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Il mancato adattamento al reale - analisi

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 21:02
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Post: 529
Sesso: Maschile
10/06/2010 21:02


Il mancato adattamento al reale

Metamorfosi mostruose, oniriche e ritorno agli istinti primordiali fra Kafka e Beckett: Spider ricorre alla metafora del ragno associato alla follia - già presente nella macchina da scrivere mangiadita e succhiacoscienze de Il Pasto Nudo - ed indaga con scientificità da entomologo l’alterazione e la dissolvenza della percezione e della ragione.
Cronenberg e McGrath, con una messa in scena rigorosa ed essenziale, penetrano dentro le oscillazioni della follia e i falsi altri mondi paralleli costruiti dalla mente: come in Videodrome i ricordi restano solo ombre di riflessi evanescenti dai contorni inquietanti. Partendo dalla patologia classica del complesso di Edipo e dalla dilatazione delle forme, il film è una lunga analisi sulla fragilità di una personalità alla deriva e resta incollata alla tela del ragno, del rimorso, dell’abbandono e della gelosia - come ne La Mosca: è un dramma psicologico raccontato come un viaggio dentro i lati oscuri della psiche e la personale alterazione e ricostruzione della realtà.
Se in Crash Cronenberg profetizzava la rimodellazione dei corpi associati alla perfezione geometrica delle automobili e in eXistenZ bioporte di nuovi surrogati sintetici in videogame aggressivi senza game over, in Spider racconta la non compatibilità con il reale e il processo di mancato adattamento sulle istituzioni del sesso in cui l’universo interiore resta l’ultimo stadio amniotico di salvezza.
Come in Brood c’è una visione misogina della figura femminile genitrice e nastratrice: è un cinema che trasforma l’horror in angosciante vertigine da sonnambulismo, una totale decostruzione dell’ordine in cui la dimensione della psiche resta labirintica, racchiusa come in una sala di specchi in cui la schizofrenia si annulla nel lirismo e nel desiderio di morte, unica possibile illusione di salvezza.
Domenico Barone, cinema.data.net



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Da Spider arriva una conferma. Più che il regista dell'incubo biomeccanico, delle metamorfosi biologiche, dell'ambiguità (comportamentale) e dell'ambivalenza (sessuale), David Cronenberg è forse l'autore contemporaneo che sa rappresentare meglio l'interiorità umana, sia come espressione patologica del corpo mutante che come proiezione mentale dei peggiori deliri. Se, come scriveva Deleuze (filosofo caro a Cronenberg), il corpo non è più l'ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ma è ciò in cui il pensiero sprofonda per raggiungere le manifestazioni più impensate della vita, allora in Spider viene messo in scena il procedimento esattamente contrario: si parte dalla vita più misera e messa ai margini (il protagonista vive quasi ad uno stato primario, non sembra avere vie di uscita) per risalire poi i labirinti del pensiero umano.
Come sempre, Cronenberg riesce a rappresentare qualsiasi cosa, dalla più banale alla più sofisticata, come fosse un organismo vivente: in Spider c'è qualcosa di più, perché a vivere e prendere forma sotto i nostri occhi è l'ossessione del protagonista a reinventare un passato che dovrebbe invece mantenere lontano. Appena dimesso da un manicomio, il protagonista (Ralph Fiennes) ritorna nei luoghi dove ha vissuto la sua infanzia, tutta trattenuta tra il ricordo della madre, morta troppo presto, e l'odio per la donna venuta troppo presto a sostituirla nel letto del padre. Come da manuale clinico, la madre è una presenza binaria (i due ruoli sono interpretati dalla stessa attrice, Miranda Richardson) e per il figlio è, di volta in volta, una figura solare e protettiva, e una volgare puttana capace di risvegliare i desideri più irresistibili.
Le allucinazioni del personaggio, prima bambino, poi adulto, creano una rete di immagini e atmosfere vagamente ipnotiche, che si inseguono e sovrappongono, una tela di ragno delle false sembianze, in cui la verità si confonde alla menzogna, e l'amore si traduce nell'omicidio. C'è sempre lucidità e pessimismo nella follia raccontata da Cronenberg. Nei suoi film gli uomini ricadono sempre in ciò che vogliono evitare, e le linee di fuga si trasformano, ogni volta, in derive di morte e autodistruzione.
Spider è raggelante e livido come un referto clinico, e con il suo ritmo dilatato respinge lo spettatore e insieme lo attrae. Spider non rappresenta una patologia, racconta una parabola, addirittura una condizione esistenziale. Ma questa capacità è la dote più alta di Cronenberg, quando è in stato di grazia.
Piero Spila, sncci.it



