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L'immagine è materia - due analisi

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 20:54
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Post: 529
Sesso: Maschile
10/06/2010 20:54


L'immagine è materia

David Cronenberg, da sempre, è l'autore per il quale l'immagine è materia, oggetto carnale da plasmare, seviziare, corrompere, decomporre e lasciar sedimentare nei più riposti angoli della psiche dell'individuo che, in contesti differenti e situazioni che ovviamente mutano di livello, nella maggior parte dei casi riveste anche il ruolo di spettatore. La sua assimilazione del quadro cinematografico alla carne ha un qualcosa di magicamente morboso, di viziosamente deviato, di coartatamente esibito nell'intenzione supremamente allegorica di rendere l'essenza sintetica e virtuale dell'immagine una sostanza organica di natura simile ad un sistema pulsante, costantemente vivo ed operante in qualunque momento, anche nelle occasioni più indolenti e dominate dalla pura geometria dei corpi. In Cronenberg acquista importanza il particolare stomachevole e disturbante, il dettaglio che provoca ed induce alla reazione spettatoriale. Perché al regista canadese interessa penetrare dentro l'involucro umano, inteso sempre come appendice, come una protesi che dia vita ad un prolungamento fatto di inorganico (il metallo di Crash, la macchina che trasforma l'umanità in insetti ne La Mosca), di sogni e visioni (l'uomo catapultato nella realtà televisiva in Videodrome, la soggettività veggente come residuo della malattia fisica ne La Zona Morta, il delirio allucinato ed assassino stretto a doppia mandata al furore letterario de Il Pasto Nudo), in modo che sia possibile una connessione tra la palpabilità della materia e la libera ascendenza della mente, ultimo confine di estrema ed illusoria libertà pronto a ribaltarsi su se stesso sempre con modalità funeste e dolorose. Anche eXistenZ non si sottrae alla concezione visionaria di Cronenberg e alla sua volontà di mostrare il purulento organico come immagine che precede ed anticipa l'implicazione mentale con tutte le sue conseguenze sul piano allucinatorio e falsamente cognitivo. Anche eXistenZ utilizza la carne, il sangue e le viscere contiguamente alla sensualità, immagine più perversa perché ardentemente materiale e fisica, non sentimentale e poetica, ma esclusivamente biologica (si pensi alla dichiarata allegoria del coito presente nell'inserimento del jack nel foro praticato sulla schiena). Ma eXistenZ utilizza il corredo materico presente nell'immaginario del regista per sviluppare una profonda riflessione sull'incidenza della virtualità all'interno dei confini di una supposta realtà. Un film caratterizzato da una costruzione fatta a scatole cinesi, dove ogni episodio narrativo, ogni singola sequenza è inclusa in un altra che la contiene e che contribuisce, a sua volta, a creare uno stato di confusione sull'effettiva dimensione del reale e della verità effettuale. In una struttura che mescola volutamente ed abilmente autenticità e finzione virtuale, realtà e sua immagine mentale, sicurezza ed insicurezza, fino a far perdere le tracce dell'ipotetico discrimine tra i due differenti livelli di consapevolezza, niente può aiutare lo spettatore in una definizione certa di ciò che è reale e di quello che invece è fantasia ludica, prodotta dal videogioco. Anche i loop e i bug in cui grottescamente incorrono i personaggi creati appositamente per il gioco, non sono segnali per lo spettatore, ma soltanto indici che permettono di situare la vicenda e di caratterizzarla, arredandola secondo una coerenza particolare, propria del gioco virtuale e della realtà che da esso si origina. Quello che pare rimanere allo spettatore per orientarsi all'interno di un vero e proprio dedalo cognitivo è semplicemente la disposizione dei personaggi nei confini scenografici dello spazio, unica possibilità per cercare di riconnettere logicamente i fili di una narrazione che salta con grande virtuosismo da una situazione all'altra senza alcuna soluzione di continuità. Il movimento quasi meccanico delle figure all'interno di una scenografia colorata, densa di oggetti posti ad arricchirla da un punto di vista ambientale, le azioni motivate esclusivamente da un input verbale o comportamentale indotto dal volere dei protagonisti, si scontra sul piano rappresentativo con la chiara geometrizzazione degli spazi organizzata da Cronenberg nelle scene che rappresentano (o meglio, che dovrebbero rappresentare) la realtà effettiva in cui il videogame viene presentato e discusso (si pensi all'ordine quadrangolare degli astanti seduti in platea ad osservare, oppure al perfetto semicerchio formato dal nucleo di giocatori che sta sperimentando il simulatore di realtà). Ma nemmeno questo contrasto relativo alla disposizione ambientale e scenografica conferisce rilievo alla possibilità dello spettatore di districarsi all'interno della matassa equivoca creata da eXistenZ: l'ultima frase del film, la perfidamente ambigua ingiunzione di non sparare, unita al dubbio sollevato sulla possibilità di trovarsi ancora all'interno del gioco, pone seriamente in crisi la possibilità di arrivare ad una determinazione sicura dello statuto delle immagini e della narrazione che le ha ordinate lungo tutto il suo corso. Realtà o virtualità? Violenza concreta o immaginata? Situazioni effettivamente esperite o puro flusso psichico? eXistenZ non offre risposte perché il senso dell'operazione di Cronenberg risiede tutto nell'incertezza che genera inquietudine. Al contempo il film fornisce anche una lettura in chiave metaforica e metanarrativa: la virtualità che viene mostrata non è forse, oltre all'apocalittica immagine di un'era già presente in cui la forza dell'immaginario sarà così potente da indurre ad abbandonarcisi senza la possibilità di discernerne con certezza i limiti, lo specchio fedele della produzione cinematografica stessa, impegnata nel fornire una realtà-altra in cui ogni individuo ricopre un ruolo dotato di caratterizzazione, volontà e psicologia propria, differente dal tipo umano che lo impersona. L'uomo diventa il suo ruolo, il personaggio si fa attante perché interagisce all'interno di una struttura narrativa ben delineata che nasce e viene stimolata dalla sceneggiatura, input cartaceo che crea, ordina e dispone ogni situazione all'interno della realizzazione di una pellicola. Il cinema come gioco, l'immagine come materia modellabile che contribuisce a plasmare le singole parti di cui è costituita, l'ambiguità come momento in cui lo spettatore deve necessariamente abbandonare le sue certezze per affidarsi ad un demiurgo realizzatore che inventa la virtualità. È forse un caso che gioco e film si intitolino nello stesso modo? Un circolo vizioso da cui è impossibile uscire se non a costo di spezzare l'incanto del gioco e della fruizione cinematografica. Che è come un jack infilato nella schiena a contatto con i centri nervosi.
Giampiero Frasca, cinemah.com



