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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 6

Ultimo Aggiornamento: 08/12/2010 15:52
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Sesso: Maschile
09/03/2008 21:31

RASSEGNA STAMPA PARTE 6


Cronenberg deve essersi assai divertito ad insinuare nello splendente Aragorn l’esistenza di un lato oscuro, già in A History of Violence lo spettatore si trovava di fronte un Viggo Mortensen che non riconosceva, forse criminale o forse no, che alla fine risultava non soltanto un killer, ma anche più interessante, intanto perchè meno splendente, poi anche perchè di gente senza macchia non è che ce ne sia poi tanta in giro di questi tempi. Viggo aveva ceduto al lato oscuro e si era pure divertito a farlo. In questo nuovo attesissimo lavoro di Cronenberg, l’attore non solo è un mafioso dall’inizio della storia, ma mostra dei tatuaggi che collimano poco con l’idea dell’eroe senza macchia, non ha più armature né cotte di maglia, e non si batte per un regno o per un anello, ma per la propria vita, senza nessuna armatura, anzi nudo in una sauna con due tipacci che neanche gli orchi di Jackson riescono ad eguagliare in fatto di pericolosità. Il corpo che egli espone allo sguardo stranito dello spettatore, che di mafia russa a Londra sa di certo pochissimo, è ricoperto di tatuaggi che raccontano la sua storia, e questa di storia non l’ha scritta di certo Tolkien.
Ma procediamo per ordine: l’infermiera Anna, una Naomi Watts che fatica un po’ a smettere di preoccuparsi, incappa in un mistero che coinvolge una ragazza giovanissima morta di parto, un neonato ed un ristorante di proprietà di gente molto pericolosa. Si mette sulle tracce di Kirill, un Vincent Cassel che meglio sarebbe stato evitare, talmente è stronzo e pure un po’ sopra le righe, e scopre cose che voi umani non potreste immaginare. Viggo/Nikolai è l’autista del figlio del capo, sfoggia uno sguardo d’acciaio e una recitazione da antologia, e riesce incredibilmente ad essere gelido ed umano nella stessa inquadratura, senza neanche battere ciglio. La vecchia ossessione per il corpo del geniale Cronenberg qui striscia sottile all’interno della storia e silenziosamente si impossessa delle inquadrature più potenti, a cominciare dal primo omicidio, che parrebbe un’ispirazione da vecchi gangster movie, ma invece nasconde il senso del taglio di una gola, mettere a tacere chi parla troppo. Poi abbiamo la scena della prova di virilità di Nikolai, richiesta da un Kirill che sembra sottintendere un interesse di natura omosessuale non dichiarato, anzi negato con violenza, nelle attività sessuali del suo sottoposto. Scena, questa, che oltre a passare attraverso l’esposizione di corpi maschili e femminili, rivela tutta la stanca accettazione da parte di Nikolai dei rituali all’interno di un’associazione tribale quale la mafia, russa o meno conta poco. E’ poi la volta della già famosa scena della sauna, e su questa sequenza occorre spendere qualche parola, in primo luogo perchè l’abilità registica riesce nel difficile compito di mostrare una lotta primordiale tra corpi di cui uno nudo e due vestiti di tutto punto, senza irritare la censura e senza sfiorarne neppure da lontano il ridicolo. Poi c’è da dire che il continuo mostrare senza un attimo di tregua coltelli che affondano nella carne di tutti, anche in punti delicatissimi come un occhio, rimanda alla passione per lo scardinamento dei corpi che Cronenberg si porta dietro da molto tempo, e che tutti gli amanti del suo cinema ormai si aspettano da ogni sua pellicola. In ultimo è difficile non notare il sottotesto che passa un’informazione vitale come quella che il passato non solo non si cancella, ma ti rende riconoscibile attraverso i segni che lascia sul tuo corpo, senza neanche dire una parola. Il corpo in Cronenberg, e in questo caso anche in Nikolai, parla da solo e da solo ti condanna se tale è il caso, senza troppi complimenti. Così come è ancora una volta la debolezza della carne del piccolo grande figlio del capo, che non solo lo caccia nei guai, ma ne costringe il padre, boss e demiurgo di tutto quello che accade nella storia, a far salire di grado l’autista all’interno dell’organizzazione per controllare meglio gli eccessi di suo figlio. Ed infine il corpo di Anna, che aveva abortito un feto in precedenza, segnerà in silenzio il destino dello sfortunato bambino senza nome, che verrà ad insinuarsi in quel posto vacante nel cuore di lei, e che la spingerà a cercare una storia così, solo per placare il dolore di un’ingiustizia mai neanche raccontata.
