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Mitologia e filosofia in "Spider" - analisi

Ultimo Aggiornamento: 04/07/2010 14:27
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Sesso: Maschile
04/07/2010 14:27


Mitologia e filosofia in Spider

Figlia di Idmone di Colofone, famosa per la sua eccezionale maestria nel tessere la tela, fino a ottenere una grande celebrità in tutte le città della Lidia, Aracne giunse a sfidare Atena, rifiutandosi di riconoscere la superiorità della dea nell’arte della tessitura. La competizione ingaggiata fra le due si trasformò ben presto in un duello di astuzia e di reciproche provocazioni. Atena, infatti, approntò un tappeto sul quale erano raffigurate, fra l’altro, scene in cui alcuni mortali erano puniti per la loro tracotanza. Per tutta risposta, Aracne tessè un tappeto nel quale comparivano gli adulteri di Zeus. Infuriata per quell’opera, pari alla sua quanto a valore, la dea trasformò la sua rivale in un ragno, condannandola ad esercitare la propria arte appesa ad un filo, e imponendo la medesima sorte anche alla sua discendenza futura.
Secondo il racconto che ritroviamo nell’esordio del sesto libro delle Metamorfosi di Ovidio, l’esistenza e l’attività del ragno è il risultato di un originario castigo, di una sanzione conseguente ad una colpa di superbia. La pena inflitta - tessere la tela traendo da se stesso il materiale necessario, e dunque alimentando con le proprie risorse la propria condanna - colpisce il reo con una forma di contrappasso. Poiché Aracne ha avuto la presunzione di poter prevalere perfino sulla dea, giovandosi esclusivamente della propria arte, e dunque attingendo alle proprie capacità, sarà condannata ad estrarre permanentemente da se stessa il filo coi quale dovrà realizzare le sue opere. Si può insomma affermare che Aracne-il ragno sia stata vittima di se stessa: di quella smisurata stima di sé che la ha condotta a sfidare la divinità, della sua stessa arte di tessere, da lei intesa come incondizionata affermazione della propria individualità.
Ragno - in inglese, Spider - è il soprannome di Dennis Clegg, il protagonista del film di Cronenberg. Lo vediamo entrare in scena nei panni di un uomo che scende da un treno, malfermo sulle gambe, male in arnese negli abiti, con lo sguardo attonito e stranito, diretto ad una tetra casa di accoglienza per malati di mente, sperduta in una squallida periferia dominata dalla mole di due grandi gasometri, dopo molti anni di permanenza presso un ospedale psichiatrico. Giorno dopo giorno, annotando furiosamente su uno sgualcito taccuino segni grafici incomprensibili, Dennis rivive la sua fanciullezza, ritornando alla fonte degli eventi che sono all’origine della sua condizione attuale. La vita in un anonimo sobborgo di un piccolo centro inglese, sotto un cielo perennemente plumbeo, in un contesto urbano cupo e degradato. Una madre costantemente alle prese con le angustie di una routine domestica segnata dalla scarsità di risorse e dalla tristezza; un padre idraulico e coltivatore di un piccolo orto, assiduo frequentatore dell’unico possibile luogo di svago della zona, un pub regolarmente visitato anche da alcune donne vocianti e lascive, delle quali si intuisce la disponibilità al mercimonio sessuale. Una sera, inviato dalla madre a richiamare a casa il padre per la cena, Dennis si vede provocato da una delle clienti del pub, la quale lo schernisce mostrandogli platealmente un seno. Qualche giorno dopo, a seguito di un primo fortuito contatto, il genitore del piccolo si apparta con la più vistosa e intraprendente delle tre donne, consumando un fugace amplesso. Nella tormentata ricostruzione rivissuta nel ricordo dal protagonista, lo sviluppo successivo degli avvenimenti oscilla fra due livelli di” realtà”, di fronte ai quali lo spettatore si trova in difficoltà nell’operare una scelta. Ciò che si “vede” sullo schermo è la storia così come è stata vissuta-immaginata dal piccolo Spider: sorpreso dalla moglie mentre fa sesso con la donna del pub, il padre la uccide con furia selvaggia, nascondendone il cadavere nell’orto. Il posto della madre - il suo ruolo e perfino i suoi abiti - viene preso dalla prostituta, complice anch’essa del delitto, fino a che il piccolo organizza una vendetta che ha tutto il sapore di una nemesi. Con un complicato e ingegnoso reticolo di fili, restandosene nella sua camera, egli riesce ad aprire il gas, provocando la morte della donna.
