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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 2

Ultimo Aggiornamento: 23/04/2011 10:24
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Sesso: Maschile
29/12/2008 20:58


RASSEGNA STAMPA PARTE 2


Questo film di David Cronenberg è tratto dal dramma di David Henry Hwang, qui autore della sceneggiatura, che si ispirò ad un episodio reale, di cui furono protagonisti un diplomatico francese ed una primadonna dell'Opera di Pechino. Come a volte accade, non sempre eventi e comportamenti reali ed accertati risultano sulla scena e sullo schermo realistici e verosimili. Fatti autentici si manifestano, infatti, spietatamente del tutto assurdi e incredibili. Cronenberg ha voluto ribaltare la storia di Madama Butterfly (amata e poi abbandonata da Pinkerton, infine suicidatasi) raffrontando un Occidente, sempre colonialista nella mentalità, con un Oriente misterioso, tutto intrighi ed ambiguità, mescolando inganni e deliri, l'ossessione del corpo e le sue folli mutazioni, l'allucinazione amorosa al reale ed all'irreale. È Gallimard, alla fine, che, intrappolato nei vortici spionistici, ma soprattutto sedotto dall'altro, si trasforma in donna e teatralmente esce di scena con la morte liberatrice. Una metafora, questa di Cronenberg, che sa di scommessa e di sfida, per un film che in definitiva si ammanta di veli serici e di ambiguità e si lascia dietro una scia malsana e ripugnante. Quanto agli interpreti, Jeremy Irons nelle vesti di Gallimard ha indugiato fra passione, sorpresa, sconfitte e farneticazioni; nel ruolo dell'uomo-primadonna si produce John Lone: è levigato, delicato e sottile quanto occorre.
Segnalazioni Cinematografiche vol. 117, 1994



***

La trama
Cina. Beijing (Pechino). 1964. René Gallimard, uomo del consolato francese si reca, una sera, ad una festa dove assiste alla versione della Madama Butterfly di Puccini eseguita da una grande cantante dell’Opera di Pechino e ne rimane così impressionato che a fine rappresentazione avvicina Liling Song, l’interprete, per farle i complimenti. L’accompagna a casa dove un vecchio pescatore gli regala una libellula. Al mattino la moglie gli domanda spiegazioni per essersi ritirato tardi e lui s’inventa una scusa. La sera stessa torna a trovare la signorina Song la quale si mostra onorata ma soprattutto preoccupata per lo scandalo che potrebbe suscitare quell’incontro; René riesce ugualmente a sedurla ed a baciarla. Ad un ricevimento, alcuni funzionari dell’ambasciata minacciano Gallimard perché tenga basso il controllo sulle loro spese. René risponde alla provocazione con un aumento del controllo. Dopo diverse settimane trascorse da quel bacio, durante le quali la signorina Song gli ha scritto senza ricevere alcuna risposta, il suo atteggiamento responsabile gli frutta la promozione alla carica di pro-console e così decide di tornare a vedere Liling. Scopre, la stessa sera, che lei è vergine. In veste della nuova carica Gallimard indice una riunione con gli altri funzionari del consolato nella quale sostiene la necessità di cambiare atteggiamento nei confronti del governo cinese e della cultura locale. Ad un picnic con Liling, Renè le confessa di amarla perché sente nella sua Butterfly un senso di sottomissione che lo gratifica. Lei non può fare a meno di ammetterlo, non ostante ne riconosca il difetto. L’ambasciatore Toulon intanto, lo informa della volontà del presidente degli Stati Uniti Barry Lindon Johnson di aumentare la mole d’attacco sul Laos. Gallimard è convinto che i cinesi, per attitudine, saranno facilmente sottomettibili e che gli americani non incontreranno problemi nel vincere in Vietnam. In casa sua, Song detta importanti informazioni carpite a Gallimard ad un rappresentante del partito che gli fa notare di come alla Direzione non piaccia il metodo che sta utilizzando. Ad un altro ricevimento, René si lascia abbordare da Frau Baden, la moglie dell’ambasciatore tedesco. La notte, ubriaco, va da Liling e le chiede di mostrarle il corpo che gli ha sempre nascosto. Lei gli dice di essere incinta e lui confessa di averla