Cronenberg riesce in questo modo ancora una volta a coniugare una storia avvincente con una regia impeccabile, e attraverso il solo magistrale uso degli attori, che paiono tutti talmente nella parte da suggerire una precedente incarnazione come mafiosi russi trapiantati, o infermiere sfortunate, ci regala un convincentissimo aggiornamento del thriller di ambientazione mafiosa, senza mai neanche citare alla lontana i numerosi illustri precedenti, e insinuando nello spettatore l’idea che la raggiunta maturità del regista di Toronto non soltanto sia arrivata da tempo senza clamori né fanfare, ma che non possa esser messa in discussione neanche stavolta e, se è per questo, in nessun’altro dei suoi riuscitissimi ultimi film.
Anna Maria Palella, offscreen.it



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Anna e Nikolaj non potrebbero essere più diversi: vivono entrambi a Londra dove l’una è ostetrica in un ospedale e l’altro è l’autista tuttofare al servizio di un boss della mafia russa e di suo figlio Kirill, proprietari di un ristorante. Li accomuna l’origine russa che per lei è retaggio lasciato alle spalle, mentre per lui è motivo di orgoglio e di appartenenza, testimoniato dal modo di parlare e dai tatuaggi sul corpo. Le loro esistenze si incrociano quando Anna, depositaria del diario di una giovanissima russa morta dando alla luce una bimba, si rivolge al principale di Nikolaj sperando di scoprire la verità e di poter rintracciare la famiglia della neonata. Questo suo gesto si rivelerà un passo falso che la porterà ad apprendere verità scomode e pericolose.
Quello che sorprende di questo film così cupo, fosco e sovente crudo è l’attenzione alla psicologia dei protagonisti: la descrizione accurata dei rapporti che intercorrono fra i personaggi e le allusioni al loro passato ci permettono di comprenderne la natura. Nikolaj è un ex ladro, desideroso di entrare a far parte dell’organizzazione mafiosa; è un personaggio controverso e ambiguo, freddo e impenetrabile: parla poco, mescolando russo e inglese; per lui parlano i numerosi e suggestivi tatuaggi che sul suo corpo “narrano” la sua vita. Anna ha perso il padre, vive con la madre ed è recentemente uscita da un relazione difficile: è un personaggio complesso e la sua ossessiva ricerca della verità nasconde un dramma molto personale. Kirill è invece un poco di buono che ha un rapporto conflittuale e difficile col padre al quale sembra sempre che debba dimostrare qualcosa.
Sotto la trama tesa e complicata di una sorta di romanzo criminale sembra sempre viva l’attenzione ai caratteri, agli aspetti intimi degli individui: sembra delinearsi un motivo di fondo del film e pare di leggere nelle scene, nei dialoghi, nelle situazioni un bisogno di famiglia e una forte esigenza di appartenenza. Nikolaj per entrare nella “famiglia” della mafia rinnega i propri genitori e rinuncia ad una normalità che intravede in Anna; quest’ultima cercando una famiglia per la piccola Kristine in realtà cerca un nucleo per sé; Kirill, che sembra il personaggio più violento e oscuro, stenta a farsi accettare dal padre dispotico. In questo mondo crudo e spietato la famiglia pare un miraggio negativo e positivo allo stesso tempo: in nome di essa si possono compiere nefandezze e tradimenti, ma si tende proprio ad essa alla ricerca di una tenerezza e di una normalità sconosciute. Cronemberg offre tutto sommato una seppur amara speranza, che fatica a emergere fra le violenze e le nefandezze raccontate.
