiana, dai cromatismi molto accesi della fotografia di Peter Suschitzy e dal suono che sottolinea le ferite e le lacerazioni del corpo umano.
Corpo umano che racchiude, nelle ossessioni del regista canadese, mediante la lettura dei tatuaggi, l'identità e la memoria dell'individuo come un libro, ma al contempo la fonte del suo stesso inganno. Il corpo mostra solo l'apparenza di ciò che siamo, non ha la capacità di svelare fino in fondo la nostra anima, di andare oltre queste apparenze. Una zona morta, che rimane invisibile e celata agli occhi dello spettatore, che viene manipolato da ciò che "crede" di poter vedere, da quello che è solo una realtà soggettiva, non oggettiva.
Basato sulla sceneggiatura di Steven Knight, Cronenberg dirige un thriller cupo, teso, dominato da forti contrasti, violento ma non compiaciuto, asettico e malsano in egual modo, dalle forti venature noir, ma lasciando spazio anche al melò. Una contaminazione di generi che permette di scavare in profondità nella psicologia dei personaggi, non lasciando spazio ad alcun tratto manicheistico in essi. Un cast di prim'ordine senza alcuna dissonanza. Viggo Mortensen è ormai lontano anni luce dall'Aragorn del Signore degli Anelli. Il sodalizio con Cronenberg, iniziato con precedente A History of Violence, lo gratifica con la sua migliore interpretazione. Attraverso la potente espressività del suo volto, i suoi gesti, dona vita ad un personaggio indimenticabile capace di essere glaciale ed efferato come nella scena della sauna, autentica macchina distruttrice sostenuta dal solo istinto di sopravvivenza più brutale, ma capace di momenti di vera compassione.
La vera sorpresa è però Vincent Cassel, figlio snaturato e debole di Semyon, apparentemente stereotipato ma speculare al personaggio di Mortensen a cui si adagia, perennemente in bilico ad un precipizio morale da cui saprà togliersi all'ultimo momento rifiutandosi di eseguire i dettami malavitosi del padre.
Da non sottovalutare la prova di Naomi Watts. E' lei, involontariamente, il "virus" che contaminerà la vita di Nikolai attraverso la "tossina" del diario di Tatiana, la ragazza morta di parto. Come la donna triforcuta Claire Niveau/Genevieve Bujold, il suo istinto di madre mancata, innescherà l'effetto domino che da Nikolai arriverà al vero cuore nero del film: Il boss Semyon (un bravissimo Armin Mueller-Stahl), cinico e spietato, attento anche al più piccolo particolare, perché "è dal dettaglio più insignificante che nascono le fregature".
Piccola curiosità: nessuno degli interpreti, principali e secondari, è russo o d'origine russa. Una successiva visione della pellicola in lingua originale renderà giustizia al lavoro molto fine eseguito dagli attori coinvolti nei confronti del linguaggio, uno slang anglo- russo; peculiaretà che la piattezza del doppiaggio italiano non fa percepire.
Si è parlato molto della svolta di David Cronenberg regista con A History of Violence. Molti si sono scandalizzati del fatto che il cineasta canadese si sia venduto agli studios per poter essere più accessibile verso il grande pubblico e non essere più un autore di nicchia (una nicchia comunque decisamente ampia qualitativamente e quantitativamente), di aver lasciato alle sue spalle lo sperimentalismo delle prime pellicole. Niente di tutto questo: già con A History of Violence, ora con Eastern Promises, l'autore canadese costruisce una pellicola compatta e rigorosa, perfettamente coerente con le tematiche dei suoi film precedenti: lo studio del corpo come ricerca dell'essenza dell'animo umano, senza tradire se stesso. Tale continuità è sancita anche dalla scelta del cast tecnico, che condivide il lavoro di Cronenberg fin dalle sue prime pellicole.
La fotografia di Peter Suschitzy è molto variegata: dal tono gelido di fondo fino al patinato del finale che rimanda a quello di Velluto Blu di David Lynch. Molto accurate le scenografie degli interni del ristorante russo di Carol Spier, sfondo perfetto per un'altra scena bellissima: la promozione di Nikolai al rango di capitano. Avvolgente e mai invasiva la colonna sonora di Howard Shore ed eccellente il montaggio di Ronald Sanders, altri collaboratori storici di David Cronenberg.
Il cineasta canadese è più vivo che mai. Dividerà il pubblico e la critica come è sempre successo, ma i veri fan sapranno apprezzare fino in fondo anche questa pellicola.
"I'm just a driver."
filmscoop.it



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David Cronenberg e Viggo Mortensen ancora insieme dopo A History of Violence per raccontare una storia ambientata in una Londra cupa, dove i luoghi non sono Westminster e il Tower Bridge, ma le strade sotto lo spietato potere della mafia russa.