tradita, pentendosi. Il giorno dopo la donna lascia la città perché come da tradizione, deve andare nel paese dei suoi genitori e far ritorno solo quando il figlio avrà compiuto tre mesi. In realtà, Song si vede con un membro del partito al quale chiede, per portare a termine la missione, di procurargli un bambino cinese biondo di quell’età. Una sera, tornando verso casa in bicicletta, René s’imbatte in una manifestazione di protesta maoista nella quale vengono appiccati i vestiti del teatro classico. Le rappresentazioni di partito hanno, infatti, sostituito quelle tradizionali e considerate conservatrici. Secondo un rapporto letto dall’ambasciatore Toulon al gruppo dei funzionari riunito in un’assemblea, i fatti sono andati diversamente da quanto Gallimard si aspettava: i cinesi, spinti dalle Guardie Rosse nate dal movimento rivoluzionario degli studenti, hanno proposto l’espulsione di tutti gli stranieri e l’America non riesce a venire a capo della situazione vietnamita. Una sera, mentre fa ritorno nel suo appartamento, Renè trova Liling sulle scale del palazzo che gli mostra il figlio ma immediatamente dopo viene condotta via da due Guardie Rosse che considerano gli artisti classici come antirivoluzionari. Qualche giorno dopo Gallimard viene dimesso dal suo incarico e Liling inviata in un campo di lavori forzati. Parigi. 1968. Gallimard è all’Opera dove assiste ad una rappresentazione della Madama Butterfly. Poco dopo, in un bar, sfoga la sua solitudine con uno sconosciuto mentre in strada avvengono duri scontri tra manifestanti comunisti e forze di polizia. Alcuni giorni dopo arriva al suo appartamento Liling con la quale finalmente Renè può congiungersi. Passa del tempo. Tre uomini lo attendono sotto casa sua mentre scende con un pacco diplomatico. Sono trascorsi difatti due anni da quando Liling lo ha raggiunto a Parigi e le carte sono state scoperte. In un tribunale, René è considerato traditore dello Stato francese di fronte alla deposizione del signor Song, in realtà una spia ma soprattutto un uomo. Incriminato e giudicato colpevole di tradimento, René è condotto in carcere assieme al suo accusatore. Durante il tragitto egli rinnega la relazione e il signor Song\Liling si sveste per mostrargli il corpo che aveva amato. Una sera, in prigione, Renè prepara la sua personale rappresentazione teatrale nella quale si mostra al pubblico di galeotti come una Madama Butterfly, con tanto di trucco e kimono. Si toglie la vita tagliandosi la gola con un piccolo specchio mentre il signor Song viene rimpatriato.

Ancora un lavoro ispirato ad un testo scritto, per l’undicesima pellicola ufficiale. Sebbene i titoli di testa fanno riferimento alla trama come ad un fatto realmente accaduto (il che non è falso, poiché l’ispirazione più prossima è quella dell’omonima pièce teatrale di David Henry Hwang, il cui soggetto, da lui adattato anche per lo schermo, era appunto un caso di spionaggio a Pechino) è importante tenere conto anche dell’omonima pièce teatrale scritta da Puccini intorno al 1900, ispirata al dramma giapponese in un atto di Long e Belasco. La storia dell’opera è già affascinante di per sé, ma la sua evoluzione, completa solo nella molteplicità delle sue versioni, è forse il primo elemento che può aver affascinato il regista: la Madama Butterfly è, di fatto, già di per se stessa un’opera mutante e Cronenberg non poteva farsi sfuggire la possibilità di contribuire con una personale interpretazione, ad un processo che vede l’opera giapponese manipolata e tramandata in così tante formule e modi differenti. La prima immagine della pellicola, dopo i titoli che appaiono fra pannelli orientali che scorrono e si sovrappongono, è quella di Jeremy Irons\Gallinard di spalle, nel suo ufficio. “Un orientale che si suicida per un occidentale, è ciò che affascina l’occidente” la dura descrizione del fascino imperialista fatta da Song, metabolizzata dall’uomo occidentale, che finisce per suicidarsi per un uomo orientale, l’assoluto ribaltamento delle posizioni, il fascino cronenberghiano dei poli opposti che si respingono. Rispetto all’opera originale