Rosalba Ferrara, isolitiignoti.it



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Un passo indietro rispetto a A History of Violence non è certo una bocciatura, anzi: il nuovo film di Cronenberg stavolta gioca con lo spettatore in modo meno manifesto, più freddamente, senza conforto o soddisfazione. Il che spiega perchè, a prima vista, si rimanga piuttosto disorientati, frustrati, se non delusi da questo Eastern Promises: un film che gioca coi clichés fin quasi a renderli topoi, ma all'interno di una struttura narrativa che rispetto al cinema classico più volte rievocato rifugge la risoluzione finale e il compimento del destino dell'eroe. Ma che, in fin dei conti, è esattamente quel che Cronenberg si propone di fare.
Un percorso gelido e frustrante, come quello del falso protagonista Nikolai (Viggo Mortensen), prigioniero nella terra di nessuno di una mafia russa in superficie irreprensibile, suo malgrado vittima di una doppia identità che a tratti spunta in superficie e lo rende incompiuto come personaggio; e per contrasto, maledettamente lineare nella fabula affidata alle sorti di una ragazza, Anna (Naomi Watts), non a caso di origini russe, ostetrica decisa a rintracciare i parenti naturali di una bambina nata orfana, via via sempre più invischiata in un meccanismo di sopraffazione e violenza che rifugge per principio il legame naturale e la filiazione diretta (come nella scena in cui Nikolai, da semplice autista, diventa affiliato della "famiglia" in un rituale che prima di tutto lo spoglia della propria individualità e lo riveste di quei tatuaggi pregni di una significanza ulteriormente menzognera).
Intorno a loro, la più archetipica delle storie noir di ascesa al potere, tradimento, figli non all'altezza dei padri (anche qui, l'innaturale antilinearità del legame di sangue è segno tipicamente cronenberghiano) è contraltare necessario per destrutturare dall'interno una vicenda il cui principale interesse è, ancora, la riflessione sulla violenza come forma di potere e come elemento insito, volente o nolente, nell'anima e nel sangue dell'uomo.
La messa in scena di Cronenberg (con l'eccezione della formidabile esplosione di violenza nella sauna) è raggelata e priva di effettistica, antispettacolare come sempre: ci si stupisce, a volte, della fama che è riuscito a ottenere presso il grande pubblico, eccezion fatta per il suo gusto nei dettagli gore che è figlio dei suoi esordi horror come del suo stile diegetico al cento per cento (mostrare, sempre, comunque). Il che respinge, ma attrae al tempo stesso: e permette, a posteriori, di ammirare il prodotto nella sua interezza e di constatare, come altre volte è successo nei precedenti capitoli della filmografia del regista canadese, che ogni tassello del puzzle sia sempre esattamente al suo posto.
Stavolta, se mai, lascia l'amaro in bocca la Watts, vero punto debole, "prigioniera" anche lei, ma solo della banalità della propria parte (e sinceramente, non crediamo che l'attrice australiana dia mai il meglio di sé quando, anziché lavorare sopra le righe, è chiamata ad agire di sottrazione per infondere linfa vitale al proprio personaggio); mentre il finale, a differenza di quello palesemente non all'altezza di A History of Violence, stavolta è tagliato con l'accetta e abbandona Nikolai a un destino compiuto da tempo. Frustrando ancora lo spettatore, quasi bloccando la "digestione" del prodotto e costringendo a ritornarvi su più volte, col senno di poi. Ma solo per constatare che, se lo stomaco non è stato appagato dall'adrenalina di quello che all'apparenza resta un thriller, la testa non può che prendere atto di un progetto che geometricamente è rigoroso e compiuto. E, nonostante qualche difetto, rischia di essere (molto) sottovalutato.
Gianluigi Ceccarelli, zabriskiepoint.net



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Una ragazzina sporca e vestita male entra in una farmacia. Chiede aiuto. Vuoi del metadone? – domanda una voce. La ragazzina sviene in una pozza di sangue che si forma tra le sue gambe.
