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Il decentramento dell'uomo - analisi

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 14:21
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Sesso: Maschile
30/10/2009 13:21


Eastern Promises: il decentramento dell'uomo

Confrontando Eastern Promises con i vecchi film di David Cronenberg non sembra, a prima vista, di avere a che fare con lo stesso regista. L’attenzione puntigliosa per la scienza, la tendenza alla teorizzazione filosofica, il costante accento sulla biologia paiono del tutto eclissati di fronte ad uno sguardo concentrato ora su questioni morali ed etiche, e sul tema del male. Eppure, ripercorrendo film per film la sua lunga carriera, dai primi horror clinici alla tragica e oscura compostezza degli ultimi lavori, risulta evidente come non esiste in realtà alcun scarto. Da oltre trent’anni Cronenberg racconta e analizza un processo strisciante ma fondamentale nelle società occidentali, una vera e propria seconda rivoluzione copernicana: il definitivo decentramento dell’uomo, il decadere del suo dominio sull’universo e sul reale.
La paura che l’uomo venga messo da parte da ciò che egli stesso ha creato affonda le sue radici nella prima rivoluzione industriale, per rafforzarsi in un’epoca, la nostra, dominata da una progressiva, inarrestabile e talvolta incontrollata tecnologizzazione. Se l’umanesimo rinascimentale spostava il baricentro da Dio all’uomo, il secondo novecento ha tolto nuovamente centralità a quest’ultimo. Ma ormai, in assenza di Dio, lo ha fatto a favore della tecnologia, della macchina, via via più intelligente, via via più costruita a immagine e somiglianza del suo creatore: come il Padre, morendo, passava al figlio il testimone di cardine dell’universo, ora avviene la stessa cosa, con la differenza che il padre spodestato siamo noi. L’uomo si perde dopo un gesto inconsultamente demiurgico (una perdita del resto già testimoniata da molta dell’arte degli ultimi cinquant’anni, dalle riflessioni del cyberpunk a 2001: Odissea nello spazio): la fine della centralità dell’uomo è diretta conseguenza della sua presunzione di divinità. Soprattutto nella prima parte della sua carriera, Cronenberg ha messo in scena questo decentramento utilizzando la tipica dicotomia sineddotica del cyberpunk, dove la morte della carne assediata e germinata dal metallo è simbolo evidente delle paure apocalittiche di una società incapace di gestire la tecnologia che ha creato. La posizione di Cronenberg è umanistica: in un mondo dove la tecnologia contagia la carne, il regista canadese cerca di fare il contrario, instillando la biologia nel metallo, trattando le macchine come corpi (eXistenZ, film tecnologico per eccellenza dove non compaiono schermi né cavi, ma solo bioporte fetali e interfacce organiche).
Ad un livello superiore, emerso subito dopo i primissimi film e sviluppato nella seconda parte della sua carriera, Cronenberg legge lo stesso processo nei termini di una progressiva perdita di centralità dell’universo reale nella sua rappresentazione: nell’epoca massmediatica e onnicomunicativa in cui viviamo, è la “rappresentazione” a costituire l’espressione massima della tecnologia. La possibilità di riproduzione infinita dell’immagine, dell’immagine in movimento e dell’immagine tridimensionale ha relegato l’universo tangibile in secondo piano: la semplice possibilità di arrivare a non distinguere il vero dalla sua duplicazione fa collassare lo statuto di realtà, e quindi la centralità del reale rispetto alla sua rappresentazione. Un discorso già chiaramente presente in Videodrome (la televisione è la realtà), ed espresso in seguito in maniera sempre più lucida. Dalla rappresentazione come percezione distorta (M. Butterfly, storia di un uomo che si innamora della rappresentazione mentale della donna ideale, senza accorgersi che è un uomo), all’universo stesso come somma di rappresentazioni contraddittorie (eXistenZ), alla mente che perde la propria capacità di leggere il reale di fronte alla sua duplicazione illusoria (la schizofrenia di Spider), per arrivare ai due film con Viggo Mortensen, dove gli uomini stessi esistono in base a moduli comportamentali recitati, fino a perdere le loro connotazioni primigenie (e reali). Anche in questo caso si tratta di una seconda rivoluzione copernicana, ma molto più generalizzata e vasta della semplice scomparsa dell’uomo di fronte alla macchina, che ne era un semplice prodromo. L’uomo ha creato un altro universo. L’altro universo ha preso il posto del primo, che ne è diventato servo.

