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"Crash" di James Ballard

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 20:45
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Sesso: Maschile
20/07/2009 11:02


CRASH di JAMES BALLARD

Ancor oggi la visionarietà dirompente del capolavoro ossessivo – e semiautobiografico – di James Ballard, Crash, continua a far discutere. Si tratta indubbiamente di un’opera notevole (che, quando fu proposta nei primi anni ’70 ad una casa editrice britannica dal suo autore, fu bollata come l’opera di un pericoloso squilibrato) e che mette un po’ in ombra altre produzioni ballardiane, contigue temporalmente, come Il condominio e L’isola di cemento ed altre più recenti – che da quelle derivano – come Cocaine nights e Rushing to paradise, caratterizzate da tematiche forse ancora più inquietanti.
Ballard, com’è noto, è stato il caposcuola – intorno ai primi anni ’60 – di un modo radicalmente innovativo di fare fantascienza (genere all’interno del quale si è formato) ed ha influito, assieme a Pynchon, Vonnegut e Dick sul cosiddetto ‘Cyberpunk’, i cui esponenti, però, Gibson in testa, non sono stati finora all’altezza dei loro maestri.
Nello specifico, la rivoluzione apportata da Ballard, fu quella, genialmente semplice, di indagare il cosiddetto inner space di contro al classico outer space, cioè di focalizzare l’intero processo euristico della scrittura nella disamina degli ‘spazi interni’ del corpo e della psiche dell’uomo a contatto con il nuovo ambiente tecnologico, freddo, deprivante e psicopatologico del XX° (e ormai XXI°) secolo.
Ciò ha inevitabilmente portato alla ‘trasfigurazione’ della fantascienza in Surrealismo, poiché quello che più conta, da questo punto di vista, non è più l’impressione che suscita in noi la scoperta improvvisa di un remoto pianeta della galassia (si pensi, infatti, alla scomparsa di un sottogenere come la ‘space opera’), ma la percezione – e la sua conseguente azione di ‘riconfigurazione’ dei procedimenti psichici del nostro cervello – che ci viene data nell’osservare i prodotti tipici della nostra società.
Si verifica in tal modo un’attenzione, malata e ossessiva (e quindi pienamente antropologica, nel suo studio comportamentale umano), nei riguardi delle infinite distanze siderali che separano, in una casa, una parete dall’altra (L’enorme spazio); nei rapporti che possono intercorrere tra un atto sessuale e un incidente automobilistico (Crash); sull’ossessione che possono nutrire gli autistici e gli ebefrenici nei confronti del Presidente Reagan e della terza guerra mondiale (La mostra delle atrocità); sulla ‘lotta di classe’ applicata ai piani di un condominio ipertecnologico (Il condominio); e ancora sui resoconti “mitologizzati” dei viaggi degli ‘Shuttle’ da Cape Canaveral, sulla televisione come nuova divinità dell’era mediatica, sul crimine come risorsa creativa e sull’ossessione ecologista.
Il tutto, vissuto e fruito dai protagonisti ballardiani che, dismessi i caschi e le tute da astronauti, indossano quasi sempre abiti in doppio petto e cravatta, tipici della classe medio-alta britannica contraddistinta da medici, avvocati, imprenditori e registi televisivi (e alla quale lo stesso Ballard, questo pacioso e un po’ sovrappeso signorotto, in fondo appartiene).
Consapevole, quindi, che “La maggior parte delle macchine con cui abbiamo a che fare nella vita di tutti i giorni: gli aeroplani di linea, i frigoriferi, le automobili, le macchine per scrivere, si sono ritagliate un posto nei nostri affetti”, sarà allora interessante, per questo autore, studiare gli incidenti d’auto come accoppiamenti sessuali, come ‘eventi fertilizzanti’ che si verificano, al tempo stesso, sulle autostrade reali e come ‘Icone neuroniche sulle autostrade spinali’ (La mostra delle atrocità pp.49-88).
E sarà quindi indifferente per Vaughan, lo scienziato-teppista del romanzo, chiavare una prostituta o tamponare una macchina ad un incrocio, così come per il protagonista di Crash – che è proprio lo stesso Ballard – lo sarà il sodomizzare la propria moglie o lo stesso sfregiato e sussurrante Vaughan, in una totale indifferenza anaffettiva dei corpi-macchine visti unicamente e oscenamente come carne da macello.
Il tutto come denuncia dell’aberrazione apportata dalla società capitalistica post-industriale e con un’attenzione antropologica al dettaglio, anche perché – come afferma Ballard – “la scienza è l’ultimo stadio della pornografia, un’attività analitica il cui scopo principale è quello di isolare gli oggetti o gli eventi dal loro contesto spaziale e temporale”.
C’è sempre, ovviamente, il rischio di scadere nel ridicolo, e il semplice fatto che Ballard non lo faccia mai è già indice della sua maestria. Chi trova, infatti, ridicoli o inutilmente ripetitivi certi termini che ricorrono spesso all’interno del romanzo – come ad esempio “cromato” o “stilizzato” – non ha capito nulla della pre-comprensione del testo e della particolare ‘atmosfera’ dei testi ballardiani. Sarebbe un po’ come tentare di spiegare un’opera d’arte dadaista, basata su principi illogici e irrazionalisti, secondo i procedimenti e gli schemi della logica ordinaria del senso comune.
Alessandro Puma, ariannaeditrice.it



