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Vita, sessualità, malattia mentale - analisi

Ultimo Aggiornamento: 03/12/2011 12:42
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Sesso: Maschile
23/09/2010 17:26


Vita, sessualità e malattia mentale in Spider

Se si volesse costruire una bella ragnatela psicanalitica da cosa si potrebbe partire? Segni ipnotici su muri scrostati, macchie di Rorschach, simboli evocativi che stanno sotto gli occhi di tutti ogni giorno, ma che solo alcuni colgono nell’ottica autistica della più completa autarchia individuale. Un mondo totalmente avulso da quello che si definisce reale si apre davanti ai nostri occhi e lo fa con i propri tempi dilatati, entro scenari deserti e attraverso parole incomprensibili, dette con un fil di voce o scritte con segni indecifrabili e poi nascoste con cura.
Il cinema della mutazione di Cronenberg non è più una questione di pelle; ora il terrore non si mostra, ma mette in dubbio ogni percezione della realtà, non lascia nessuno scampo, non ci dà nessuna speranza. Cronenberg porta sullo schermo la sceneggiatura che Patrick McGrath ha tratto dal proprio romanzo (del ’90) e penetra in un mondo abitato da pochissimi personaggi, silenzio e pioggia; unico strumento nelle nostre mani è un sottile filo da non smarrire attraverso il quale ci è possibile ripercorrere il passato del protagonista (Ralph Fiennes) e il suo delicato labirinto mentale.
L’autore usa una delle corde che Dennis Clegg detto Spider porta sempre con sé per costruire ragnatele e ci conduce in un viaggio dell’orrore in cui la narrazione viene intrappolata e data in pasto al ragno e noi siamo costretti a mettere costantemente in discussione ciò che vediamo e ciò che sentiamo mortificando il nostro anelito al contesto patinato. In una Londra di metà del Novecento il piccolo Spider è alle prese con la gestione del rapporto con i genitori (Gabriel Byrne e Miranda Richardson) e il trauma forte derivato dall’aver assistito a quella che la teoria psicanalitica definisce “scena primaria”; bambino solitario e taciturno tesse tele di ragno sopra al proprio letto creando un nido mentale ove i pensieri non si schiudono né si confrontano mai con l’esterno, ma si accrescono nutrendosi del buio e dell’immaginazione. Tutto ciò che vediamo è quello che Dennis dopo due decenni ricostruisce degli avvenimenti che hanno portato alla morte della madre aiutato in ciò dal ripercorrere fisicamente le stesse strade, rivedere gli stessi luoghi, reiterare il conflitto con una figura femminile autoritaria e ritessere di nuovo una tela sopra al proprio letto. “La cosa peggiore che può accaderti non è perdere la ragione, ma ritrovarla”: come vedersi riflesso in un vetro rotto e ricostruito, un’immagine spezzata è quella che si trova davanti dopo questo viaggio all’indietro nel tempo e nel profondo della psiche. Esso stesso è un’immagine spezzata letteralmente dalla vita, dagli avvenimenti che l’hanno segnato durante l’infanzia, vittima senza nessuna speranza di riscatto e senza possibilità di comunicare, solo e posto ai margini di un mondo che nemmeno lo sfiora, non lo vede né lo interessa. Piccolo ragno che costruisce il proprio mondo e cerca di tutelarlo, uomo che nel romanzo dice di essere “un tipo cadente e fragile, in realtà – i vestiti hanno sempre l’aria di sbattermi addosso come delle vele, come lenzuoli o sudari” e infatti ne indossa parecchi, strati di camicie come blando tentativo di difendersi dall’esterno, animale che ferisce quando si sente braccato, un debole lottatore che ha contro di sé anche le proprie percezioni e non solo, ma ha anche il destino tragico di rendersene conto a un certo punto. Una vita che è come un canale ripido e scivoloso, dove gli appigli ti si disintegrano in mano e chi ti sta vicino non ti aiuta se non a toccare il fondo il prima possibile. Magari quelle ragnatele fossero state simili a quelle del supereroe di Stan Lee, ma quanto lontani siamo qui dal manicheismo rassicurante che sa sempre ove collocare gli avvenimenti e ha sempre il calore del branco a indicargli la via (e quanto è più seducente non mollare la mano quasi kafkiana di Cronenberg nonostante ti faccia vedere solo mura scrostate e uomini che si sbagliano). Dove sta il raggio di sole? L’insegnamento? Cosa si porta a casa da questa esperienza? Un bilancio, insomma: l’unico possibile è la conferma del talento enorme dell’autore del film che non ama tediarci con lezioncine, ma preferisce vederci stare un po’ abbracciati alla disperazione e per farlo non sceglie la strada dell’io narrante, ma porta avanti un personaggio autistico(-artistico a detta del regista) che tale resta per tutto il film, sceglie di incarnare i differenti stati dell’Io con un’attrice che li interpreta e non lesina sui rischi di un possibile fraintendimento ribadendo con la propria opera che sia la vita che l’arte di rassicurante hanno ben poco.
