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La ricerca artistica ed estetica: un'analisi fondamentale

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 18:28
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Sesso: Maschile
07/11/2009 18:57


La ricerca artistica ed estetica: un'analisi fondamentale

Il cinema di David Cronenberg non si è mai preoccupato di cercare un risarcimento formale del malessere che pervade l’esistenza dei suoi personaggi e ne determina l’irriducibilità a una configurazione individuale e a un sistema di relazioni, sociali e affettive, normali. In altre parole, non si può certo dire che a Cronenberg interessi un’idea di cinema (di arte) che assolva la funzione di sostituto della perfezione in una società largamente e ferocemente imperfetta. Questo è un fatto. Da sempre, Cronenberg appartiene alla schiera di coloro che in quel malessere trovano materia per la loro ispirazione; sua fondamentale premura è quella di spingere la propria fantasia a esplorare e sollecitare senza imbarazzi le immagini più scandalose che ne provengono, in un andirivieni continuo attraverso il confine fluttuante tra ciò che già si può (sopportare di) vedere e ciò che, al suo apparire, è ancora capace di provocare angoscia eccessiva e dunque rifiuto. In questo modo è riuscito finora (e non è poco, se ci pensate) a sottrarsi a quella dialettica che nel corso del Novecento ha di volta in volta azzerato, presso il pubblico e la critica, il tasso di trasgressione delle avanguardie artistiche, trasformandone i prodotti da fattori perturbanti a elementi d’arredamento del paesaggio e della coscienza contemporanei. Spero che il paragone non sembri azzardato a nessuno. Che di Cronenberg si possa parlare en artiste, intendo. È uno dei pochi cineasti, fra quanti lavorano per il circuito commerciale, a cui sia possibile attualmente riservare un approccio di questo tipo. Noi parliamo di arte tutte le volte che un’opera è così perfetta che ci porta a dimenticare il suo significato primario per pura ammirazione verso la maestria che ci manifesta: così, all’incirca, dice Gombrich nel capitolo “Una storia senza fine” della sua Storia dell’arte, là dove affronta la questione della ricerca artistica contemporanea. A partire almeno da Videodrome, i film di Cronenberg appartengono incontestabilmente a questa categoria: sempre più sfuggenti a collocazioni di genere, sempre più dediti a dare direttamente forma alle idee che li generano e li sostengono, fino al punto in cui è proprio la forma a prendere il comando delle operazioni, con un ribaltamento ironico di prospettiva che costringe chi li guarda a fare i conti con una mancanza improvvisa di quegli appigli interpretativi tradizionali, sui quali, fino a un attimo prima, faceva ancora affidamento. È chiaro che, quando Gombrich pone la condizione di “dimenticare il significato primario”, non invita certo a giustificarne una eventuale mancanza. Siamo nell’ambito del come se, ovviamente, ma non dobbiamo credere che questo semplifichi la situazione. Comunque, nella sua intervista ai Cahiers (n. 504, 1996) dedicata a Crash, Cronenberg dà qualche indicazione sommaria a proposito del suo modo di vedere quel legame tra padronanza e caos che sta all’origine del fare artistico: bisogna stabilire un equilibrio tra controllo e caos, dice, attraverso una sottile dislocazione degli angoli di ripresa, la fluidità dei movimenti di macchina ecc. Come dire che il senso, casomai, va ricercato innanzitutto a partire dalla riformulazione dei dettagli formali del discorso e non – appunto – dei “significati primari”. Quelli, del resto, sono ormai sedimentati nel suo cinema fino dagli inizi e, sostanzialmente, non sono mai cambiati; se nei primi film poteva esserci ancora l’intenzione di épater le bourgeois, proponendogli degli oggetti visivi in sé shoccanti, questa ha ormai da tempo lasciato lo spazio a una riflessione sulle forme della proposta, seguendo la quale il cineasta canadese non si cura ormai tanto di depistare il pubblico confezionandogli anche pretesti narrativi come specchietti per allodole, ma è approdato al discorso che più gli premeva. Cronenberg non è mai stato un narratore, il suo vero obiettivo è quello di distillare dal corpo del racconto gli elementi che, in ultima analisi, ne contrastano la fluidità, per portarne alla luce le potenzialità profonde: per una critica dell’abitudine percettiva, ma anche della separazione convenzionale narratore/personaggio/spettatore e, di conseguenza, della nozione comune di verosimile. Si tocca qui uno snodo cruciale per un approccio non superficiale al cinema di Cronenberg. Nel suo Limina. Il pensiero e le cose, Franco Rella, ripercorrendo la vicenda intellettuale del romanticismo radicale di Schlegel e Novalis scrive a pag. 37: “Nell’uso linguistico corrotto, dice Schlegel, verosimile ha valore di quasi vero o di parzialmente vero o di ciò che forse una volta può diventare vero. Ma la parola, anche secondo la sua