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Sangue, Segno e Nuova Psiche - analisi

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 14:20
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Sesso: Maschile
05/01/2009 16:41


Il Sangue e il Segno - la visualizzazione grafica della violenza ne La Promessa dell’Assassino


Se Il Pasto Nudo estremizzava il senso della pericolosità della scrittura come atto creativo, un diverso tipo di pericolosità dilaga nelle due tipologie di segni che sono i vettori del film, punti cardine da cui parte la storia narrata in Eastern Promises, visualizzazione grafica della violenza. Le parole scritte nel diario di Tatjana e i tatuaggi imposti a Nikolaj sono il palesamento della sofferenza di due corpi i cui destini si legano indissolubilmente.
Il diario della ragazza, portata via dal suo villaggio e poi venduta, sfruttata, violentata e drogata fino a morire, è ciò che resta dell’anima, dei ricordi, in una parola del vissuto, di quello che per i suoi aguzzini non era niente più che un corpo da usare, e proprio quel corpo, malgrado tutto, sarà l’origine di una nuova vita, ulteriore testimonianza dell’esistenza della ragazza.
Eastern Promises è un film di sangue e di segni, è la moltiplicazione, o germinazione, semantica dell’incastrarsi di questi elementi. Il sangue che sgorga dalle gole tagliate, che esce dal corpo di Tatjana che sta per partorire, sulla bambina appena nata, il sangue dei tagli inferti nelle scene di lotta; lo sfiorarsi dei corpi porta sempre a una lacerazione, alla comparsa di un simbolo.
Il biglietto che Anna trova nel diario di Tatjana, rosso come il sangue che tra quelle parole è racchiuso, la conduce e con lei lo spettatore, verso un locale il Trans-Siberian, nome evocativo, di viaggio e di gelo. Da qui il punto di partenza di un viaggio nella violenza, un trans, un passaggio, un mutamento progressivo verso una maggiore e dolorosa consapevolezza del male. La scoperta del diario e delle parole in esso contenute, e che tuttavia non sono da subito parole,ma embrioni , grafemi, significanti in attesa di significato (in un processo di ricostruzione analogo a quello di Spider) che si svelano nel corso del film attraverso la traduzione (ma non solo volgare traduzione ma divenire di significazione), sono il binario parallelo ai segni incisi sul corpo di Nikolaj e che si riveleranno pian piano, dalle falangi delle dita fino a mostrare un intero corpo-diario, anch’esso fatto di sangue e di violenza.
Un tatuaggio come una stigmate, un segno che si imprime sulla pelle per indicare un passaggio, un moto della vita che evolve chi lo porta e proprio per questo segno indelebile, palesamento di un atto, appartenenza a una setta che condivide i significati, decifra i codici che essa stessa ha creato. E’ il verbo che si fa carne, la visualizzazione di una scrittura, perchè “se non hai tatuaggi non esisti”, non c’è voce, non esiste passato né futuro. Il corpo ingessato e sempre composto negli eleganti vestiti di Nikolaj, che calibra i gesti e le parole, un corpo funzionale ai compiti di autista (che non vede, non sente, non parla) e di fac-totum che esegue senza fare domande, è un corpo che, al contrario urlerà tutto il suo dolore nella scena della sauna, in cui sui suoi tatuaggi, sulla pelle nuda, verranno incisi ancora e ancora da profondi tagli.
Nel corso del film assistiamo alla costruzione di una serie di trittici squilibrati, sghembi, in ognuno di essi serpeggiano il tradimento, l’odio, il rancore e strisciante appare l’ombra dell’omosessualità: Nikolaj, Kirill e suo padre, Nikolaj, Kirill e la prostituta bionda nella scena voyeristica del bordello, il momento della lotta nella sauna dove la componente omosessuale si svela nella mimesi di un combattimento a tre, solo nel finale c’è il ricomporsi per un tempo brevissimo, il tempo di un bacio sfiorato, di una triade scevra da ogni spettro di dominio e che si stempererà quasi subito nell’immagine di Nikolaj, da solo all’interno del Trans-Siberian tra i pesanti velluti rossi, con lo sguardo perso nel vuoto di chi porta il peso, sotto quei vestiti eleganti, dei tatuaggi che non si cancelleranno e la voce off, ossessiva, di Tatjana che racconta, ancora una volta, la sua storia, la perdita della sua vita.
Sara Del Santo, indie-eye.it



