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Dell'iper-irrealismo e della malattia - due analisi

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 21:01
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Post: 529
Sesso: Maschile
09/08/2009 18:00

Spider: ovvero dell'iper-irrealismo dell'ultimo Cronenberg

Nella mia personale e totale venerazione per il genio canadese, non posso che definire l'ultima opera di David Cronenberg come favolosa, irresistibile e piacevolmente spiazzante. Anzitutto, ma non solo, per un semplice motivo, rappresentato dall'insistenza, questa sì maniacale, nel voler a tutti i costi andare oltre i limiti di volta in volta fissati dal suo stesso farsi, dal suo instancabile rinnovarsi, riproporsi ossessivo in chiave sempre nuova, facendosi tranquillamente beffe di tutto ciò che potrebbe in qualche modo dirsi acquisito, dalla costruzione pedante del climax che abitualmente sorregge le scene chiave di ogni film che si rispetti, al pubblico di irriducibili aficionados che accompagna ogni nuova sortita del suo cinema e alle schiere di neofiti attirati dal precedente e insolitamente godibile eXistenZ.
Alleggeritosi del compito di sceneggiatore (più che degnamente svolto dall'indiscutibile grandezza di Patrick Mc Grath) Cronenberg può dedicarsi interamente alla trasposizione visiva del racconto e ad una mise en scène che ha pochi pari, sia nella cinematografia dello stesso che in gran parte del cinema degli ultimi tempi.
Ma andiamo per ordine.
La chiave dell'ultimo film di David Cronenberg sembra essere l'iperrealismo, inteso come riproduzione terribilmente più reale della realtà, poetica positivamente inquinata da un senso di totale spersonalizzazione dell'immagine, di assoluta astrazione e asetticità, volto a comunicare il vuoto, lo squallore ed il fastidio generati dalla fredda perfezione illusionistica di ogni singola inquadratura.
La vena allucinat(ori)a dell'immagine iperrealista risulta poi incrementata dalla distanza emotiva imposta dall'autore, che esaspera la resa fedele del vero in una tragica e compassata ironia, cui non è estranea una sotterranea tematica di critica sociale, individuabile nel costante riferimento a quel cinema di denuncia, smaccatamente inglese, che spazia dal free cinema al Ken Loach prima maniera.
Fotografia dell'ordinario dunque, al contempo massima espressione di un accademismo acquisito dall'esperienza che contribuisce a raffreddare e spersonalizzare l'immagine cinematografica, sospesa in una irrealtà raggelata, interamente verosimile e somigliante al reale cui si riferisce, ma che in effetti sostituisce con la suddetta parodia più o meno tragica.
Quanto più è densa di particolari non approssimativi, non mediati dal calore dell'imperfezione del frame, quanto più risulta copia esatta dell'originale, tanto più l'immagine iperrealista rivela il suo lato inutile e grottesco, veicolo di conoscenza dell'assurdità del suo modello reale.
Tutto il film sembra insomma dominato da una plasticità quasi surreale e naturalmente inquietante, sostenuta dall'onnipresenza di porte, di passaggi e di anditi che sezionano l'ambiente in stadi liminari, quasi a voler esasperare l'aspetto border line della personalità di Spider, che solo alla fine del film si rende conto di essersi ormai spinto talmente oltre da non poter più tornare indietro. E nella stessa situazione viene in qualche modo a trovarsi lo spettatore, indeciso tra l'identificazione spiazzante con il protagonista (quella sospensione dell'incredulità indispensabile alla fruizione di ogni storia di fantasia) e la coscienza di trovarsi di fronte al delirio di una mente malata, infettata dall'insan(abile)o morbo della pazzia.
Nel mondo di Spider, Cronenberg non esita a calarci sin dall'inizio, traghettandoci oltre l'Acheronte con un treno che approda in una stazione semideserta e forza sul binario il suo carico di dannati.
La stessa carrellata iniziale in cerca del protagonista si fa movimento necessario alla focalizzazione della sua personalità schizoide e alienata, obbligo a cedere ogni speranza per poter entrare.
Magnificamente composto in ogni singola inquadratura e spietatamente freddo, interamente votato al ritmo lento ed ossessivo tipico del regista canadese, Spider non concede nulla ai meccanismi classici del cinema di genere e dà la sensazione di riprendere il discorso lì dove l'aveva lasciato Crash, altra sua opera difficilmente digeribile nella sua sterminata grandezza.
Oppresso da una macchina da presa quasi sempre incombente dall'alto, Ralph Fiennes si aggira negli spazi angusti della sua prigionia in cerca di un senso troppo agghiacciante per poter essere accettato, dominato da un destino che è dannazione inappellabile e claustrofobica, governata dall'insondabile equilibrio dell'intrico di una tela di un ragno, dall'inattendibilità di un puzzle che non riesce a ricomporre e da quel vetro rotto che è la sua personalità in frantumi.
Altre volte, invece, Cronenberg non esita a concederci il controcampo in grandangolo e dal basso, mostrandoci la pazzia in tutta al sua agghiacciante interezza, in tutta la sua possenza riempitiva.
Nessuna ricerca di simmetrie kubrickiane con cui rappresentare la pazzia insomma, ma un semplice riproporsi di scatole cinesi, giocato sulla profondità di campo e su pochi, impercettibili cambi di fuoco, in accordo con i movimenti dei due Spider quando compresenti sulla scena.
Ecco allora che quando compare uno specchio (la madre che si trucca, Spider riflesso nell'anta dell'armadio della custode dell'ospizio), vi ritroviamo sempre riflesso il lato oscuro di ogni viso, quell'ambivalenza schizofrenica tipica della Grande Madre, datrice e fagocitatrice di tutto.
A proposito del suo film David Cronenberg ha dichiarato: “Spider is an austere psychodrama with a profound human mystery at its heart. It has the feel of Samuel Beckett confronting Sigmund Freud."
E proprio a Beckett sembra assomigliare lo sguardo arcigno di Fiennes, dilaniato dell'edipico delirio d'amore per la madre quanto dal desiderio di vendetta omicida nei confronti del padre.
Un interessante parallelo è riscontrabile nel misconosciuto film di Adrian Lyne Allucinazione perversa (Jacob's Ladder, USA 1990), in cui un reduce dal Vietnam (magistralmente interpretato da Tim Robbins) compie un terrificante viaggio prima verso l'Inferno e poi al Paradiso, perseguitato da spaventose visioni di diavoli e demoni, conseguenza di oscuri e mai confermati esperimenti sul potenziamento dell'aggressività effettuati dall'esercito Americano nel Sudest asiatico.
In questo film, le invenzioni paranoiche di una mente malata filtrate dalla morale di redenzione cristiana e sostenute da una messa in scena apocalittica e cupa nella fotografia espressionista di Jeffrey L. Kimball fanno esplicito riferimento alla scala di Giacobbe del titolo, che secondo la Bibbia (Genesi 28,10) univa la terra al cielo.
Pur divisi da innegabili differenze, Spider e Jacob's Ladder affrontano il medesimo percorso, tesi ad indagare la solitudine della pazzia perseguitata da un mondo indifferente ed il più delle volte ostile, rappresentato dall'istituzione medico-criminale inglese per Spider e dall'imperialismo sanguinario degli Usa per Jacob.
Opposti nella scelta del finale, salvifico per l'innocente Jacob e tragico per il matricida Spider, Cronenberg e Lyne giocano con lo spettatore scombussolando l'intreccio, in accordo con l'ambiguità psicologica dei propri personaggi e forse della società tutta. Comunque infetto e contaminato anche se in maniera più subdola, Spider è indubbiamente il miglior film di David Cronenberg e tra i più interessanti visti quest'anno, segno che esistono ancora strade da esplorare e volontà di fare cinema da sostenere.
Fulvio Montano, effettonotteonline.it