pucciniana, infatti, è l’uomo ad uccidersi, e non più la donna e la cultura orientale a soccombere (“Con onore muore, chi non può serbar vita con onore” recita la Madama Butterfly di Puccini nel libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa in Giacomo Puccini – Madama Butterfly – Ed. Ricordi). Con il cambio di ruolo, attraverso il suicidio dell’occidentale, il regista conclude e ribalta l’assioma facendo vivere ad egli stesso le perversioni capitalistiche delle quali era accusato il comportamento di Liling. Ciò che forse davvero angoscia lo spettatore, è il dubbio che Gallimard sappia da subito quanto accade (già intuibile nello sguardo di Irons appena uscito all’alba dall’appartamento di Liling dopo un primo rapporto): “Anche se sarà una femmina sarò felice” dice Renè alla stazione prima che lei parta (partorisca), ponendo un dubbio che Liling subito scioglie “Sono sicura che sarà un maschio”. Una posizione scomoda comunque quella di una coppia stretta fra due codici: la panoramica a destra che svela un letto ancora immacolato ed i due che amoreggiano in un interstizio dell’appartamento; il rapporto con Liling, il loro incontro nel camerino filtrato da un velo sottile che li divide nell’attrazione, o da una grata di ferro, nel furgone, dove a cogliere Gallimard è invece un senso di colpa. Con fredda sensibilità, Cronenberg descrive due realtà, una rigida ed una rappresentante (ambasciata), caratterizzate da una forte attrazione confusa: “I francesi si divertono a fare i comunisti cinesi con la pelle bianca” dice un ubriaco quando passa il movimento degli studenti per le strade di Parigi. Non è solo nel rapporto tra i due che Cronenberg esaurisce il tema del doppio ed il relativo senso ambiguo che ne deriva, egli ricompone le parti e costruisce momenti e figure complete: riunisce, come abbiamo detto, l’Oriente nell’Occidente ma anche nell’amato l’amante (il suicidio); nel maschio la donna: “Solo un uomo stabilisce come deve comportarsi una donna” dice Liling che in un altro momento dice anche “Sono io la tua Butterfly, sotto gli abiti, al di la di tutto” e lo stesso Gallimard dice in punto di morte “Sono un uomo che amato una donna creata dall’uomo”. M. Butterfly è dunque una pellicola che riesce a parlare anche di corpi, ma senza mostrarli, fino alla fine, quando nel furgone della polizia mister Song si mostra nudo a Renè e la sua percezione del corpo che prima cambia alla vista degli abiti maschili, ma che poi torna a vedere la donna che è in lui, o almeno quella della quale si è creato un’illusione. Da questo punto di vista, M. Butterfly può leggersi come un melodramma sulla rappresentazione proiettiva dell’amore e sulla tenacia autodistruttiva delle illusioni (Il Mereghetti – Dizionario dei film 2000). La sessualità nel divenire, la maschera del corpo, la mutazione del desiderio. Ma si tratta anche di una pellicola di sottile politica (involontariamente, visto che il fatto è in secondo piano rispetto al come) che non può non guardare alla guerra del Vietnam ed ai movimenti di protesa del sessantotto, e che porta per la prima volta la m.d.p. di Cronenberg in un tribunale dove sotto giudizio, oltre all’accusa di spionaggio, c’è l’ambiguo, incorruttibile, fascino della relazione sentimentale dei due protagonisti. È la prima pellicola in assoluto di Cronenberg che non fa uso d’effetti speciali sostanziali, una pellicola che lascia al corpo la dignità che rappresenta, il piacere della pelle, la passione di un bacio. È anche la prima pellicola dove Cronenberg sembra trovarsi a suo agio nel girare gli esterni, spesso studios che ricordano la claustrofobia de Il Pasto Nudo (1991), ma con maggiore libertà narrativa e capacità di assorbire le strutture urbane (l’Opera di Parigi) e lavorare su scene con molte comparse (il carrello all’indietro sulla manifestazione maoista e Gallimard che l’attraversa). Non è un caso infatti che la lavorazione di questa pellicola ha portato per la prima volta Cronenberg all'estero: ha girato in Cina, in Ungheria e in Francia. L’ultima immagine, una porta d’aereo che si chiude, una sfumatura su un