Sara Trolio, cineboom.it



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La penna di Spider scorre velocemente, guidata in maniera nervosa e al tempo stesso quasi automatica su quel taccuino dove vengono letteralmente vomitati i pensieri aggrovigliati, alla disperata ricerca di una forma, di una consistenza. Una grafia, per quanto si può capire, illeggibile, che chiede sostanzialmente solo di essere riconosciuta dal suo creatore come testimonianza del peso specifico del passato. Quella piccola agenda verrà nascosta sotto l’angolo estremo di un tappeto, un posto segreto e appartato, una sorta di punto di fuga dalla prospettiva del ricordo distorto, verso la risoluzione dei propri dilemmi interiori. E Cronenberg riempie il pur implacabile e compatto mondo di Spider di questi punti di fuga, che si presentano inquadratura dopo inquadratura sotto corpi, voci, suoni, frammenti differenti, ingannevoli, sfumati. Quel seno lascivamente scoperto dalla prostituta al piccolo Spider in una della prime sequenze del ricordo è il primo segnale delle degenerazione e della distrazione verso un qualcosa d’altro dalla centralità del luogo - un pub anonimo - e dell’azione - una coppia piccolo-borghese che ha ben poco da dirsi. Partendo dall’isolamento di quella parte nuda, scoperta, non passibile di manipolazione, è già possibile cominciare il processo di decifrazione dei ricordi, e se l’attenzione di Spider andrà perduta per sempre da quel momento e la pulsione verso il sesso sfocerà nell’allucinazione, David Cronenberg chiede allo spettatore di rimanere con i nervi saldi e la mente lucida, e di leggere ogni immagine come un codice, per trovare quell’accesso alla psiche negato dalla scrittura (la grafia illeggibile) e dalla parola (lo Spider bambino e adulto si esprime farfugliando oppure con monosillabi). I segni di questa partitura cronenberghiana non possono non riguardare il corpo e il suo rapporto con gli altri corpi: l’immagine della madre di Spider riflessa nello specchio mentre si trucca, in particolare il rossetto sulle labbra dove si concentra l’attenzione del piccolo Spider e, di riflesso in riflesso, quella dello Spider adulto; il primo incontro carnale tra il padre e l’amante prostituta sotto il ponte, lungo il fiume, con quell’illuminazione totalmente antinaturalistica e la meccanicità dei gesti e dei comportamenti; la foto di due donne nude che nelle mani dello Spider adulto assumono le sembianze della prostituta usurpatrice della madre. Su tutto campeggia dominatrice, grottesca e avida la maschera di Miranda Richardson - la madre/puttana/guardiana - sul cui corpo immenso eppure così indifferente, come un enorme schermo nello schermo, Cronenberg proietta la lenta discesa nell’inferno della sessualità malata e restituisce alla memoria la giusta dimensione e il volto autentico, usando come proiettore il corpo smunto e ossuto di Ralph Fiennes.
Fabrizio Croce, close-up.it



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L’immagine che fra tutte meglio descrive con dolorosa e bella icasticità ma anche con una sorta di "sincretismo" simbolista la condizione autistica del protagonista è l’inquadratura della facciata di un’abitazione che ha finestre e porte tutte, rigorosamente, murate. È il paradigma visivo dell’isolamento, del ritiro degli investimenti dal mondo e dalle relazioni, della condizione narcisistica estrema in cui è "murato" Dennis "Spider" Cleg.