Emorragia interna. La ragazzina è incinta, viene ricoverata. Nasce una bambina, la madre muore. Assiste al parto Anna (Naomi Watts), un’ostetricia di origini russe. Anna trova un diario, nel quale la ragazzina aveva scritto parte della sua vita. Nel diario c’è anche il biglietto di un ristorante. Anna vi si reca per chiedere notizie sulla ragazzina e la sua famiglia. Il padrone del ristorante, Semyon, occhi di un blu intenso, sembra un tipo affabile e tranquillo. Dice che non ne sa niente e si offre di tradurre il diario, scritto in russo.
Le pagine di quel diario sono piene di promesse. Quelle che vengono fatte a tanti adolescenti dell’est e non solo. Le promesse di un mondo migliore, il nostro occidente. Le promesse di una vita più bella, semplice, lontana dalla miseria.
Le pagine di quel diario sono piene di orrori. Della realtà del nostro occidente. Di ragazzine che vengono comprate, stuprate, drogate, trattate come spazzatura. Spazzatura bianca.
Dalle pagine del diario emerge che il padrone del ristorante e suo figlio non sono proprio delle brave persone. Quel diario potrebbe essere una prova contro di loro. Quel diario deve essere ritrovato e distrutto e con esso la voce di quella ragazzina.
Questo compito verrà affidato a Nikolai (Viggo Mortensen, straordinario), apparentemente l’autista del figlio di Semyon, Kirill (Vincent Cassel), in realtà un factotum della mafia russa.
Cronenberg allarga la sua ultima riflessione sulla violenza (A History a Violence) ad una visione della società che essa ha generato. Un mondo in cui i deboli non hanno possibilità di farcela e in cui le regole sono dettate da chi è più forte. L’ambiente malavitoso, quello della mafia russa a Londra, perde qualsiasi connotazione romantica o morale per diventare un’espressione dei più bassi istinti animali. Violenza e sopraffazione. La donna come mero oggetto sessuale, come corpo da riempire. Il sesso diventa manifestazione maschile della propria eterosessualità. Si scopa per non essere visti come froci. Tra i malavitosi non esiste più un codice o delle regole. Si uccide, si tradisce, si vende in base ai propri interessi. Padri e figli in contrasto tra di loro.
Cronenberg parla di un mondo chiuso in se stesso, regolato dalle leggi della sopravvivenza. Nel quale l’unico atto morale (salvare la vita di una neonata) avviene più come un gesto di obbedienza a un nuovo capo che come una libera scelta.
Il regista sembra anche aver acquisto una scrittura filmica di rara sobrietà ed eleganza visiva. Si allontana dagli elementi più raccapriccianti della sua filmografia precedente (a cui però non rinuncia totalmente, soprattutto nelle scene degli sgozzamenti) per una messinscena più chiara, trasparente, nitida. In cui le immagini diventano portatrici, in alcuni casi, di un crudo realismo (la nascita della bambina, il bordello, la sauna). Immagini esplicite, dunque, dense di significati ma allo stesso tempo facilmente intellegibili. La loro natura filmica viene comunque ricordata, nel resto della pellicola, dall’uso della luce e dal lavoro svolto sulla fotografia. Con i colori lividi degli esterni, dell’ospedale, della casa di Anna e quelli pastosi, caldi, barocchi del ristorante di Semyon, ambiente elegante che maschera con la sua opulenza i veri affari della sua famiglia.
Cronenberg continua anche, teoricamente, a rappresentare la violenza in maniera diretta, senza mediazioni. Quindi con un effetto disturbante, che fa star male. Assistere al dolore causato o provocato (la sequenza nella sauna su tutte) trasmette allo spettatore una sensazione di disagio fisico, in cui il distacco dalle immagini sembra essere azzerato, senza misure di sicurezza (come l’ironia o la stilizzazione), proprio per svelare la vera natura delle esplosioni di violenza. E i loro devastanti effetti.