corpo\amore che si allontana. Cronenberg interrompe la lunga serie di finali sul doppio ricomposto, scegliendo la scomposizione del doppio, la separazione definitiva tra Renè e Liling. Attrazione del regista per gli insetti (la libellula consegnata a Gallimard dal vecchio) e senso della mutazione illusoria (il corpo nudo di Song, che si mostra così com’è ma che si immagina diversamente) o reale (il trucco di Gallimard; le maschere del teatro) sono quadri tematici che assicurano al regista una continuità bio-cinematografica. Prodotto da Gabriella Martinelli, lo staff è sempre lo stesso consolidatosi nelle precedenti pellicole: costumi di Denise Cronenberg, musiche di Howard Shore, fotografia di Peter Suschitzky, scenografie di Carol Spier. Unico difetto della pellicola, quello di perdere (in fase narrativa) la moglie di Gallimard che ad un certo punto scompare. È la seconda pellicola che vede Cronenberg affidare il personaggio principale a Jeremy Irons, questa volta un po’ sotto tono, ma grandioso nella rappresentazione teatrale finale, il martirio dell’amante recluso, carcerato, incatenato alla perfetta illusione (mancanza d’amore?) capace d’ingannare ed ottenebrarne la mente, tanto da disconoscere la realtà (sbagliando tutte le conclusioni sull’attacco americano in Vietnam). Molo bravo anche il suo compagno John Lone. Una specie di richiamo ai lavori passati, una frase di Liling\Song “Non esiste il destino, tranne quello che noi creiamo per noi stessi”, parole che sembrano prese direttamente da La Zona Morta (1983). Il lungo dolly che svela, con panoramica destra mista, il primo piano di mister Song\Liling nel campo di lavori forzati, ricorda, per luce e colori, l’inizio di Spartacus (1960) di Stanley Kubrick. Sul medesimo tema di M. Butterfly uscirono nello stesso periodo anche La moglie del soldato (1992) di Neil Jordan e Addio mia concubina (1993) di Chen Kaige, entrambi molto belli.
Mario Bucci, cinemah.com



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Attraversare il corpo con l’affilata lama della seduzione, guardare il corpo come oggetto sensuale e come scopo dell’innamoramento svincolando ogni desiderio dal banale e quotidiano sentire carnale. Cronenberg con M. Butterfly abbandona i fantasmi dell’orrore canonico aprendo il vaso di Pandora del voyeurismo introspettivo. Lo fa attraverso una ricerca della bellezza del corpo che prescinda da qualsiasi quotidiano ammiccamento, scardinando ogni fuorviante pretesa che tutto voglia ricondurre al semplice scambio sessuale. È la malattia del corpo l’ossessione di Cronenberg, che con M. Butterfly sconvolge il proprio immaginario solidificandone la struttura, depurando ogni accidentale elemento orrifico e anzi utilizzando la forma del melodramma e per contro salvaguardando ogni possibilità di perdizione connaturato ad ogni personaggio cronenberghaino che smarrisca la propria ragione nella ricerca dell’assoluto in quell’unità corporea (anche disfatta), come già era accaduto a Brundle (La Mosca) o ai gemelli Mantle (Inseparabili). Solo attraverso una interpretazione che superi i modelli conosciuti del sentimento, quelli che si sviluppano attraverso il desiderio sessuale, sia esso etero o omosessuale, si entra nell’universo cronenberghiano che fa a meno di questi elementi per giungere al perfezionamento di quella nuova carne su cui il suo cinema ha, da sempre, alacremente lavorato. M. Butterfly lungi, quindi, dal diventare una banale opera sul travestitismo, o peggio, sull’omosessualità, può essere accolta come un ennesimo viaggio all’interno della fenomenologia del corpo, che si fa manifesto nella forma della maschera e che diventa sublime in quel vivido sentire il corpo altrui al di fuori della materia, al di fuori del sesso per percepirne le frequenze cerebrali che dalla dissonanza si modulano poi nella stabile assonanza delle interiori vitalità per giungere all’unità, fino al delirio esistenziale come accade al povero Gallimard perduto nel vaneggiamento amoroso e nella sua consapevole allucinazione del corpo d’amore lungamente inseguito, raggiunto e definitivamente inafferrabile.