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Spider, spider, spider. La quiete dolorosa del dormiveglia è offuscata dal grigiore irrequieto di farfugliamenti indefiniti, la parola proprio non vuole uscire, è ostacolata, occlusa, imprigionata. Piccolo spider, piccolo mostro di notti insonni, scarto indefinito di una visione contorta delle cose, ignorante del passato, del presente, capace di racchiudere nelle sue maglie ossessive soltanto l’ombra del futuro. Non esiste un cinema che sappia contenere la mostruosa ambivalenza del ragno cronenberghiano, la gemmazione perversa della mosca che si trasforma in ragno che si trasforma in incubo. Il set in una stanza, l’esterno non esiste soltanto perché Spider non ha mai avuto esterno, ma sempre e soltanto interno. Nasce da questo disperato e irrisolto dualismo la sagoma annebbiata del Cronenbergh 2002, quello che molti fanno fatica a racchiudere in briciole di senso immancabilmente asincrone rispetto al tono dei film passati, quello che si affida alla scrittura poderosa di McGrath per riscriverne i parametri compositivi stessi. Il cinema di Cronenberg riscrive la scrittura di McGrath (magari affidandosi alla macchina da scrivere mutante di Naked Lunch), la assorbe all’interno del proprio delirio ossessivo, ne accarezza i tratti spigolosi, la trasforma insomma in oggetto pulsionale, pulsante, vivo, carnale. Non esiste uno Spider, ma soltanto le mille tele di uno sguardo duplicato, pronto ad attraversare stanze, saloni, cucine, capace di percorrere il set come percezione dilatata e ipnotica della longitudine astrale del desiderio. Non c’è eXistenZ, ricapitolazione alfabetica del senso ludico del rimettersi in gioco, ma soltanto fuoriuscita di materia già lavorata, già espulsa, già visionata. Non si tratta più di assistere ad una mutazione, come scrive nel suo pezzo da Cannes Simone Emiliani, ma di arrivare a gestirla, cercando di filmarne il ricordo sulla lastra ghiacciata della memoria, atrofizzata in tranche incantata in cui il giovane spider assiste al doppio di se mentre a sua volta osserva il suo passato. Si muove da fermo questo cinema, rinuncia sin dai primi sguardi fuori macchina al declino della costante luminosa del set esterno, si trincera a lato, forse davanti alla macchina da presa per filmarsi mentre si oblia, quando è già dimentica di sé, capace di lasciare nello spazio chiuso della scena soltanto dei rimasugli impazziti di un pasto già consumato.
Dead Ringers quindi, il cinema e il suo doppio, la rivisitazione non di una, ma di mille scene primarie che si affastellano nel disordine cronologico di una memoria sballata, quando il padre era ancora padre, mentre la madre già si trasformava nel suo opposto. Non c’è più carne, non c’è più metamorfosi allora, ma soltanto ricordo del cinema di corpi inquieti, di turbinii accelerati di una materia in perdita, fagocitata dai tratti funerei di una liquidità formale che già dalla vecchia vasca da bagno (Il demone sotto la pelle) faceva presagire l’avvento della nuova carne. E’ incredibile vedere come Cronenberg si avvicini al punto di non ritorno del suo cinema proprio quando sembra rinunciare al suo cinema, proprio quando filma l’apparente stasi di una schizofrenia dialettica che non parla il presente, ma rimastica il passato, come fosse l’unica via d’accesso possibile per attuare il transfert del gioco con se stesso. Quando i genitori del piccolo protagonista dormono nella loro stanza da letto, il piccolo Spider riconosce nella donna nel letto una donna che non è sua madre. La guarda, la riguarda, la odia. Il cinema gioca con i simulacri di corpi fintamente presenti, Cronenberg avvolge la classicità dirompente della visione in frammenti sparsi di membra che custodiscono gelosamente il segreto del cinema perduto. Lynch con la Hollywood fantasma di Mulholland Drive, così come Cronenberg con la voluttà spiazzante del corpo del passato, ridotto ad un gemito soffocato di vita, in procinto di dirsi qualcos’altro, in un altro momento, in un’altra visione. Il padre è l’uomo che si ubriaca nei bar, la madre la donna fedele che attende il suo rientro in casa, o forse non è così e le cose stanno diversamente. Ma non importa. Resta l’indefinibilità del presente, l’odore di muffa di una stanza chiusa per sempre, i quattro livelli di maglie che il corpo di Spider indossa. Strati su strati di materia lavorata, fino ad arrivare alla nudità del corpo/mente che ricrea il cinema, partendo dalle fondamenta. Che non sono quelle di una carne in mutazione, ma di una mutazione avvenuta nella storia dello sguardo martoriato di oggi. Una casa, dei genitori, una camera da letto avvolta da tele che si raggrovigliano su se stesse. E l’ombra di un corpo che guarda. Non visto.
Francesco Ruggeri, sentieriselvaggi.it
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