***

Direttamente dalla stirpe Scanners, la cui fondazione detiene la defunta memoria del Dr. Paul Ruth, padre dello Scanner “buono” Cameron Vale e di quello “cattivo” Darryl Revok (tra virgolette poiché la teoria della relatività non smette mai di abbracciarci), riaffiorano dall’oscurità di un sordido vicoletto londinese quelle che potrebbero essere le controparti, ai giorni nostri, dei due prototipi che nel 1981 erano i più potenti Scanners. Oggi infatti, dal momento che la moltiplicazione della specie è ormai a buon punto, unitamente a quella dei nuovi media virtuali che di certo non l’hanno frenata, non si sa più dove guardare per non incrociare con lo sguardo almeno un esemplare di questa neo-specie, che definito così suonerebbe un po’ come la figura dell’androide di futuribile memoria scottiana, apparentemente come noi seppur in realtà non umano, ma anche più prossimamente a quei tanti di noi che attecchiscono ad un medesimo modello etico-comportamentale. Ora, dal momento che Cronenberg non si è mai chinato alla ricerca dei nostri limiti, errori, possibili spiegazioni e/o rimedi, sondaggio che sarebbe per altro inesauribile, non sorprende la neutra presentazione triadica del male, qui come in Scanners ma anche nel precedente A History of Violence, senza guardare troppo indietro, dove ad innestare l’epidemia di violenza era il Genio Maligno dei due rapinatori (Dr. Paul Ruth in Scanners, Semyon ne La Promessa dell’Assassino), che guardacaso ridestavano la natura sopita della violenza sana o specifica di Tom Stall (Cameron Vale, Nikolai Luzhin), e giocoforza di quella malsana o aspecifica della malavita organizzata (Darryl Revok, Kirill); vale a dire che la santa trinità va sotto il nome di “impulso” (visione freudiana), poi dirottato dalla natura umana universale, che ne è sentiero, in “violento”, dopodichè conteso e sintetizzato dall’aggressività di eros e thanatos. Ossia, proprio dove entra in gioco la fredda autopsia dei vincitori e dei vinti, ci si accorge di come bene e male siano mente e braccio l’uno dell’altro, in una visione dualistica che malgrado ciò fa capo ad un unico super-corpo, quello del potere, che si serve degli uomini per manifestarsi in tutto il suo isolamento psico-carnale.
Insisto per la prima volta nell’attribuire a questo film il ruolo di importante copula delle due fondamentali correnti del cinema di David Cronenberg: Nuova Carne e Nuova Psiche, dal momento che, dopo la svolta psichica del “soggettivo” e miracoloso Spider, l’inciso necessitato A History of Violence, viene qui partorito l’“oggetto”, il quadro clinico dello stato cadaverico e ormai superato dell’ex nuova carne, fattasi tatuata, pallida, vergognosa, e infine il passaggio di testimone alla psiche e ai suoi astuti disegni. Così da riformare il cerchio topico della filmografia del canadese, che prevedeva prima di tutto il calcolo e la ricerca psico-biologica, sebbene fino ad eXistenZ esclusa dalle sperequazioni visive della carne, vera protagonista della ribalta di Cronenberg. Un inossidabile filone di cinema guardante gli effetti visibili di cause invisibili, e oggi più concentrato su quest’ ultime partendo dai ben noti modelli di disfunzione carnale acquisiti, che se ieri apparivano suggestivi oggi si dimostrano anzitutto profetici e necessariamente legati alle nuove frontiere della mutazione psicologica, piuttosto che corporea, qui giunta al suo stadio terminale, alla sua vegetativa meccanizzazione.
Cronenberg non disprezza ciò nonostante il lato viscerale del suo percorso, pur sempre insito e pulsante in La Promessa dell’Assassino con disarmante efficacia, grazie a minuti di disturbante veridicità della lotta tra vita e morte, fra impulsi rivali eppure identici ma, come aveva già espressamente dichiarato attraverso Spider, la sua intenzione ora è quella di procedere a ritroso. Per risalire alle ragioni che spingono un uomo mentalmente disturbato a setacciare obliquamente una Londra spettrale, per ripercorrere il passato di un buon padre di famiglia che si scopre improvvisamente pistolero abilissimo, e per capire infine quale verità nasconde la misteriosa morte di una prostituta russa di appena quattordici anni in una Londra marmorea e sorda.