***

Alla fine di traScendenZ possiamo reagire con un atto di emancipazione dallo stato di sudditanza dall'immaginario del sommo canadese, che ci manteneva succubi delle sue macchine a risoluzione tecnologica vicina allo zero, oppure rimane invischiati dal suo preciso mondo popolato di concrezioni organiche; entrambi i rigurgiti sono plausibili allo stesso modo: sia che Allegra Geller ci abbia convinti della giustezza della lotta contro le multinazionali spacciatrici di virtualità, sia che la stessa creatrice-demiurga ci abbia ammaliati e resi complici della sua infinita serie di rimandi ad un universo altro con la promessa che è assolutamente falso nella sua verosimiglianza, al punto che alla fine chiediamo anche noi: "Ditemi la verità: siamo ancora nel gioco?". Il rifiuto liberatorio del repertorio degli incubi di Cronenberg, ribaditi manieristicamente nei mutanti a due teste, idre organiche che si trasformeranno in micidiali e ridicole armi una volta masticati in un banchetto totemico a cui non si può resistere a causa di leggi sottese al programma, o viceversa la conferma in una fede che vede il guru canadese come officiante dell'autoironico gioco metaforico, nel quale è evidente l'allusione ai meccanismi cinematografici: sono entrambi legittimati da un testo più articolato del solito, ma debitore dalle opere precedenti per oggetti (i "gusci" per connettersi), situazioni (la penetrazione dei corpi da parte di orpelli elettronici con forme organiche tanto ancestrali da essere cordoni ombelicali), ambienti di immancabili officine - simili a La Mosca - si raffinano in un mondo unto, pieno di infezioni, sottomesso alle immaginazioni di chi partecipa al gioco ("Il giocatore è il dio-creatore" dice Gas-DaFoe, che aggiunge mefistofelico: "God, the mechanic").
Come in Naked Lunch bucetti anali sono vellicati con tattilità paradossali nella virtualità, essi fungono da orifizi (bio-porte nella versione cyberpunk del mondo tardo -burroughsiano) e consentono il passaggio da uno stato organico ad uno cyborg: non è difficile immaginare che si tratti di una trasposizione di un romanzo di Gibson, ma in più si coglie una freddezza di sguardo che ammanta i personaggi con un'assenza, funzionale al loro stato di personaggi non sempre appartenenti ad uno stesso universo di riferimenti chiari, anzi ci troviamo ad inseguirli dovendo costantemente effettuare il medesimo sforzo che compiono loro per adeguarsi alla nuova situazione imposta dal gioco che impone il passaggio attraverso certe azioni e scambi verbali imprescindibili, in caso contrario il rischio è quello di mandare in loop il personaggio che ha la chiave per proseguire. Il risultato è quello di una cura maniacale al punto di rappresentare precisamente il loop del programma pure attraverso le posizioni dei personaggi che continuano ad assumere pose precedenti, innaturali, ma plastiche a sufficienza per offrire la tipica ricostruzione della videata di partenza di una "sequenza". Infatti si ribadisce la derivazione cinematografica di questa confusione di realtà diverse ognuna con lo stesso grado di verosimiglianza (zero o infinito è uguale); delizioso risulta così il meccanismo (metafora del cinema) per passare da una matrioska all'altra: sembra di non cogliere il passaggio, mentre invece è evidente, perché agisce sulla nostra capacità di cogliere le discrasie tra realtà e finzione, che alla fine si svela non essere un meccanismo di scatole cinesi, ma una serie di mondi in comunicazione labirintica tra loro, ma non compresi l'uno nell'altro, bensì totalmente autonomi e sempre da negoziare: il gioco pare essere capire quale è il gioco stesso e chi lo conduce e alla fine i partecipanti della messa in gioco iniziale saranno diversi da quelli del risultato finale, perché i due universi ludici non sono lo stesso, nonostante la situazione di cerchio in rete locale (quasi da seduta spiritica) appaia il medesimo.