***

Non è la prima volta che Cronenberg parla di insetti, ma questa volta si tratta di un insetto molto particolare.. Spider.. il piccolo Spider. Intendo piccolo davvero, una stanza sola, un piccolo ambiente, qualche oggetto raccolto per strada che riempie le tasche… o qualche piccolo ricordo che riempie la testa, o la stanza, e che dona più vite a Spider...
Spider è la sua malattia, la malattia di Spider è la sua bellezza.. La bellezza cronenberghiana della malattia, quasi a dirci che noi siamo troppo sani, schiacciati dal peso dei ricordi, dall'obbligo dei ricordi, più che altro. La facilità con cui Spider riesce a muoversi tra diverse vite, lungo diverse tele, trame, invidiabilissima peraltro, di spostarsi da una pagina all'altra del piccolo quaderno fitto di scritte di ogni verso, un piccolo Libro dell'inquietudine pessoaiano. Spider non cammina, scivola semplicemente fuori e dentro la vita, sguardo vuoto e taccuino.
Viene in mente Fred Madison/Bill Pullman (Lost Highway): "[…] mi piace ricordare a modo mio".
La malattia che agisce come individuo che vuole sopravvivere, come orrido cancro del corpo ma indiscutibile bellezza filmica, evolutiva. Spider è la sua malattia al punto che la malattia di Spider è lui stesso.
In un certo senso Spider è vicino a David Lynch, per la straordinaria bellezza evolutiva della pellicola, per l'infinità della pellicola che sembra continuare a scorrere dopo la fine o più volte durante la proiezione stessa. Quella camminata lenta, lentissima, eterna, di Spider, da destra verso sinistra con quel palazzo grigio di sfondo, con tutte le porte e finestre murate… è un'immagine molto potente, molto evocativa.. ricorda Jack Nance in Eraserhead.. una mente cancellatrice/costruttrice.. murata, protetta dall'interno..
...É straordinaria anche la fisicità dell'onnipresenza di Spider all'interno dei suoi ricordi (o della sua stanza, è la stessa cosa), come fosse un rivettiano spettatore e, contemporaneamente, attore-regista degli spettacoli teatrali di L'amour par terre. Come se quest'ultimo film di Cronenberg fosse il più cinematografico di tutti, il più filmico di tutti, sventrando e tempestando gli occhi di chi guarda della natura stessa del cinema, della pellicola, dei ventiquattro fotogrammi al secondo, della realtà. Di nuovo, la stanza di Spider è un piccolo sogno, tanti piccoli sogni, è Mulholland Dr., un posto visionario, un'intersezione di diverse menti. Spider dà l'impressione di non poter mai morire, al massimo, un giorno, di addormentarsi semplicemente. Sognando.
Spider è un film unico per David Cronenberg, una seconda zona morta che segna in modo particolare il suo ruolo nel cinema, più di quanto (non) abbiano fatto Videodrome o La Mosca. Buona visione.
Roberto Emanuel, effettonotteonline.it
[Modificato da |Painter| 10/06/2010 21:01]
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