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TEMI - Video e digitale: il primo mutamento dell’immagine

Ultimo Aggiornamento: 15/11/2010 17:09
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15/11/2010 17:09


Video e digitale: teorie su un primo mutamento dell’immagine cinematografica


Video
All’evoluzione tecnica segue un ampio dibattito sulle possibili nuove prospettive: riflessione sul mezzo cinema, ricerca di nuove modalità espressive, rivalutazione del ruolo dell’autore e del tecnico, concezione della nuova immagine. La riflessione sul mezzo è il primo passo naturale, concretizzatosi nelle immagini del film manifesto di David Cronenberg, Videodrome. L’elettronica assume qui le forme violente di uno snuff movie televisivo, definendo così la riflessione attraverso il confronto con un altro media, la televisione appunto, lato fisico dell’immagine elettronica. Tralasciando la centralità del corpo nell’estetica del regista canadese, oltrepassando la struttura rigonfia, sensuale e viva del mezzo, rimane il lato puramente cinematografico definitosi nell’aspetto televisivo dell’immagine. La struttura narrativa, e quindi il racconto del protagonista Max Renn/James Woods, è di continuo scandita dall’immagine televisiva, inizialmente sfera della rappresentazione dell’immaginario tradizionale, inseguito sfera dell’immaginazione perversa.
La prima immagine (conosciamo la sua natura e composizione) si confonde ben presto con i “segnali pirati” di Videodrome, affascinante e misteriosa riproduzione del sogno/incubo, causando un’intossicazione iconica da comunicazione da immagine. Il risultato definisce il cinema come occhio puro dal quale osservare esternamente un possibile pericolo sociale, nello stesso modo (ma questo Cronenberg non poteva ancora immaginarlo) antesignano della futura, per noi attuale, caratterizzazione delle storie cinematografiche: vuote e ripetitive, proprio come il gesto estremo di Max alla fine della sua personale storia.
Dal 1982 al 1989 il salto temporale è breve, la riflessione invece, si arricchisce di contenuti così come di consapevolezza; in un clima di confronto continuo testimonianza fondamentale è quella di Wim Wenders, regista del viaggio, accostatosi al video con riluttanza solo per una migliore gestione del set del documentario testamento di Nicholas Ray, Nick’s Movie – Lampi sull’acqua (1980). L’ampia riflessione giunge per caso tra il 1988-89 durante un lavoro commissionato dal Centre Georges Pompidou: un documentario sullo stilista giapponese Yohji Yamamoto (Appunti di viaggio su moda e città) . L’incontro con il personaggio e i luoghi (una Tokyo elettronica) stimolano la visionarietà critica del regista, che camminando tra le vie della metropoli e seguendo il lavoro dello stilista, inizia a notare nel video la sua riproduzione più reale e intima (peculiarità proprie del documentario). “All’improvviso, in mezzo al caotico traffico di Tokyo, mi sono reso conto che l’immagine reale di quella città poteva essere veramente quella elettronica e non solo le mie sacre immagini su celluloide. Il linguaggio della telecamera era del tutto in sintonia con quello della città. Ero scioccato. Il linguaggio delle immagini non era più una prerogativa unicamente cinematografica. Non bisognava ripensare tutto? Tutti i concetti di identità, di linguaggio, di immagine, del ruolo dell’autore? Forse i nostri futuri autori saranno i registi di spot pubblicitari e di video musicali, o i realizzatori di videogiochi o di programmi per i computer? Merda!” (1).
La composizione a più livelli visivi sembra essere diventata prerogativa di chi utilizza le nuove tecnologie; in questo suo ennesimo viaggio la pellicola rappresenta la base sulla quale definire gli spazi, spesso statici, dove sovrapporre l’elettronica (richiama la forma videoinstallazione), immagine dell’intimità, scorrevole come il tempo sulla mano frenetica dell’autore curioso: “Mi esprimevo in due linguaggi e due sistemi diversi. Dietro alla mia piccola cinepresa 35 mm (Eyemo) mi sembrava di manovrare uno strumento primordiale, o forse “classico”. Si, quella è la parola giusta. Poiché la mia cinepresa montava solo bobine di 30 metri, che ero costretto a cambiare ogni 60 secondi, mi ritrovai sempre più spesso dietro la videocamera, che era sempre pronta a registrare il lavoro di Yohji in tempo reale. Il suo linguaggio non era classico, piuttosto utile ed efficiente. A volte le immagini video erano più precise come se avessero un migliore approccio alle cose, come se ci fosse una certa affinità tra il video e la moda […] A poco a poco, e contro il mio stesso volere, cominciai ad apprezzare il mio lavoro con la videocamera. Con la Eyemo mi sentivo come un intruso, faceva troppa impressione. La videocamera non impressionava e non disturbava nessuno”(2).
L’origine di questa immagine così “intima” è la discriminante per insinuarsi (come il medium di Cronenberg nel corpo dello spettatore) nel mondo dei sogni, considerato campo privilegiato del cinema. L’Apocalisse di Fino alla fine del mondo (in High Definition Television) si concretizza nella corpoerizzazione della tecnologia, intesa non solo come mezzo fisico ma anche e soprattutto come immagine (ancora Cronenberg); il macchinario che cattura l’immagine allo stesso tempo, ricordo, testimonianza, sogno e pensiero, non diventa solo strumento di un “possibile” controllo dell’inconscio umano, diventa soprattutto causa della propria follia. “In questo modo l’immagine, infinitamente replicabile, perde la verginità magica e diventa droga: i protagonisti di Fino alla fine del mondo, una volta provata l’ebbrezza di rivedere le immagini registrate con il nuovo macchinario, ne sono intossicati e ne divengono indipendenti (proprio come Max Renn in Videodrome) fino a perdere ogni contatto con la realtà circostante. Solo un ritorno all’autorità innegabile e antica della parola scritta (il libro) può riportarci alla nostra dimensione più umana”(3).
Il sogno, il pensiero, si concretizza nell’immagine video perché capace di essere modificata e replicata all’infinito, perché rende l’autore e il tecnico un pittore, un video artista, esaltando la presenza del pixel (ricordo da proteggere) attraverso numerose possibilità espressive come la colorizzazione e la solarizzazione, così come la monocromia o il bianco e nero.