Momenti di spiegazioni tecniche delle emotività ("É un patetico tentativo di innalzare la temperatura della prossima sequenza", di fronte alla pulsione sessuale che si scatena a partire dalle esigenze del gioco, apparentemente) o di soluzioni abborracciate di certe situazioni frammentate proprio per accentuare la parentela con i giochini: un compendio del cronenberghismo a cui si aggiunge il tocco lynchiano dello smarrimento del piano della realtà, solo che qui si riesce a seguire ancora una rete di collegamenti e, a patto di non voler definire quale sia il vero universo del reale (o meglio a patto di non dare come assunto che ce ne sia uno), ci si orienta ancora, almeno fino alla fine, quando ognuno potrà dare l'interpretazione che più lo convince all'epilogo del film (e solo del film, perché nella catena infinita di rimandi orchestrati cinematograficamente si potrebbe montare tutto diversamente o proseguire in modo differente, come in un ipertesto). Belli gli orpelli organici burroughsiani, di cui si mantiene il cinismo che fa commentare un omicidio: "Era solo un personaggio e stava portando confusione", e ottima la capacità di trascorrere da una "sequenza" all'altra evidenziando il modo di operare del cinema e la sottolineatura ci coinvolge perché anche per noi non ci sono traumi reali nel passaggio da una sequenza all'altra, perché assumiamo la convenzione cinematografica nel momento che ci predisponiamo a vedere il film, quindi volta per volta assumiamo le informazioni che sapientemente il regista ci fornisce per decrittare la nuova situazione. Si può infatti trascorrere da una "sequenza" del gioco all'altra usando dissolvenze stacchi... Una di queste, geniale per la costruzione, vede l'inopinato ritorno alla situazione del ristorante cinese partendo dal momento di 'pausa', e dunque da una realtà per noi ancora connotata come quella più vicina alla realtà diegetica: il passaggio si compone di una dissolvenza incrociata sulla banda sonora che inserisce il rumore un secondo prima dell'attacco sul movimento della porta della cucina che si apre lasciando entrare il piatto vomitevole che con un geniale colpo di scena trasforma il cibo in pistole di cartilagini e ossa. Tutto l'armamentario cinematografico è spiattellato come finzione, però rispetto a Ferrara e Lynch i paradigmi del reale saltano molto meno e questo rende ancora più inquietante il mondo tenebroso che può essere messo in pause per tornare ad una situazione che parrebbe essere quella di partenza, ma una volta lasciata una dimensione si torna soltanto in dimensioni simili, che ingannano ancora di più, ma sono ancora razionalmente recuperabili, mentre in Lost Highway lo sforzo per accettare gli eventi supera i confini della ragione e dei sensi; qui si perde soltanto il contatto con la realtà, che sembra avere solo emersioni in isole private di senso, ma che assumono un ruolo centrale per la loro ricorsività: ad esempio la frase "Il cane mi ha riportato l'arma" riferita a due cani diversi da due padroni differenti conferisce alla sequenza volutamente sottolineata del cane che raccoglie la pistola di ossi un crisma di verità superiore agli oggetti palesemente sintetici esposti nelle officine, frutto dei ricordi stratificati nel profondo dell'animo infantile dei giocatori.
L'adesione al plot è corticale, mentre la descrizione dei personaggi è pirandelliana, con la autocritica finale durante la quale si descrivono i ruoli spostando ancora una volta il fulcro su un nuovo creatore, su un diverso registro, non si capisce se alla ricerca dell'Ur o se semplicemente si debba sempre inventare un nuovo espediente per avviare una situazione da agire, ovvero una nuova opportunità di tradire una realtà apparentemente assodata o di introdurre un virus in un momento di statico equilibrio di un sistema (il disease di cui in realtà si compone eXistenZ, che è il gioco scatenato da traScendenZ).
Adriano Boano, cinemah.com
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