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Lucidità istintiva tra Spider e Caligari - due analisi

Ultimo Aggiornamento: 15/11/2010 17:07
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Sesso: Maschile
15/11/2010 17:07


La lucidità istintiva: tra Spider e Caligari


Dopo un piccolo fiume di comparse ben disposte, anche Spider scende dal treno in una grigia stazione inglese. Il suo disorientamento eccessivo e doloroso è precipitato nella forma fisica di Ralph Fiennes, che è l'incarnazione istintiva di un personaggio contorto e insieme fin troppo semplice. Da questo momento preciso, cioè dalla prima sequenza del film, la messa in scena di David Cronenberg esige il completo coinvolgimento dello spettatore, che terrà in bilico costante su una linea pericolosamente sottilissima. Per questo melodramma psicologico, Cronenberg fa una scelta narrativa basata sulla freddezza di uno script rigoroso e distante, ma anche sul tentativo di coinvolgere lo spettatore completamente, attraverso i corpi (quello di Fiennes in primis) e un linguaggio delle immagini di cui il regista canadese sembra aver raggiunto una coscienza e un controllo pressoché perfetto. Come in M. Butterfly, la rutilante visionarietà di Cronenberg è piegata al servizio di una storia che vuole una messa in scena molto controllata. Spider non è certo diretto e intenso come M. Butterfly, ma si autoimpone la stessa linearità di regia. Come in Videodrome, il racconto richiede molto più che una linea narrativa comprensibile per essere credibile: ha bisogno della forza di una messa in scena che da sola ipnotizzi e sospenda l'incredulità dello spettatore, altrimenti perso in un gorgo di inspiegabilità senza fondo. Spider non è certo oscuro e impenetrabile come Videodrome, ma sfrutta lo stesso meccanismo affabulante, la stessa difficile sfida di avvincere attraverso i ritmi e i corpi. Siamo nella mente di Spider attraverso il suo corpo, appena entra in scena, appena scende dal treno, per uno strano contrasto abbagliante con gli altri viaggiatori "sani". Una scelta estrema, che rischia ti tagliare fuori lo spettatore senza dargli il tempo di affezionarsi a personaggio e storia. Una scelta che ricorda quella produttivamente ed espressivamente opposta, ma ugualmente rischiosa, di Panic Room, il thriller di David Fincher che traghetta definitivamente nella contemporaneità il pop-corn movie d'autore riducendo all'osso gli elementi di credibilità della narrazione a favore di una messa in scena affilatissima. Tutti due film in cui, da subito, o sei dentro o sei fuori. Spider non fa altro che mantenerci in una scomoda ma affascinate posizione anfibia contemporaneamente all'interno e all'esterno della mente del protagonista, accumulando inesorabilmente ricordi, inventando punti di vista e sogni raggelati e composti con poche pennellate precise: vediamo il mondo attraverso gli occhi di uno squilibrato, e del suo squilibrio siamo subito consci. Ma accettiamo lo squilibrato come narratore plausibile. La macchina da presa di Cronenberg si serve sorprendentemente di deformazioni non fisiche, ma ottiche: l'uso del grandangolo sui primi piani è di una efficacia e di un controllo esemplari, forte di un utilizzo espressivo di una semplicità disarmante, ma che risuona di un valore nuovo. Non siamo infatti dalle parti espressioniste della semplice evocazione di un'atmosfera malata mediante la distorsione dello spazio e dei corpi. Le immagini, come gli occhi di una mosca, ci ravvicinano ai volti per godere del calore della follia dei personaggi, e ci tengono contemporaneamente e sottilmente a distanza ricordandoci di essere racconto, e non realtà. I balbettii di Spider nascondono paradossalmente un punto di vista mentale (l'evocazione dei ricordi dell'uomo) che è apparentemente cristallino nel racconto. Spider partecipa alla rievocazione del suo passato, rappresentandosi nello spazio diegetico contemporaneamente bambino-attore e adulto-osservatore. È uno sforzo brechtiano, un'operazione fatta con una coscienza istintiva, con il rigore e l'intensità di una psicoterapia cognitiva che spinge il paziente a vivere le emozioni e ad analizzarle contemporaneamente con lucidità. In questo senso, siamo difronte ad un esperienza cinematografica e ad una elaborazione linguistica che ha visto molti tentativi (da Wong Kar Wai a Todd Haynes, per citarne solo un paio) ma non ha eguali nella recente storia del cinema. Spider non è (solo) la troppo lineare messa in scena di un percorso di rievocazione, su basi psicoanalitiche, della follia di un uomo. Piuttosto è il salto in un cinema in cui la tensione e l'inquietudine derivano dal contrasto tra una lucidità che è coscienza competa di sé, dei propri mezzi di messa in scena e della storia narrata, e il sentimento istintivo e acuto provocato dalla distorsione sotterranea della realtà filtrata attraverso la tela della malattia, fatta di corde tese e ben in vista nella stanza, per le scale e fino alla cucina. Ma la cui razionale geometria nasconde un tragico ed ingenuo progetto di morte.
Luca Persiani, offscreen.it