Qui l'ostetrica Anna Ivanovna (Watts) si trova coinvolta nella storia di Tatiana, una giovane ragazza incinta che presto si scopre avere connessioni con la fazione mafiosa capeggiata da Semyon (Mueller-Stahl). Per lui lavorano suo figlio Kirill (Cassel), non troppo a posto con la testa, e il misterioso autista Nikolai (Mortensen). Anna, che vorrà prendersi ogni cura possibile per il neonato di Tatiana, non rinuncerà facilmente ad informazioni sulla ragazza.
Il regista riprende il discorso della dualità (triplicità?) della vita con Nikolai, autista tuttofare che, mentre tenta di guadagnare posizioni nella gerarchia mafiosa, si trova contemporaneamente ad affrontare due realtà: quella criminale (impressionante la freddezza con cui sistema lo scomodo cadavere verso l'inizio) e quella normale (attraverso l'incontro con Anna), che lascia trasparire il poco conosciuto lato umano del protagonista.
E infatti la scoperta del passato (di Nikolai, ma non solo; dopotutto è l'indagine sul passato di Tatiana che fa muovere tutta la trama) è un altro tema portante del film. Questa volta a raccontare le vite sono i tatuaggi, che la mafia usa per identificare l'appartenenza, i meriti, le prigionie, etc. delle persone e che mettono in risalto la solita ossessione di Cronenberg per la carne, per il corpo.
Non a caso una delle sequenze clou della pellicola è quella della sauna, con Nikolai che si trova a combattere nudo contro due mafiosi armati di coltello: i tatuaggi, il sangue, i colpi inflitti dalle lame, mettono in evidenza quel riferimento al corpo, quell'enfatizzare la vulnerabilità dell'uomo, vittima della violenza attraverso la carne. Ah... notare: nemmeno una pistola appare nel film; i criminali usano unicamente armi da taglio - rasoi, lame, coltelli -; il motivo va chiaramente ricercato proprio in quello di cui ho appena parlato.
Per certi versi si può pensare anche alle mutazioni (quante volte Cronenberg è tornato sulla metamorfosi?), anche se in questo caso intese non come mutazioni fisiche - come al solito del regista (vedi La Mosca, Brood - La covata malefica, Crash, eXistenZ) -, ma più che altro come mutazioni psicologiche e sociali (Nikolai, ma anche Tatiana, alla ricerca di una vita diversa).
L'ambientazione è perfetta, il regista non si perde nei soliti cliché nella rappresentazione della mafia russa e dei personaggi, anzi ognuno è caratterizzato magnificamente (anche Cassel è riuscito a stupirmi per la sua bravura con cui si è calato nel suo ruolo).
Ma la punta di diamante del cast è senza ombra di dubbio Viggo Mortensen, freddo, spietato, che parla con un'impressionante accento russo (in italiano si perde moltissimo! Magari cercatevi qualche scena su YouTube per farvi un'idea o, ancora meglio, recuperate il film in lingua originale!), eppure che lascia trasparire tutto il suo lato più umano (vedi per esempio la scena conclusiva; bellissima la battuta: «Non posso essere re se qualcun altro siede ancora sul trono», che a mio parere può essere letta in diversi modi). Performance indubbiamente da Oscar, come da Oscar è anche la profonda colonna sonora di Howard Shore.
La Promessa dell'Assassino è A History of Violence più il Cronenberg che in quel film mancava. E' un'evoluzione del cinema del regista canadese, un tassello importante nella sua filmografia, meno sporco e putrescente delle sue altre pellicole, ma con cui non abbandona temi a lui da sempre cari e con cui non mancherà di coinvolgere e stupire.
Nota a margine per chi ha visto il film: Un ennesimo spunto interessante può essere anche il discorso dell'omosessualità, ripreso più volte nel corso della narrazione. Se ne parla solo per mettere in evidenza il suo essere bandita dall'ambiente mafioso oppure c'è qualcosa che trapela in modo sottile da alcuni personaggi (Kirill?)
Maurizio Macchi pellicolascaduta.it



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David Cronenberg ha voluto con questo film darci l'antitesi del suo film precedente. Se in A History of Violence il bene era solo una maschera sotto la quale si nascondeva il male, in Eastern Promises il bene si nasconde sotto il volto di un sicario della mafia russa londinese.
Capace di raccontarci storie diverse, ma tutte con al centro l'uomo, nelle due componenti dell'anima e del corpo, Cronenberg ritorna in quella Londra che già gli era stata di ispirazione al precedente Spider. La storia è quella di una levatrice (impersonata da una magnifica Naomi Watts) che si trova davanti al dramma di un'adolescente di origine russa, la quale ha dato alla luce una bambina, morendo subito dopo per le percosse subite. La giovane ha con sé un diario che diventa il punto di partenza per le indagini che la levatrice compie per dare alla bambina una famiglia.
Dietro questo dramma si celano gli ambienti londinesi dei traffici illegali gestiti dai russi.
Cronenberg è abile nel mostrarci quanto apparenza e realtà spesso non coincidono e costruisce una storia che non manca di mostrare con immagini crude la realtà che si cela sotto i panni della rispettabilità.