Tonino De Pace, sentieriselvaggi.it



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Una storia vera, anche se tratta da una pièce teatrale.
Jeremy Irons è uno di quei piccoli funzionari, più dotati per i giochi mondani, le infatuazioni ed i rischi dell'adulterio che per le analisi politiche, dei quali il mondo diplomatico non è mai stato avaro. Anche se in Cina mancano pochi giorni alla Rivoluzione Culturale, il nostro sembra piuttosto attratto dal fascino di una cantante cinese che si cimenta all'Ambasciata svedese in alcuni brani della Madama Butterfly. Tanto da seguirla, nei giorni seguenti, in quell'Opera di Pechino che gli garantisce maggiori approfondimenti - tragicamente approssimativi, come osserveremo meglio in seguito - e ben altre autenticità. Lui insiste, lei cede: anzi, per dirla alla cinese, gli "fa dono della propria vergogna".
Perché no: conoscendo gioie e dolori delle sottomissioni di tante Butterfly al crudele padrone bianco. Se non fosse che le cose si guastano, prima ancora d'incominciare: e che si guastino (ed assieme a loro, fatalmente, il film) è subito noto anche ai più distratti fra gli spettatori. Che non hanno nemmeno dovuto attendere Addio mia concubina di Chen Kaige, per essere edotti del fatto che le prime donne dell'Opera cinese sono sempre state dei - almeno per l'anagrafe - maschietti. Ma che le immagini di M. Butterfly (forse incrudelite dal doppiaggio in italiano?) privano clamorosamente di ogni dubbio invero sacrosanto: quell'ombra di baffetti, che la spettacolare nitidezza della mitica fotografia alla Cronenberg rende ancora più evidente, senza contare qualche mossa che fatalmente tende a trascendere in mossetta.
Ma non è finita: poiché Butterfly è una spia al servizio del regime, i nostri due si ritroveranno anni dopo in un tribunale parigino. E ancora, Jeremy Irons, sembra non essere molto in chiaro su una situazione pur protrattasi per anni: non ha mai visto la sua amante nuda ("anche la più dolce delle epidermidi diventa come cuoio quando l'uomo la tocca troppo spesso", diceva lei...), ma il boccone è un po' duro da ingoiare, anche per il più disponibile fra i cinefili in sala. E per i giudici: che difatti si premurano di affibbiare l'espulsione al cinese, e sei anni al nostro povero diplomatico.
C'è insomma un clamoroso errore di casting, all'origine del pasticcio di M. Butterfly? Pare incredibile: tanto la scelta di John Lone (il pur bravissimo protagonista de L'ultimo Imperatore di Bertolucci e di L'anno del dragone di Cimino) pare inappropriata, se si trattava di coinvolgere lo spettatore nell'equivoco in cui cadeva l'appassionato - anche se un poco ciolla - Jeremy Irons. Poiché non è difficile comprendere cosa abbia sedotto - in questa storia di sentimenti che dovrebbero andar ben oltre le apparenze, il corpo e la materia - il gran prestidigitatore di Inseparabili.
Come nel fulgore di quella storia sui due gemelli ginecologi - che molti ricorderanno - anche la forza dei personaggi di M. Butterfly si trasforma in fragilità, la debolezza in energia di sopravvivenza, la consapevolezza in determinazione: tutti gli elementi del film - drammaticamente eguali e diversi al tempo stesso - s'incrociano, si misurano e s'invertono. M. Butterfly - proprio come nel cinema del regista canadese che lo precede - si fa allora meditazione sulla relatività delle apparenze.