formazione, non può significare questo. Ciò che sembra vero, non ha perciò stesso minimamente il bisogno di essere vero; ma deve comunque manifestarsi positivamente. Il verosimile è l’oggetto della perspicacia, della capacità di indovinare fra le possibili conseguenze di atti liberi quelle effettive, ed è qualcosa di assolutamente soggettivo. Ciò che alcuni logici hanno così definito e in questo modo cercato di computare è la possibilità. Il verosimile è dunque quella necessaria finzione che ha valore trascendentale, in quanto organizza il molteplice dell’esperienza in una forma, che è bellezza (…)” Ho evidenziato la considerazione finale perché mi sembra che porti direttamente al cuore della questione, mettendo in relazione inestricabile la finzione necessaria con l’idea di verosimile, l’irriducibilità dell’esperienza con la possibilità della forma come strumento poetico organizzatore. Modificare determinati angoli di ripresa per scardinare quanto basta la soglia percettiva, rifiutare l’uso del ralenti che nel corso degli anni è diventato per lo spettatore indice di realismo, azzerando la coerenza dei rapporti tra i personaggi insieme alla copertura costituita dalla rassicurante parvenza narrativa: ce n’è già abbastanza, mi pare, per vedere all’opera il dissolvimento di un linguaggio che si vorrebbe consolidato, e dunque per parlare, a buon diritto, di lavoro poetico in atto. Che piaccia o no, il fantasma di Bataille si aggira in Crash. Non mi riferisco tanto all’evidente binomio erotismo/morte che lo attraversa, quanto a un certo modo di fare rientrare nell’orizzonte vitale dell’individuo l’elemento dell’esperienza, correlandolo alle scelte formali necessarie a una sua descrizione/trasmissione. C’è un’affermazione dello scrittore francese che sembra contraddire tutto quanto ho detto nel paragrafo precedente e che invece finisce per esserne un presupposto indispensabile: “Io oppongo alla poesia l’esperienza del possibile (L’esperienza interiore, p. 79, Dedalo Libri, 1978). Il conflitto che viene delineato da queste parole finisce, concretamente, per tradursi nella ricerca di un orizzonte linguistico capace di dare voce a quell’esperienza (non al suo significato ultimo); questo è esattamente il disegno che sottende Crash, e che lo pone in sintonia con una delle varianti principali della ricerca estetica del nostro secolo. Le sue immagini non piangono l’assenza di quell’intelligibilità superiore, che in qualche modo lo potrebbe giustificare e nobilitare, né cercano di rimpiazzarla con evocazioni nostalgiche o nebulose; il suo film (i suoi film) non pretendono di guardare in faccia la verità né, tanto meno di offrirne una qualsiasi visione a chi li guarda (“In Crash io non voglio dire allo spettatore che cosa deve provare”): “L’univers de Cronenberg, il faut le redire, est un univers mental. Les rapports entre les personnages n’y ont aucune réalité, on y voit plutôt des allégories, des idées, des concepts, des obsessions, des pulsions, des désires et des frayeurs étalés (...)”, scrive Serge Grünberg (David Cronenberg, ed Cahiers du Cinéma, 1992, p. 104). Credo, infatti, che utilizzare il concetto di allegoria per una corretta visione/interpretazione dei film di Cronenberg (e tanto più per Crash) sia indispensabile; a patto che lo si chiami in causa nella sua accezione contemporanea, non più identificabile con la figura della chiave, prestabilita da qualsivoglia autorità, che ci introduce alla giusta comprensione del mondo; ciò era possibile un tempo, quando tra autore (o comunque lo si voglia chiamare) e realtà circostante erano mantenute le condizioni di un sostanziale accordo. Una delle cose che la modernità ha portato con sé è lo sgretolamento di quell’accordo; chi ha scelto per sé quella particolare posizione di interprete sa che non lavorerà più su valori prestabiliti; sa che, non muovendosi più da una posizione in qualche modo condivisa con i suoi contemporanei, esplorerà territori infidi in perfetta solitudine. I concetti che si estrarranno dal suo procedere allegorico intorno all’oggetto particolare dell’indagine saranno tanto più facilmente in distonia con il contesto rappresentato da critica e pubblico, e sempre meno utilizzabili in vista di un riconoscimento comune e rassicurante. Con buona pace di chi pretenderebbe il contrario. Che il cinema abbia faticato parecchio a imboccare questa strada, per un sacco di motivi che non è certo il caso di riprendere proprio qui, è cosa nota; è William Burroughs, tanto per rimanere fra noi, che ci ricorda come il cinema raddoppia il ritardo che nel nostro secolo la letteratura ha accumulato nei confronti della pittura (il primato di quest’ultima era, dopo tutto, già previsto in quell’affermazione leonardesca che la definiva “poesia muta”). Alla riduzione del ritardo Crash offre un contributo notevole.
Adriano Piccardi, Cineforum n. 359, novembre 1996
[Modificato da |Painter| 10/06/2010 18:28]
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