Tratto dall’omonimo romanzo (1990; trad. it., 2002) di Patrick McGrath, scrittore inglese che si muove sontuosamente tra la letteratura gotica e la black comedy, autore anche della sceneggiatura, e diretto da David Cronenberg, regista iconoclasta, geniale e controverso di The Fly, Crash ed eXistenZ, il film si dipana come la tela di un "ragno" attraverso i fili di una memoria - quella del protagonista affetto da schizofrenia (Ralph Fiennes, Schindler’s List, Il Paziente Inglese, Red Dragon) - che tesse trame deliranti frammiste a scampoli di realtà, alla ricerca della propria "verità" riguardo al passato che lo ha condotto in un manicomio criminale alcuni decenni prima, negli anni ’50.
Il "presente " del film si situa negli anni ’80, quando Dennis, uscito dall’ospedale psichiatrico giudiziario, è affidato a un centro per ex detenuti diretto da un’anziana donna (Lynn Redgrave) che lo abbandona a se stesso, consentendogli così di interrompere l’assunzione dei farmaci e quindi di scivolare nelle sue ricognizioni mnesiche svolte lungo spirali deliranti costellate di fenomeni allucinatori intrusivi, mentre egli nella sua stanza, come da bambino ai tempi dei fatti che lo condussero al manicomio criminale, comincia a costruire la sua "tela" fatta di cordicelle tese da parte a parte, altro efficace equivalente simbolico del ritiro autistico. Un autismo che, senza farmaci, diventa ricco di fenomeni produttivi, quindi, seguendo Minkowski, un autismo "vivace", laddove all’inizio del film ci è presentato un individuo in una condizione "impoverita", diremmo oggi "con prevalenza di sintomi negativi".
Uno dei motivi di merito del film sta nel proporci la condizione alienata del protagonista non da una visuale esterna, ma dal punto di vista del suo vissuto soggettivo, ambendo a rappresentare, attraverso il linguaggio immaginifico della creazione artistica, il complesso e abissale "esser-ci" dello schizofrenico, il suo modo di essere "nel" e "con" il mondo. A chiarire che ciò che vediamo del passato di Spider, e che s’intreccia senza soluzione di continuo con il presente, è ciò che "vede" egli stesso, è il posizionamento del Dennis adulto nelle scene del passato in cui si muovono il Dennis bambino (Bradley Hall), sua madre (una bravissima e camaleontica Miranda Richardson) e suo padre (Gabriel Byrne), come spettatore dal perenne sguardo esterrefatto, perplesso, allucinato, addolorato.
L’immersione nel mondo psicotico del protagonista è consentita al regista e allo sceneggiatore dal necessario riferimento a una chiave di lettura teorica, utile a decifrare l’apparente caos di quello stesso mondo, che ci pare di poter definire senza forzature "psicoanalitica", peccando forse talvolta di eccessiva esemplificazione "iconografica". Pensiamo infatti alle connotazioni sessuali e aggressive dell’ambivalenza manifesta di Dennis nei confronti della madre, alla sua necessità di "dividerla" in una "madre buona", accudente, tutta sua, che lo definisce "genietto", quasi seduttiva, e in una "madre-prostituta", con lo stesso volto ma col trucco pesante, i capelli color platino, volgare e sboccata, la madre che egli scorge in atteggiamento inequivocabilmente erotico nel giardino di casa con suo marito, padre di Spider. Una madre-prostituta che egli, in preda al delirio, immagina aver ucciso, in combutta perversa con suo padre, la madre buona e che egli ucciderà a sua volta, realmente. Solo in quel momento, tragicamente, le due figure torneranno a integrarsi agli occhi del Dennis adulto, in una consapevolezza insostenibile che avrà solo il potere di precipitarlo definitivamente nella psicosi. Questo esito drammatico era del resto annunciato dal trailer del film che, con enigmatico e fosco vaticinio, avvertiva: "La cosa peggiore che può accaderti non è perdere la ragione, ma ritrovarla". Insomma, Freud con l’Edipo e Melanie Klein con la posizione schizoparanoide e forse col matricidio oresteo tramano dietro questa fin troppo "esemplare" parabola psicopatologica che sfiora pericolosamente lo stereotipo.