Anche in questo caso l’atteggiamento di Cronenberg è umanistico, e il suo umanesimo disperato si traduce nell’inserimento di un elemento insopprimibilmente reale che manda in crisi il complesso sistema di rappresentazioni e finzioni dei suoi protagonisti. In A History of Violence, soprattutto, la rappresentazione risulta fatalmente imperfetta grazie alla fatale attrazione verso il male, all’ossessione dei corpi. L’elemento che permette di recuperare consapevolmente la realtà è il corpo, attraverso il dolore fisico. La carne è l’ultima difesa di fronte al collasso dell’umano. Fra parentesi, è questo che rende eXistenZ abissalmente più profondo di Matrix (che pure mette in scena la stessa resistenza del reale di fronte al virtuale): è la profonda tragicità, la necessità del dolore, e per traslato, del male, mentre Matrix sfruttava una dicotomia manichea e hollywoodiana fra resistenza umana e dittatura della rappresentazione. È questo il tema cardine degli ultimi due lavori di Cronenberg, lavori fratelli (e non solo per la presenza comune di Mortensen come magnifico protagonista), che si nutrono, costituendone anzi l’estrema raffinazione, di tutte le esplicite riflessioni del Cronenberg precedente. Se in passato l’analisi di Cronenberg aveva utilizzato massivamente la fantascienza, l’horror e il melodramma, ora ha scelto un genere, il noir, per sua natura avvezzo a lavorare sull’anima oscura dell’uomo. E dopo essersi spostato negli Stati Uniti per A History of Violence, per Eastern Promises ha ulteriormente allargato il proprio campo d’azione, girando in una Londra multietnica e ambigua. La narrazione mette in relazione due mondi, quello borghese e diurno, che ci è abituale, e quello chiuso, feroce, della mafia russa, che entrano in collisione con l’incontro fra Anna, giovane ostetrica appartenente al mondo esterno, e Nikolaj, autista per la potente fratellanza criminale dei Vory V Zakone. Nello scontro tra i due mondi, la distinzione fra la bontà del primo e la malvagità del secondo si farà ambigua, risultando essere più di forma che di sostanza.