Grazie all'uso dell'ellissi, che è poi quella del dire fra le righe, di far viaggiare "oltre le apparenze" la fantasia dello spettatore fino al prolungamento del "non detto": il corpo della donna, che indoviniamo senza mai scorgere, si tratti poi di un esame ginecologico o di un incontro sessuale. Gli strumenti chirurgici di Inseparabili, mostruosi e misteriosi, che non vedremo mai all'opera. Ed il contatto con la carne, che da sempre è l'elemento portante del cinema del regista.
Il cinema di Cronenberg nasce dalla fascinazione per la duplicità, l'amore per l'illusione, le contraddizioni fra lo spirito e la materia: l'ambiguità della Carne come ambiguità morale. Ma perché ciò avvenga occorre che le immagini del film trasmettano quella medesima ambiguità che attrae, perde e finisce per redimere i protagonisti di Cronenberg: ciò succede in M. Butterfly solo verso la fine. Quando, appunto, i giochi sono ormai fatti, quando i dubbi così mai governati all'inizio del film non preoccupano ormai più lo spettatore. Allora, e soltanto allora, le immagini del film acquistano quella forza drammatica, quella commozione dietro al cinismo della raffinatezza compositiva, alla quale ci aveva abituato la duplicità dell'universo di Cronenberg. E la musica di Puccini, fino ad allora relegata nel solo titolo, può inondare un finale tra il grottesco e lo straziante: l'hara-kiri del diplomatico ormai travestito, in quella Butterfly più raggiungibile di un amante che si allontana in jumbo jet.
2.rtsi.ch



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[…] Questo film apparentemente così lontano da tutti gli altri di Cronenberg, ad un'analisi più approfondita risulta cronenberghiano al 100%. Come in tutti i suoi film ha una struttura a domino: la storia ruota intorno ad un evento scatenante che cambierà per sempre la vita del protagonista e che spazzerà via ogni suo equilibrio fino a distruggerne l'identità.
Basti pensare al teletrasporto ne La Mosca, l'amore per una donna in Inseparabili, l'incidente automobilistico in Crash fino ad arrivare all'ultimo A History of Violence, dove la tessera iniziale del domino è un semplice furto in un bar.
In M. Butterfly, il tassello iniziale non è altro che la visione della Madame Butterfly da parte di René Gallimard, che gli aprirà una ingannevole finestra sul mondo orientale, in cui il nostro eroe perderà se stesso e la propria identità.
Il protagonista del film è un eroe cronenberghiano a tutti gli effetti, un Jeremy Irons magnifico è un mix tra i due gemelli degli Inseparabili che dice molto più con gli sguardi che con le parole. Seppur omogenea al complesso della sua opera, Cronenberg decide di raccontare questa storia in modo diverso, senza puntare sulla fisicità, ma sull'interiorità, sull'anima dei personaggi, soffermandosi sui primi piani e sugli sguardi. La telecamera si muove lentamente in modo quasi rassicurante insistendo su panoramiche interminabili, procedendo inesorabilmente di pari passo col degrado del personaggio principale.
E' facile interpretare il film come un monito a tutta la società occidentale, e ai risvolti catastrofici che un certo tipo d'approccio a culture diverse può provocare. Indicativa la scena in cui un Renè ormai sconsolato assiste alla rivolta studentesca di Parigi, dove i giovani francesi scimmiottano i loro "colleghi" cinesi. Anche loro catturati da un ideale di cui ignorano le conseguenze.
Renè rappresenta l'occidente in tutta la sua superficialità, che si avvicina ad una cultura diversa sicuro della propria superiorità; si trova nella Pechino del 1964, è un borghese di Francia dalle salde certezze e dall'evidente benessere, economico e sentimentale, richiamato in Cina dall'ambasciata transalpina a scoprire gli sperperi di denaro perpetrati dai colleghi diplomatici.
Appena arrivato, Gallimard, all'apparenza timido burocrate, si lancia, senza la premura di assicurarsi vie di salvezza, nelle due opere che lo porteranno alla sua caduta professionale e umana.