Vi è un uso quanto mai ricercato dell'illuminazione con un prevalere del nero e di colori saturi quasi in contrasto con l'indeterminatezza o la duplicità dei caratteri dei personaggi che entrano in scena. L'atmosfera è molto noir e non mancano le scene violente.
La narrazione è sicuramente distaccata anche se il regista mostra interesse verso le vicende narrate e insiste sulla corporeità dei personaggi i (vedi la bellissima scena ambientata nel bagno turco), in particolare su quella di Viggo Mortensen (che impersona qui un infiltrato dei servizi segreti russi che si nasconde sotto le vesti di un sicario).
Il regista insiste sulle superfici dei corpi, sulla pelle con i suoi tatuaggi e i segni i quali sono segno del vissuto, della storia degli uomini e contemporaneamente sono fonte di rispetto e di rispettabilità.
L'animo umano nella sua componente di bene è messo a dura prova dal vissuto, dalla storia, dalle regole sociali (di appartenenza alla mafia) dal potere che dà il denaro; potere di possedere gli altri, di trattarli alla stregua di oggetti, di schiavi, ovvero come puri prolungamenti del corpo di chi detiene il potere, oggetti da utilizzare a proprio piacimento, non concedendo loro alcuna dignità umana.
Il regista non è mai polemico, semmai critico e ci mostra in pieno la postmodernità con le sue ambiguità.
Talvolta la narrazione risulta debole, ma sicuramente la storia narrata è originale e presenta maggiore linearità rispetto ai precedenti film. Da segnalare la presenza di un attore simbolo del cinema tedesco Armin Mueller-Stahl, qui nella parte del patriarca Semyon e quella del regista polacco Jerzy Skolimomowski, al suo rientro sulle scene dopo anni di assenza. Non brillantissima invece la prestazione del francese Vincent Cassel. Un film ormai culto, che segna profondamente il cinema di Cronenberg, dando vigore e linfa nuova alla sua vena creativa.
Francesco Carabelli, storiadeifilm.it



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Ultimamente il cinema si sta preoccupando più di mostrare che di raccontare. Propone immagini, sequenze che determinano la bellezza di un film più del suo intreccio, delle dinamiche tra i personaggi e delle loro psicologie. David Cronenberg non sembra fare eccezione. Pur trattando di mafia russa, giochi di potere, neonati senza famiglia tutto risulta essenziale, ellittico. La storia si appiattisce sempre più sul fondo come una Londra che si riconosce solamente a tratti. La cinepresa si va a posare sul London bridge, ripreso in campo lungo. La città è un mondo lontano così come la possibilità di farne parte. Storie di immigrati, storia di una bambina appena nata che non ha un padre. La madre è morta.
Come per Cuaron sono queste figure sospese tra la colpa e l'innocenza a dare al mondo un nascituro che potrà offrire un futuro alla società che lo accoglie (I figli degli uomini) o servire a creare un piccolo triangolo famigliare che per un attimo interrompe la solitudine dei personaggi. Nikolai e Anna si baciano, in braccio la bambina, in mezzo a tanto sangue: una pausa, breve, che non ha niente a che spartire col mondo circostante. Ma l'intreccio appunto si sposta sullo sfondo ed emerge ciò che conta per questo cinema: l'immagine. Il corpo di Mortensen svetta al centro dello schermo come quello del cattivo tenente di Abel Ferrara, anche lui racchiuso tra il disprezzo della propria vita e qualcosa di più grande: il perdono per lui e quelli come lui. C'è poi solo da spalancare gli occhi per la sequenza della sauna. Cronenebrg caravaggiescamente ha capito che la verità è bellezza. Una bellezza che è orrore, che è sangue, che è scontro bestiale per la sopravvivenza. Non servono più figure deformi, essere antropomorfi che anima(va)no gran parte del suo cinema per mostrare le anomalie umane. Ora basta il realismo dei suoni, della lotta, delle carni che si incontrano in una danza di morte.
Fascino dell'oscurità, della bestialità dell'uomo che qui torna più problematico che in A History of Violence. Se lì la violenza gli era connaturata, qui risulta (quasi) l'unico legame che fa incontrare i personaggi. Sordidi, privi di rispetto, appartengono a tanti clan (non ultimo quello della propria amata squadra di calcio) senza onorare nessun codice se non quello della morte. Nel natale cronenberghiano c'è ben poco per cui essere felici. Le parole del diario di Tatiana collegano le varie figure di questo teatrino spietato. Lì albergano il sogno e la speranza: ma si capisce subito che sono inattuabili. Una musica svenevole ne sottolinea ogni passaggio; ennesima distanza tra il mondo che poteva essere e quello che è. Realtà di un cinema che non fa sconti a nessuno, neanche ai desideri di un bambino.
Marco Deridda, nocturno.it
[Modificato da |Painter| 17/09/2012 19:27]
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