Pertanto, assoldato un cast dall’elevato potenziale, lavorato abilmente dalla mano paterna del regista canadese, qui al suo secondo film con Viggo Mortensen, ne scaturisce una pellicola tesa dall’inizio alla fine, contraddistinta da un serpeggiante e crescente coinvolgimento ai passaggi narrativi, dettati dalla straordinariamente sostenuta sceneggiatura di Steven Knight. Che Cronenberg converte con chirurgica lucidità in immagini piovose e fredde richiamanti all’unisono Scanners e Crash, film, quest’ultimo, che dopo undici anni rivela la sua non ancora pienamente raggiunta attualità, ma senz’altro l’enorme influenza fotografica, che ha efficacemente esercitato un decennio dopo su questo importante passaggio filmografico che non va mai per il sottile. Dalla corrosiva drammaticità della prima scena, fino al crudo epilogo vengono infatti iniettate dal regista dosi considerevoli di violenza epidermica, senza enfatizzazioni o distorsioni, quanto per il loro indigesto retrogusto di verità. Oggettività della sofferenza di giovani ragazze recluse nel mondo della prostituzione; dei gerarchismi malavitosi che nascondono l’equanime e volgare fame di potere di chi ne fa parte; della netta linea di confine eretta fra criminalità e gente comune, quali che fossero i primi superiori ai secondi, dall’alto dei loro costumi impeccabili, dell’agiatezza e impassibilità esistenziale che li celebra, stimolata da un utilizzo erroneo e distratto della carne. I tatuaggi sono infatti un momento di rinnegamento biologico, naturale, catalogano l’individuo in compartimenti sociali imprescindibili che determinano addirittura il suo destino[1], come nel caso lampante di Nikolai e le sue stelle. C’è chi nasce “principe” e chi lo diventa, ma chi lo nasce già, chi lo dà per scontato, mai si porrà il dubbio di essere nel giusto o meno, come invece chi per diventarlo guarderà dall’esterno ciò a cui va incontro.
Ebbene, con occhio endoscopico Cronenberg ci introduce entro le quinte di una mafia russa insensibile, stupratrice, vigliacca, che però detiene il potere, e di conseguenza è Il Potere. Il regista lo accetta come polo violento negativo, gli contrappone il corrispettivo positivo e tenta una conciliazione fra le parti. E’ da considerarsi l’ultima sequenza come estrema fusione di bene e male, quindi dei due nuovi “re”, in un unico corpo, in un’unica dimensione?
Se ricordate l’ultima sequenza di Scanners riceverete la medesima sensazione all’inverso, mentre lì era il corpo di Revok (Male) a sopravvivere con dentro l’anima luminescente di Cameron, qui è invece quello di Nikolai (Bene) ad imprimersi sullo schermo, in silenzio, con sguardo roccioso e impenetrabile. Questo sta a significare che per davvero il tempo della nuova carne è ormai tramontato, poiché essa non può niente se non riciclarsi al fine di servire la psiche e i suoi pensieri, nessuna escrescenza, nemmeno un capello fuori posto, figuriamoci poi un’espressione d’affetto, bensì la consapevolezza di dover gestire freddamente ogni singola operazione dell’intelletto, come dei computer.
Non un Cronenberg pessimista, piuttosto nostalgico, che intravede ben poco di buono nel presente e ripone ancor minore fiducia nel futuro, e che proprio per questo disseppellisce l’organicità di Scanners e l’ossatura di Crash, per non parlare della musicalità languida di M. Butterfly.
In alcune scene viene percepita un’atmosfera neo-medievale, di riti elettivi e funebri, fino a quando il bacio finale tra Nikolai e Ann raccoglie un po’ le fila dei molteplici temi morali appena appena suggeriti lungo la preponderante corrente scorrevolmente thrilling del film, aprendo i battenti ad un finale introverso e malinconico come quello di Scanners. Ognuno è alienato sul proprio pianeta mentale, l’amore, la vita coniugale e la procreazione non sono nemmeno più ipotizzabili, resta solo un isolato presentimento, come se Ann, infine, rispolverando le parole scritte sul diario della giovane prostituta morta, comprendesse che attraverso il pensiero, quel confine invalicabile presente fra gente comune e mala non fosse altro che un semplice disguido spazio-temporale. In quanto la piccola bimba che Ann (Vita) tiene in braccio è l’omaggio da lei dedicato a Nikolai (Morte), e che dopotutto, abbattendo ogni steccato, anche stavolta premurosamente esclama: “Abbiamo vinto, abbiamo vinto!”.
E Cronenberg ha trionfato, giacché La Promessa dell’Assassino è un film memorabile.