Nelle pieghe di questo racconto, compare tuttavia un’altra storia, una ben diversa verità. Con la sua ragnatela, il piccolo Spider ha provocato la morte non dell’amante, ma della madre. Quanto egli credeva fosse accaduto - l’adulterio, l’omicidio, la sostituzione nella cucina e nell’alcova della casa - era solo frutto della propria immaginazione, di una vera e propria scissione psicopatologica, risultato di un processo nel quale il piccolo ragno aveva tratto esclusivamente da se stesso la “realtà” che pensava essere invece fuori di sé. L’epilogo del film, col ritorno di Dennis nell’ospedale psichiatrico, dopo un suo fallito tentativo di uccidere colei che gestiva la casa di accoglienza, da lui ancora una volta identificata con la prostituta del pub, ribadisce la marca letteralmente disperata dell’intera vicenda.
Muovendo da un “caso clinico” di per sé “classico” nella tipologia e nelle modalità di manifestazioni, quest’opera di Cronenberg, ammirevole per il rigore della narrazione, l’asciuttezza dello stile, l’autentica maestria nella costruzione del racconto, la puntualità nella recitazione di tutti gli interpreti, la dolente eppure sobria compostezza nel clima generale evocato, riporta l’attenzione su uno fra gli aspetti più significativi della condizione umana, vale a dire il fatto che molto spesso siamo noi stessi la fonte delle nostre afflizioni. Proprio come il ragno di cui dice il suo nome, Spider costruisce mondi possibili, traendoli dalla propria mente, e restando alla fine imprigionato nella tela che egli stesso ha intessuto. Conformemente al destino imposto ad Aracne, capostipite di quella “specie” di individui che autoalimentano i propri affanni, Dennis trasforma una di queste possibilità - quella che egli ha vissuto con maggiore forza evocativa - in una realtà, della quale alla fine egli diventa vittima.
Ma ciò che più specificamente caratterizza quest’opera di Cronenberg è la capacità di non fermarsi alla descrizione di un isolato esempio di politologia psichiatrica, ma di trasformare invece il caso singolo nella rappresentazione di qualcosa che riguarda tutti, “sani” e “malati”, in quanto attiene ad aspetti costitutivi ed ineliminabili della condizione umana in quanto tale. Ciò che appare in forma estremizzata nel piccolo Spider, è presente anche, con modalità meno vistose, in ciascuno di noi: la tendenza a vivere in un proprio mondo, diverso e separato rispetto a quello dei nostri simili, l’alimentare con la nostra immaginazione - i nostri sogni, ma anche i nostri incubi - la nostra vita, l’inclinazione a vivere una realtà che si rifornisce prevalentemente della nostra elaborazione, piuttosto che di un autentico rapporto con gli altri. Insomma, la sorte toccata ad Aracne, e la maledizione che accompagna la sua generazione, incombe su ciascuno di noi. Per evitare di finire impigliati nella ragnatela di pensieri e immagini da noi stessi costruita, dovremmo riuscire ad aprirci all’“altro”, riconoscendone l’irriducibile alterità, e insieme accettandone il ruolo insostituibile per la costituzione della nostra identità. Se non sapremo vincere la superbia, che risultò fatale ad Aracne, e moderare almeno la protervia nella sfida rivolta alla divinità, ciascuno di noi, come Spider, può ritrovarsi prigioniero nella tela che ha costruito, finendo per essere vittima di se stesso.
tratto da: Umberto Curi, Un filosofo al cinema (Bompiani)

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