***

NOTE DI COPERTINA
L’automobile come metafora della vita dell’uomo nella società odierna. Lo scontro automobilistico come sinistro presagio di un orrendo connubio tra sesso e tecnologia. La tecnologia come mezzo di sfruttamento delle nostre psicopatologie.
Ad accomunare le vite del narratore, James Ballard, e dello scienziato televisivo e psicopatico Robert Vaughan sarà la passione morbosa per gli incidenti stradali con il loro strascico di morte, deformazione e mutilazione dei corpi, commistione di tecnologia e carne, lamiere e sesso. Entrambi sono reduci da scontri che hanno modificato la loro percezione di cose e persone. Hanno una visione autenticamente pornografica del mondo, si concentrano su particolari svincolati dalla personalità, deviano feticisticamente la libido sui dettagli tecnologici e umani. Attorno a loro si muovono le figure di Catherine, la moglie di James, con la sua attrazione omoerotica per Karen, la dottoressa Helen Remington, il cui marito è morto nello schianto con l’automobile di James, e altri individui a loro volta presi nelle spire del fascino perverso della tecnologia e del suo impatto sulla vita umana. Il tutto descritto con algido, clinico distacco. Si spiana così la strada, come ha detto lo scrittore, "a tutti i nostri piaceri più concreti e delicati – quelli delle delizie del dolore e della mutilazione; del sesso come arena perfetta, come brodo di coltura di sterile pus, per tutte le veroniche delle nostre perversioni; della libertà morale di attendere alla nostra psicopatologia come a un gioco; dell’apparente illimitatezza delle nostre capacità di concettualizzazione. Ciò che i nostri figli hanno da temere realmente non sono le autostrade del domani, bensì il nostro sottile piacere nel calcolare i più eleganti parametri delle loro morti"