[1] Come d’altronde ogni medium che abbia mai frequentato il cinema di Cronenberg, dalla televisione (Videodrome), al virtuale (eXistenZ), passando per la parola che si fa carne (Il Pasto Nudo), spingendosi fino all’inchiostro sulla pelle.
Davide Ticchi, positifcinema.com



***

Davanti ai deschi imbanditi del ristorante gestito da Semyon, appartenente alla fratellanza militare Vory V Zakone, un cantante intona “Oci ciornie” (occhi neri), una triste e bellissima canzone russa. Questa l’ultima strofa: “Occhi neri infuocati di ardore / mi attirano verso paesi lontani / dove regna l'amore / dove regna la quiete / dove non esiste sofferenza / dove l'odio è vietato”. La Promessa dell’Assassino potrebbe essere un film sull’amore? E sul rapporto tra cruor e sanguis, tra il sangue versato che macchia la carne e colora di sfumature rosse una Londra bagnata e impalpabile, e il sangue che scorre nelle vene e che, affiorando alla superficie, si mescola con l’inchiostro nero/violaceo dei tatuaggi? Un rapporto tra la carne che sente e quella che è sentita, fisicità dell’essere e fisicità dell’irrealtà di una Londra distante e distratta, quindi una simmetria dei colori fisici del corpo/film e del fuori/profilmico?(1). Potrebbe essere l’amore per la conoscenza e l’illusione di non essere dimenticati, che si incarna nella voce off della ragazzina morta dalla quale apprendiamo il suo dolore e la sua delusione per quello che credeva il paese dove regnano l’amore e la quiete e dove non esiste sofferenza e l’odio è vietato. Ma la canzone viene cantata nel ristorante di Semyon, tempio del male, inferno della carne e dell’anima dove la violenza delle passioni viene lasciata ai margini, perché domini la glaciale tranquillità dell’ordine delle cose. Il male affiora sui sorrisi di Semyon come nei colori intensi e debordanti dei cibi della cucina russa, mostrato sulle addobbate e decorate tavole ove commensali di un’alta società non definita (sono tutti appartenenti alla Vory o sono ricchi borghesi della City?) siedono davanti ai deschi dei cibi e della vodka versata a fiumi. Il male è la normalità fredda delle bimbe innocenti che suonano il violino, lo sguardo eccitato e patetico di Kirill che ama/odia il padre/padrone o è la calma apparente dello sguardo di Nickolai, infiltrato buono ma non troppo che per non scoprirsi (obbligato da Kirill) non esita a prendere con la forza una giovane ucraina oggetto-carne, divertimento dei gangster? Oppure è il rimpianto di Anna, il desiderio di Anna di colmare la perdita di un bimbo mai nato attraverso le cure e l’interesse per la sorte della piccola Christine, nata nel giorno della morte della sua giovanissima madre russa? Mi pongo tutte queste domande perché il film, sotto la sua apparente semplicità narrativa, nasconde un’immensa forza che amplifica il senso del suo stesso sviluppo. Il film di Cronenberg non è un film "normalizzato" che si discosta dai precedenti (ma già l’intento era iniziato con A History of Violence) perché tratta temi più “comprensibili”, ma è un film che si sviluppa a vari livelli: estetici, narrativi, simbolici che ridurrei per semplicità a tre.
NARRAZIONE: ossia due plot principali che s’intersecano, attraversando le immagini e i colori: a) il racconto della ragazzina morta di parto, narratore che accettiamo in quanto mostrato nei due momenti canonici del cruor dell’incipit del plot (l’emorragia e la bambina cosparsa del sangue perso dalla madre), racconto che s’interseca e si esplicita per mezzo dei vari lettori del diario e/o dei loro gesti o movimenti o parole (soprattutto Anna, ma anche Nickolai e in parte lo zio Stepan e persino Semyon); b) l’evento mimetico che si dipana “semplicemente” davanti ai nostri occhi, apparentemente limitato dall'intreccio; c) i vari plot secondari (Anna e il bambino perso, l’impotenza di Kirill, il passato di