Professionalmente parlando Gallimard è costretto a scontrarsi con il mondo dell'ambasciata, desideroso di ben figurare inizia ad indagare sui vari sperperi attirandosi l'astio dei sui colleghi, ma questo lo porterà a raggiungere il punto più alto della sua vita professionale arrivando ad ottenere la carica di vice console.
Da qui in avanti inizierà la caduta. Infatti Renè è convinto di aver carpito tutti i segreti della cultura cinese ed asiatica, ma la sua è una conoscenza da romanzo d'appendice che non ha alcuna base, se non quella dei luoghi comuni e dei melodrammi. Non c'è alcuna differenza per lui tra vietnamiti e cinesi, come nel caso della Madame Butterfly in cui accomuna giapponesi e cinesi. Scambiando per verità le sue allucinazioni causate da una visione blanda e superficiale dei rapporti tra Oriente e Occidente si lascia andare a fantomatiche previsioni geopolitiche. I movimenti studenteschi del 1968 spazzeranno via Renè e le sue certezze, che si ritroverà costretto a fare il corriere diplomatico travolto dagli eventi e dalla storia.
Ma il punto di non ritorno, il picco di presunzione Gallimard lo raggiunge volendo far sua la cultura cinese con gli occhi gonfi di leggende e luoghi comuni. E' qui che la storia muta in tragedia ed è qui che si concentra tutta la poesia del film.
Accecato dalle sue convinzioni intraprende un viaggio senza ritorno all'interno della tradizione cinese, in cui però le nuove conoscenze non devono far altro che confermare quella che è la sua visione. Ed è questo Renè Gallimard che si innamora di Song, un Gallimard incapace di vedere al di là del suo falso sapere.
Song (interpretata da un immenso John Lone), cantante d'opera, viene eletta da Renè come suo Virgilio in quella Cina costretta ad essere la fotocopia della Cina da lui immaginata. Ma la supponenza di Renè non si ferma qui, non si accontenta di accogliere in sè il senso di una cultura millenaria, lui vuole di più... vuole farsene salvatore.
Ed è da questo fervore che scaturisce un sentimento d'amore, un sentimento cieco, in cui Gallimard fantastica d'aver trovato l'amore perfetto e progressivamente perde se stesso, la propria identità diventando una caricatura, non più una persona ma un personaggio. In questo stato di allucinazione si possono spiegare gravidanze altrimenti inconcepibili, atti sessuali privi di ogni senso.
Splendida la sequenza all'interno del furgoncino della polizia, in cui Gallimard e Song/Uomo sono costretti al confronto, la vittima e il suo carnefice... Song dinanzi a Renè mette a nudo con cinismo assoluto non solo se stesso, ma tutta la fantasmatica "realtà" tanto desiderata.
La pellicola non può che concludersi in maniera circolare, finire come era iniziato il tutto, ma questa volta non è Song a cantare nell'improvvisato teatro dell'ambasciata svedese, ma Renè in uno stato quasi di trance che in uno squallido teatro di una prigione inscena la sua personalissima Madame Butterfly tra gli stereotipi di un oriente da cartolina.
Renè giunge alla fine del suo sogno vaneggiante, all'interno di un meccanismo di perenni mutamenti d'identità, a questo punto inconsci ma inseguiti, paranoici eppure consapevoli... la sua rappresentazione non può che finire con il suicidio. Non sono la vergogna o il disonore i motivi che lo portano al suicidio, ma l'annullamento della propria identità, la perdita di quel mondo cosi tanto agognato e cercato.