DAL CAPITOLO 1
Vaughan è morto ieri nel suo ultimo scontro. Nel corso della nostra amicizia, aveva fatto le prove della sua morte in molti scontri, ma il suo ultimo è stato proprio e semplicemente un incidente – l’unico. Guidata in rotta di collisione verso la berlina dell’attrice cinematografica, la sua macchina ha saltato il parapetto del cavalcavia dell’aeroporto di Londra ed è precipitata, sfondandolo, sul tetto di un autobus carico di passeggeri delle linee aeree. Quando, un’ora più tardi, mi sono aperto la strada fra i tecnici della polizia, i corpi schiacciati dei turisti del tutto-completo giacevano ancora sui sedili vinilici, come un’emorragia del sole. Reggendosi al braccio dell’autista, l’attrice cinematografica Elizabeth Taylor, con la quale Vaughan aveva per tanti mesi sognato di morire, stava sola sotto il lampeggio circolare delle ambulanze. Quando mi sono chinato sul corpo di Vaughan, s’è portata alla gola una mano guantata.
La posizione di Vaughan le aveva forse rivelato il tipo di morte da lui escogitato per lei? Nelle ultime settimane di vita, Vaughan non aveva pensato ad altro che alla morte di lei, a quell’incoronazione di ferite da lui inscenata con la devozione di un conte del Collegio d’araldica. Le pareti del suo appartamento presso gli studi cinematografici di Shepperton erano tappezzate di foto da lui scattate con lo zoom ogni mattina – ora dai ponti per pedoni delle autostrade dirette a ovest, ora dal tetto del parcheggio a più piani degli studi – dell’uscita di lei dall’albergo londinese. I particolari ingranditi delle ginocchia e delle mani di lei, dell’interno delle cosce e dell’apice sinistro della bocca, glieli preparavo io, con disagio, servendomi della copiatrice dell’ufficio; e quei pacchetti di foto stampate che gli consegnavo mi sembravano frammenti di un’ordinanza di morte. Nel suo appartamento, lo osservavo combinare i particolari del corpo di lei alle ferite grottesche riprodotte da un manuale di chirurgia plastica.
Nella sua visione di uno scontro automobilistico con l’attrice, Vaughan era ossessionato dal numero e dalla ripetizione di ferite e impatti – dal cromo morente e dal cedimento delle paratie antiurto delle due auto scontrantisi frontalmente in collisioni complesse che si ripetevano all’infinito come in una sequenza al rallentatore; dalle ferite identiche inflitte ai due corpi; dall’immagine del parabrezza frantumantesi come ghiaccio attorno al viso di lei nell’istante in cui ne sfondava la superficie oscurata come un’Afrodite emergente dalla morte; dalle fratture multiple delle cosce nel momento dell’impatto contro la leva del freno a mano, e, soprattutto, dalle ferite ai genitali di entrambi: l’utero di lei trafitto dal becco araldico dello stemma del fabbricante, il seme di lui sparso fino all’ultima goccia sulle scale luminose registranti in eterno la temperatura e il livello definitivi dei carburanti.
Solo in questi momenti, nel descrivermi quello che doveva essere il suo ultimo scontro, appariva calmo. Delle ferite e delle collisioni parlava con la tenerezza erotica di un amante a lungo separato dall’amata. Nel frugare tra le foto del suo appartamento, si teneva mezzo girato verso di me, e il suo inguine grave, dal profilo di pene semieretto, m’acquetava. Perché Vaughan sapeva che, fin quando mi avesse provocato col suo sesso, del quale usava con la trascuratezza di uno pronto a sbarazzarsene per sempre in qualunque momento, io non lo avrei mai lasciato...
Dieci giorni fa, rubandomi l’automobile dal garage sotto il mio appartamento, aveva risalito a cozzi la rampa di cemento, come una macchina omicida scagliata fuori da una trappola. Ieri il suo corpo giaceva sotto le luci ad arco della polizia ai piedi del cavalcavia, velato da un delicato rabesco di sangue. La postura spezzata di gambe e braccia, l’insanguinata geometria del viso sembravano parodiare le istantanee di ferite da scontri di cui erano tappezzate le pareti del suo appartamento. Ho abbassato lo sguardo per l’ultima volta sul suo inguine enorme, intriso di sangue. Venti metri più in là, illuminata dai fari circolari, l’attrice stava come librata sul braccio dell’autista. Vaughan aveva sognato di morire nell’istante dell’orgasmo di lei. [...]
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[Modificato da |Painter| 10/06/2010 20:45]
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