Il film oscilla fra registri espressivi realistici, quali quelli che ci consentono di vedere nella figura che vagola per le strade borbottando fra sé e sé un’immagine dolorosa e non infrequente che attraversa anche le nostre città, affaccendata, per dirla con Musil, in "un mormorio frettoloso a mezza voce, più intento a sé che a palesarsi", e felici sintesi metaforiche, come il puzzle la cui composizione da parte di Dennis va di pari passo con il suo tentativo di ricostruzione mnesica del proprio passato, o come la città desertica e silenziosa in cui egli si muove, proiezione della condizione di isolamento e solitudine irriducibili in cui è affondato. E ci pare, mutatis mutandis, che quella stessa figura aggirantesi per le strade di un’anonima periferia inglese alla ricerca di frammenti di sé si richiami a quella grandiosa, letteraria, del Raskol’nikov di Delitto e Castigo che si muove col suo cappotto lacero tra sordide cantine e bui sottoscala di San Pietroburgo inseguendo i propri fantasmi.
L’intento dichiarato di Cronenberg e di McGrath era quello di riuscire a rappresentare, grazie anche alla addolorata interpretazione di Ralph Fiennes, una condizione umana quasi irrappresentabile, dall’interno della stessa, dal fondo delle sue oscure fondamenta, dal punto di vista dei suoi insondabili rebus.
Operazione che può dirsi in parte riuscita, anche se Cronenberg, inspiegabilmente proprio alla luce di questo intendimento, rinuncia alla pervasiva visionarietà orrorifica dei suoi precedenti film a favore di una forse eccessiva verosimiglianza "clinica" e "manualistica".
Gaetano Fornaio, psychiatryonline.it



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Psichiatria: da Cronenberg a Polanski, quando il cinema aiuta la cura
Il solitario Spider protagonista dell'omonima pellicola di David Cronenberg, o il visionario Telkovsky interpretato da Roman Polansky nel suo Inquilino del terzo piano (1976). Sono alcune delle pellicole dove emergono casi estremi di psicosi, che Matteo Balestrieri, direttore clinica psichiatrica università di Udine, intervenuto a Roma al convegno Psicoterapia, psicofarmacoterapia, trattamenti integrati, usa nel lavoro quotidiano con i suoi pazienti. Ma che spesso non manca di far vedere anche nelle ore di formazione all'università. "Il cinema non è un trattamento della malattia - afferma lo psichiatra - ma da diversi anni offre ottimi spunti all'interno della terapia. Oltre a Spider o L'inquilino del terzo piano, un altro film che faccio vedere spesso è The Hours (2002), in cui le protagoniste vivono momenti depressivi, pensano al suicidio e investono il tempo in hobby. Questi 'flash' - sottolinea Balestrieri - diventano nella terapia con il paziente spunti sui quali la persona si apre. Dove il soggetto commenta le scelte dei protagonisti e come si sarebbe comportato lui stesso. E così si attiva una discussione".Secondo Balestrieri: "E' importante aiutare con un mezzo assai efficace come il cinema lo sviluppo di pensieri nei pazienti. In molte pellicole - spiega - dove la storia è incentrata su un soggetto psicotico, lo specialista ha la possibilità di far vedere al paziente, grazie ai prodigi tecnologici del mezzo, il mondo 'distorto' visto da chi soffre di questo tipo di patologie"."Così - suggerisce l'esperto - si ha uno strumento molto efficace per coinvolgere chi spesso ha problemi anche nel comunicare la grave difficoltà che sta vivendo. E ci si possono osservare ottimi miglioramenti da parte dei pazienti che si appassionano alle storie e ai volti del grande schermo".
Adnkronos Salute, iltempo.it
[Modificato da |Painter| 03/12/2011 12:42]
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