"Ho una visione dell'oriente, vedo che dentro i suoi occhi a mandorla ci sono ancora donne disposte a sacrificare la propria vita per amore di un uomo, anche di un uomo il cui amore è assolutamente privo di valore. Morire con onore è meglio che vivere nel disonore. Così, alla fine, in una prigione lontano dalla Cina, io l'ho trovato. Mi chiamo Renè Gallimard, conosciuto anche come Madama Butterfly."
filmcoop.it



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Renè Gallimard è un diplomatico che lavora presso l'ambasciata francese nella Cina pre-rivoluzione maoista. Cercando di incontrare il sentimento orientale, decide di partecipare ad una rappresentazione della Madama Butterfly, la celebre opera di Puccini che mette in atto l'amore tra un militare e una donna cinese. Gallimard rimarrà fulminato dalla bellezza (fisica e vocale) di una giovane soprano di cui si innamorerà perdutamente. Dopo averla messa incinta, lei scapperà nel villaggio natale per partorire al fianco dei genitori, mentre Gallimard è costretto a tornare a Parigi. Al suo ritorno sarà però coinvolto in un processo in cui lo si accusa di aver fatto trapelare informazioni segrete. Scoprirà quindi che in realtà non solo la giovane soprano era una spia, ma addirittura era un uomo.
Tratto da una piece teatrale firmata da David Henry Hwang e ispirato a fatti realmente accaduti, M. Butterfly ha tutti gli elementi per poter essere definito come un melodramma in costume. Volendo essere precisi la frase corretta da utilizzare dovrebbe essere: «[...] avrebbe tutti gli elementi per poter essere definito come un melodramma in costume». Dico avrebbe perché il regista di questo film è David Cronenberg. I più penseranno ad un film su commissione, eppure dopo averlo visto penserete decisamente il contrario. Perché dunque un autore horror come lui dovrebbe cimentarsi con questa spy-story sentimentale all'orientale? Tutta colpa degli insetti e delle loro trasformazioni. Cronenberg è diventato famoso con la celebre mutazione dello scienziato in una mosca, qui invece ci parla di una farfalla difficile da catalogare (la M puntata del titolo è molto sibillina: Madame o Monsieur?). Trattando il materiale secondo i classici canoni della storia d'amore, Cronenberg in realtà ne vuole smascherare la caducità e al contempo innalzare agli onori l'immagine dell'amore. Gallimard infatti non si innamora della soprano in quanto tale, ma in quanto Madama Butterfly. Un personaggio dunque, un'idea. Ed è proprio quel che si può definire amore cieco quello di Gallimard: un amore dove le apparenze non servono perchè non si è innamorati di un corpo (e forse è per quello che Gallimard non capisce/non vuole capire che in realtà la sua amata è un uomo) ma di un personaggio. Una farfalla quindi che non aspetta altro di mostrare la sua vera identità, di uscire dal suo bozzolo. Ed è proprio la sua rinascita ad essere il centro di due delle sequenze chiave del film. Nella prima la soprano si rivela come uomo a Gallimard all'interno del furgone della polizia, lui naturalmente non la riconosce in quanto Madama Butterfly, lo considera un estraneo nonostante anche lui abbia ben chiara la realtà. Ma è nell'ultima sequenza (che è anche la scena finale del film) che la mutazione prende forma definitiva. Se per lo scienziato de "La mosca" era un errore a farlo mutare, Gallimard è così innamorato dell'immagine della donna che ha amato da vestirsi e truccarsi come lei. Il gesto finale del suicidio è una profondo atto d'amore, come se in un corpo solo i due amati hanno lasciato questa terra, questo loro bozzolo.
Cronenberg tratta con freddezza la materia melodrammatica, tenendo la a distanza da quelli che sono i temi centrali della pellicola (mutazione e doppio), come a non voler contaminare di facili sentimentalismi un ragionamento ben più complesso sull'amore e sulla follia (che per il regista canadese vanno spesso a braccetto). La regia è misurata, classica nel suo incedere, capace di raccogliere le minime variazioni di un ottimo Jeremy Irons, che nasconde sotto un'apparente recitazione distaccata, una delle sue migliori interpretazioni.
M. Butterfly è un'opera interessante, quasi una pecora nera nella filmografia di Cronenberg. E come ogni pecora nera rimane un poco nascosta al grande pubblico. Ma gli spettatori più attenti non mancheranno di lasciarsi sfuggire l'occasione di vedere un Cronenberg diverso, eppure mai così convincente.
Matteo Contin, pellicolascaduta.it
[Modificato da |Painter| 23/04/2011 10:24]
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