Come prima si accennava, Eastern Promises è il completamento di un percorso iniziato più di trent’anni fa: l’approccio è differente da quello dei lavori precedenti, è concentrato sicuramente più sui processi di diffusione del male che non sulla perdita di realtà, ma rimarrebbe assolutamente inspiegabile, e gratuito, senza fare loro riferimento. Cronenberg ormai può permettersi di dare per scontata la sostanziale irriducibilità di ogni avvenimento ad un sistema unico di realtà, di valutazione, o di valori: anche il protagonista di Eastern Promises è un uomo che mente e che non scioglie la sua ambiguità fino alla fine, un uomo dall’identità in continua ridefinizione. Ma ciò che davvero interessa a Cronenberg è denudare i meccanismi virali della diffusione del male, la sua connaturazione e la sua necessità, e in ultimo luogo, nuovamente, raccontare della necessità dei corpi: in una società in cui rischiamo di svanire, l’ultima forma di consapevolezza, il nucleo stesso della nostra natura, sta nei corpi, nello scontro, nel dolore e nella violenza Senza una possibilità certa di distinguere i segni provenienti dall’esterno come veri o falsi, e senza la possibilità di giudicarli sulla base di un qualche sistema etico, l’ultimo appiglio alla disgregazione assoluta è l’importare questi stessi segni sulla carne. La mafia russa ha sviluppato un sistema di rara complessità per delineare attraverso i tatuaggi una vera e propria biografia simbolica, necessaria a tal punto da obbligare a riunioni e incontri di uomini seminudi al fine di mantenere la leggibilità della pelle. Non fidandosi delle persone, è necessario ricorrere ai corpi. E così l’intera esistenza di Nikolaj, anche quella meno tangibile (i riferimenti etici) è segnata sulla sua carne: il crocefisso sul petto lo qualifica come ladro, le tre cupole sulla schiena rappresentano tre diverse accuse nei suoi confronti, l’assenza di tatuaggi di disonore lo qualifica moralmente, e, infine, le stelle sulle ginocchia stabiliscono la sua appartenenza alla fratellanza.
Questo argine al nulla, questo rifugio nella capacità organizzante del segno nel corpo, è apparentemente imperfetto: Nikolaj si scopre essere un infiltrato, un uomo che non è ciò che dichiara. Eppure, l’ultima sua battuta, a margine dell’azione positiva (il salvataggio del bambino) da lui compiuta, va letta dal punto di vista opposto, come gesto necessario per raggiungere la vetta dei Vory V Zakone (come posso diventare re se il re è ancora sul trono?). È certamente una forzatura, ma in qualche modo si può affermare che i tatuaggi che segnano la pelle di Nikolaj siano entrati nella sua mente: i segni sul corpo non solo garantiscono, ma sono l’esistenza della persona. È una tema questo già ampiamente analizzato in Memento, dove le tracce sul corpo erano l’unica possibilità di salvezza di fronte all’inconsistenza della memoria e della percezione. Ma, diversamente che nel film di Nolan, dove avevano una valenza più esplicitamente astratta, in Eastern Promises i tatuaggi rappresentano l’identità, l’appartenenza certa ad un mondo, quello della carne e del male: un mondo definito, ritualizzato, connaturato alla bestialità e al sangue, ma anche all’erotismo (la scena finale, sostanzialmente mistica, del combattimento a corpi nudi fra Nikolaj e i mafiosi ceceni, ha una carica sessuale esplicita nel suo orrore, equivalente a quella che aveva la scena dello stupro in A History of Violence).
Cronenberg sembra concentrarsi soprattutto sui modi dell’interazione fra i due mondi, quello esterno, solare, reale di Anna, e quello di Nikolaj, feroce, gerarchizzato ed oscuro. È un’interazione a senso unico, ed è qui forse il cuore della poetica attuale del regista canadese. Chi appartiene all’universo del male e dei corpi non può uscirne: i tatuaggi garantiscono per lui un’appartenenza da cui non si torna indietro. Viceversa, chi entra in contatto con questo mondo oscuro provenendo dall’esterno non può evitare di esserne fagocitato. Se Nikolaj, almeno inizialmente, è un infiltrato che si lascia lentamente contagiare dal male, l’ingresso di Anna nel mondo criminale avviene per vie più sottili, attraverso una fascinazione al male (connaturata alla parte più pulsionale dell’aspetto sessuale), un’attrazione verso il fondo. Un’attrazione ineluttabile conclusa con un bacio che sancisce l’entrata definitiva nell’universo del male (anche in questo caso, equiparabile alla scena del ritorno a casa di A History of Violence) da parte di Anna. L’instabilità del sistema di equilibrio, il mondo civile e in qualche modo buono che è la società in cui vive Anna, e, sul fronte opposto, la stabilità del malvagio e corrotto mondo di Nikolaj, disegnano una teoria dell’entropia dei sistemi civili, una tendenziale (e tragicamente necessaria nella sua drammatica sensualità) tendenza al nulla e al male. Il fattore tempo è fondamentale in questa visione, e rende estremamente coerente anche l’ossessione per il segno irreversibile sul corpo. In tutta la carriera Cronenberg è stato ossessionato dai temi della mutazione dei corpi, dalla loro alterazione, proprio per la loro caratteristica connotazione di irreversibilità: nel contagio mediatico di Videodrome, nella dolorosa accettazione alla disgregazione de La Mosca. E in Crash, dove le cicatrici sui corpi dei protagonisti procedono per accumulo man mano che questi si avvicinano e superano il punto di non ritorno nella scoperta dell’universo del piacere e del dolore. Per Cronenberg i tatuaggi, come le cicatrici, sono segni tangibili dell’irreversibilità del tempo sui nostri corpi, cioè su di noi. Come il male e la colpa, una volta che esistono non possono essere cancellati.
Dopo A History of Violence siamo di fronte ad un nuovo percorso di formazione (e restituzione) al male. Un percorso ineluttabile e tragico, dove mai la malvagità è considerata giusta, ma nello stesso tempo deve essere accettata in quanto parte dell’uomo. Cronenberg non giudica, mostra solo i processi e i meccanismi psicologici che regolano le azioni umane. Ciononostante rimane una constatazione drammatica nei suoi ultimi film, per cui il male, il dolore fisico che ci distrugge e ci aliena, è nello stesso tempo l’unico garante affidabile della nostra esistenza.
Umberto Ledda, effettonotteonline.it
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 14:21]
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