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La scena iniziale di Spider è una soggettiva che a poco a poco invade il visibile: i passeggeri del treno scorrono a destra e sinistra dello sguardo, scivolano toccando il presunto misterioso osservatore, ma non si tratta di una soggettiva "concreta" poiché corrisponde solo al punto di vista "oscuro" di una macchina (da presa) e non al protagonista che infine scende da una carrozza del treno con la stessa valigia di un emigrante, baule del quale s'intuisce subito l'estraneità dall'utilizzazione consueta, ricettacolo di reliquie, effetti personali particolari, intimità diffuse, feticci, ninnoli misteriosi, rimasugli non identificabili, una spazzatura dell'anima che vive di scarti, rifiuti significativi. L'uomo, giovane ma profondamente affaticato, si trascina a stento lungo la banchina della stazione, in uno stillicidio che disturba e produce intensa repulsione. Balbetta confuso, farfuglia alcune parole, poi all'improvviso sembra lucido nello spazio che lo circonda, ridestandosi vigile e attento in altri spazi, luoghi e tempi della memoria. Appare quale custode o testimone di un vissuto intimo in cui è alter ego o freudianamente spaccatura incessante tra coscienza e subconscio. La percezione della realtà allora muta attraverso il flusso perturbante delle forze oscure, dell'abisso dell'anima, e produce reazioni variabili che si palesano come le trame di una tela di ragno. Su queste trame probabilmente sta incisa la potenza cogente delle pulsioni libidiche, il conflitto principale che Freud ha cristallizzato come sindrome della triangolazione edipica. Madre, padre e figlio sono elaborati nello spazio mentale e costituiscono infine una gabbia che implode continuamente, nella quale non c'è più certezza di coordinate.
Da questo spunto abbastanza tradizionale Cronenberg rifà una sorta di Gabinetto del Dottor Caligari, tanti punti in comune (come il direttore della casa di cura che si trasforma in responsabile di tutti i mali) con il capolavoro di Wiene. Cronenberg però tenta di dirci tutto e subito fin dal principio, mostra chiaramente un corpo malato, si concentra sulla percezione già alterata del protagonista, i tic naturalmente, le espressioni di terribile sofferenza, drammatica instabilità e incertezza, e la sensibilità ragnesca (chiusa nella sua impenetrabile dimensione arcana), focalizzata su organi come l'olfatto, la vista al buio, i rumori sordi eppure potenti, e poi i movimenti adiacenti rasoterra, lo scivolare su superfici remote (in basso, invisibili) che individuano i piccoli recessi della stanza, li fanno ridestare come appartenenze e opportunità per le capacità abilità di interazione del ragno, spazi microscopici e cosmi impensabili (gli stessi che ci sgomentano quando vi scorgiamo il passaggio di insetti) dove si trovano nascosti i segreti/secreti del corpo, e l'organismo si ammanta di altri corpi estranei, i vestiti plurimi, le camicie una sull'altra, per custodire più efficacemente la carica vitale selvaggia che cerca estenuante di rielaborare qualsiasi luogo per riprodursi.
La storia è quindi la produzione del sogno che intende fornire al sé la prova testimoniata, una situazione indicata come realtà. In Caligari il racconto introduceva a una storia che infine si dimostrava completamente falsa (o solo possibile), e nel racconto i personaggi principali erano gli stessi malati del manicomio. In Spider la malattia ha la stessa potenza di conversione, simula instancabilmente i personaggi principali della "propria" storia. Li fa diventare qualcosa di razionale e soprattutto costruisce elementi contro cui scagliarsi per nascondere il senso di colpa (così concluderebbe un'analisi psichiatrica). In Spider però ci interessa più che altro seguire la componente perturbante di qualsiasi percezione, il suo grado di deriva e di "schifo", di oscena repulsione (tanto nella tradizione cronenberghiana), la sua fatica ad oggettivarsi, la sua (ri)caduta in una soggettività malata, laddove malattia significa sopravvivenza e per il ragnoindividuo costruzione incessante dell'intreccio, della tela, di fili e perle traslucide che possano funzionare come saldi punti di riferimento. Il ragno femmina dopo aver tessuto la tela e deposto le uova lascia la ragnatela per andare a morire, la storia naturale complessiva appare come momento di predestinazione. La storia si ripete come da Caligari a Spider e a noi non resta che accettarla con brutale inquietudine.
Andrea Caramanna, revisioncinema.com

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