Nickolai) che interferiscono con la linearità temporale, destabilizzando la narrazione prevista (Anna vuole scoprire la verità per la verità o per la sua “bambina” ri-nata? Kirill fa uccidere per punire chi lo ha offeso o per offendere il padre che lo ha punito umiliandolo attraverso lo stupro della quattordicenne ucraina? Nickolai lavora per la giustizia o per dare senso alla sua morte avvenuta a quindici anni?). Tutti questi “significati” finiscono per annullarsi suscitando un surplus di senso che esplode nell’immagine finale del bacio quale indice definitivo non della nascita, ma del tramonto dell’amore. In tal modo Cronenberg mette il sigillo allineando corpi non nel senso di attrazione ma di repulsione (Nickolai se ne va abbracciando Kirill, suo amico, capo e incubo).
DISCORSO: ossia affinché il sanguis esca nel Fuori diventando cruor bisogna scegliere la sua apertura. Come formare una struttura che aderisca alle forme del genere, ma anche che non aderisca ai cliché dello stesso genere? a) Aumentando la forza dello Spannung(2), limitandosi a non clonarlo lungo le varie sequenze, (lo Spannung in effetti è sempre singolare, mai plurale), e limitarlo all’incontro della sauna, momento importante che determina una svolta; b) allargando le scene e le pause (immagini di tavole imbandite, la moto che percorre le strade piovose di una Londra “assente”, la sequenza con le minorenni fino al momento dello stupro di una ragazzina “assente”…). In particolare nella sauna, sul corpo nudo di Nickolai, sul corpo insanguinato dai tagli dei coltelli (unici oggetti ammessi perché il proiettile non apre, ma buca), il rosso rubino si mescola al nero violaceo dei tatuaggi formando un nuovo tipo di corpo: un meta-corpo che parla di sé con i simboli incisi sulla pelle e con il sangue estratto dalle vene. Appunto scegliere l’apertura. Nel segno come il significato “trasporta” aperture per far uscire il sapore dell’evento, così il significante “trasporta” sequenze sempre aperte che ci rendono il senso indefinibile della sofferenza.
IL MOSTRO: inteso come formazione di una “realtà” aliena (sentita come tale) montata da pezzi di realtà, ossia il mostro è il cinema. Ecco, Cronenberg con questo film è riuscito a farmi sentire la mostruosità del reale forzando la narrazione attraverso l’uso costante e “urticante” di corpi aperti (come corrispettivo nel mondo della carne di quello che nell’idea sono le “menti aperte”), è riuscito ad emozionarmi facendomi sentire sulla pelle la pressione mostruosa degli eventi e l’impossibilità di dominare e controllare questi eventi. La forza di questo film è la possibilità di farci sentire deboli perché in fondo durante la visione non abbiamo fatto altro che perdere sangue.

(1) "Affermata l’unitarietà della carne, quale unica trama sensibile che informa la realtà del mondo e quella del corpo vissuto, Merlau-Ponty individua però una differenza tra la carne del corpo e quella del mondo, poiché soltanto la prima è insieme sensibile e senziente. Ciò equivale a dire che mentre la carne del mondo “è eminentemente percipi”, quella del corpo è percipere, nel senso che è il sensibile cardine nel quale si compie l’iscrizione di tuti gli altri. Per questa peculiarità essenziale, il corpo è definito come “misurante universale”, “Nullpunkt di tutte le dimensioni del mondo”. (Merleau-Ponty – Filosofia, esistenza, politica, a cura di Giovanni Invitto, p. 69, Guida Editori).
In questo senso concordo con quanto detto da Chimy nella sua recensione del film.
(2) Usato in narratologia (il sostantivo in tedesco è femminile), significa tensione e corrisponde infatti, nell'ambito del reticolo narrativo, all'acme espositivo, cioè al momento culminante della vicenda
Luciano, cinemante.blogspot.com
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 14:20]
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