Digitale
L’incubo di Wenders, il trovarsi autori futuri provenienti dalla pubblicità o dalla realtà ludica della creazione di videogame, è in parte un fenomeno esistente già negli anni 90 (non dimentichiamo che MTV negli anni 80 “spingeva” gli autori pubblicitari a diventare registi). Il nuovo millennio amplifica questa tendenza, trasformando in prodotto cinematografico il videogioco di maggiore successo; un esempio è Final Fantasy (2001), film d’animazione di fantascienza diretto da Hironobu Sakaguchi (ideatore del videogame) e Moto Sakakibara. Interamente generato in computer grafica mostra attori e sfondi iperrealistici, proponendo una totale sostituzione dello spazio e degli attori: si concretizza una prima possibile tendenza del cinema futuro, la ribellione nei confronti del corpo umano. Se Cronenberg lo trasforma integrandolo ad esempio con i media, la “nuova linea Méliès” lo crea dal nulla, o meglio da un computer ottenendo una giusta mancanza di verosimiglianza. Alla linea del “digitale puro” si contrappone l’uso del corpo fisico come mezzo per una nuova rappresentazione, esempi ne sono gli ultimi film di Richard Linklater Waking Life (2001) e A Scanner Darkly – Un oscuro scrutatore (2006).
Entrambi i film dalla struttura narrativa classica, regalano una nuova immagine del corpo e dello spazio attraverso l’utilizzo della particolare tecnica che prende il nome di Interpolated rotoscoping; partendo dalla tecnica del rotoscoping (4) (applicazione celebre è il video musicale dei Beatles Lucy in the Sky with Diamonds (1968) di George Dunning) aggiunge qualcosa di nuovo. Usata per dare un tocco reale all’animazione, Linklater compie l’operazione inversa, rendendo irreali “immagini vere”. Le aree di interesse sono evidenziate con i contorni tipici del disegno a mano, mentre le zone colorate e più o meno illuminate diventano dei layer indipendenti. A ciò il regista aggiunge un consapevole rifiuto della sfumatura, adottando la tecnica digitale di accostare diversi pattern visivamente netti che degradano cromaticamente. Il risultato finale richiama il cartoon con la variante di contorni e layer fluttuanti nello spazio, anche al di fuori del corpo (effetto definito dall’utilizzo di una camera digitale a mano, la Panasonic AG-DVX100). Alla smaterializzazione e rappresentazione atipica del corpo, si aggiunge l’occhio meccanico, seconda possibile tendenza del cinema futuro. Lo sguardo dell’uomo perde così la propria egemonia per lasciare il passo alla casualità, fenomeno inteso come “la conseguenza dell’uso della cinepresa a mano” (5) proprio come nell’ultimo film di Von Trier, Il grande capo. L’Automavision è quell’innovazione della tecnica che definisce uno “sguardo” casuale permettendo di avere “la libertà di non dovere controllare troppo, circoscrivendo così il lavoro del regista alla limitazione della libertà della macchina”(6).
Parole che valgono il paradosso che esprimono: la perdita dell’autonomia artistica a favore di una evoluzione esasperata del mezzo, anche quando come nel caso di questa commedia, si limita il campo d’azione della macchina a sei parametri: panorama, movimento verticale, movimento laterale, esposizione, potenza della zoomata e inclinazione. In questo contesto dove un’inquadratura su 30 è inutilizzabile, la figura del regista può sparire, l’attore, invece, finisce spesso fuori dal gioco dell’interpretazione a causa di un’inquadratura che si sofferma o sul corpo, o su parte di esso, o sul profilmico. Nonostante Von Trier creda che “il fatto di non sapere esattamente dove guardare per l’inquadratura dia vita al film”(7), questa tecnica potrebbe aprire a panorami inquietanti dove il cinema non esprimerebbe nient’altro che la casualità del racconto, dove l’attore non interpreta ma legge, dove il regista non è carne ma circuiti, ma soprattutto dove la casualità definita da parametri offre immagini prefabbricate.

Note
(1) Wim Wenders in Appunti di viaggio su moda e città
(2) Ivi
(3) Francia di Celle (A cura di), Wim Wenders, editrice Il Castoro, 2007 Torino Film Festival, p.188
(4) tecnica di animazione utilizzata per creare un cartone animato in cui le figure umane risultino realistiche. Il disegnatore ricalca le scene a partire da una pellicola filmata in precedenza. In origine, le immagini filmate in precedenza venivano proiettate su un pannello di vetro traslucido, dove fungevano da supporto per l'attività di disegno. Recentemente questo congegno è stato sostituito dal computer.
(5) Lars Von Trier, intervista in Il grande capo, DVD Extra
(6) Ivi
(7) Ivi
Gabriele Perrone, effettonotteonline.it
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