Viene anche portato avanti il discorso sul rapporto tra corpo e scrittura. Nel Pasto Nudo, per esempio, era la macchina da scrivere a trasformarsi in un ibrido inquietante, a mutare in un corpo alieno. In Eastern Promises è il corpo di Nicolai, invece, ad essere come una sorta di libro sul quale, attraverso i tatuaggi, si può leggere un’intera vita. Il corpo diventa la pagina, gli aghi la macchina da scrivere. I tatuaggi diventano la memoria, la storia della propria esistenza. In questo ultimo lavoro di Cronenberg sembra che la scrittura abbia un potere rivelatore assoluto. Le parole e quindi i segni e con essi le immagini diventano lo strumento della narrazione, intesa come mezzo per portare alla luce la crudeltà e la violenza degli uomini. Cronenberg non regala molte speranze, tratteggia un mondo chiuso nei propri meccanismi e lascia allo sguardo fisso di Nicolai, seduto nel ristornate (ha preso il posto di Semyon?), il peso e l’angoscia di un futuro, forse, immutabile.
Emiliano Bertocchi, kultunderground.org



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Dimenticatevi subito il titolo “all’italiana”, La Promessa dell’Assassino, davvero fuorviante, solita ottusità nostrana per invogliare alla visione gli spettatori di grana grossa. Dimenticatevi anche, ma non troppo, il Cronenberg disturbante e ipervisionario di Videodrome e La Mosca, de Il Pasto Nudo e di Crash. Dimenticatevi di tante cose ma non scordatevi che l’ultimo Cronenberg è sempre Cronenberg, pur riaggiornato a temi e modalità espressive che si insinuano da differenti angolature sotto pelle rispetto al passato. Proprio come il Demone da cui tutto cominciò. Anche Eastern Promises, come il precedente A History of Violence, è un film che cela le sue metaformosi - un tempo manifeste, tanto da restare nell’immaginario come la cifra stilistica più riconoscibile del cinema del cineasta canadese – nei territori invisibili dell’anima, evidenziando solo su pelle (gli innumerevoli tatuaggi del protagonista) il marchio del cambiamento, della trasformazione. Dall’horror al noir, dall’onirico al realistico, il cinema di Cronenberg non solo non sembra risentirne, ma si fortifica nel trovare una dimensione rappresentativa ancor più singolare e caratterizzante: le metamorfosi interiori sono decisamente più angoscianti, per certi versi più terrificanti di quelle esteriori.
Storia di mafia russa, di faide interne, in una Londra cupa e desolata, scenario della morte di un’adolescente dell’est comunque in grado, prima di spirare, di dare alla luce una bambina. Vita e morte si intrecciano in pochi secondi, incontrando l’attenzione dell’ostetrica Anna (Naomi Watts), talmente colpita dall’evento tanto da mettersi in cerca dei parenti della sfortunata ragazza. L’unico indizio è un diario intimo e personale scritto in russo, lingua delle sue stesse origini ma affatto conosciuta da Anna, che porta l’ostetrica in un ristorante che ben presto scoprirà essere la base di attività criminose. Il proprietario è un feroce boss della mafia russa, evocato più volte nel diario della ragazza per averla stuprata, ancora vergine, senza alcuna pietà. Di qui la ricerca, attraverso le parole contenute nel diario, delle tracce lasciate in vita da una delle tante ragazze venute dall’est a cercar fortuna in occidente, allettata da false promesse e inevitabilmente preda di coloro che sono pronti a sfruttare la giovane innocenza. Sulla ribalta muovono più personaggi: il boss, suo figlio, l’ostetrica e Nikolai, un misterioso autista del clan mafioso pronto a fare il grande passo: attraverso il rituale delle stelle tatuate sul petto entrare nell’onorata società. Ma del freddo e spietato Nikolai sapremo poco o nulla, capiremo soltanto che ha un passato che lo ha segnato. E che questi segni, abilmente dissimulati, lo accompagnano nel presente come tasselli di un enigma esistenziale che edifica su due opposti: pietas e violenza.
Eastern Promises, quindicesimo lungometraggio di uno dei più geniali artisti contemporanei della settima arte, prosegue sulla falsariga del nuovo corso cronenberghiano, quello che con A History of Violence sposò il noir – come in precedenza aveva sposato l’horror metamorfico – per parlarci di altro, di equilibri-squilibri assai più sottili. Eastern Promises e A History of Violence si incontrano a metà strada, li dove sopraggiunge il dubbio, percorrendo però sentieri inversi: se il primo rivela la crudeltà di Viggo Mortensen andando in là con la pellicola, quest’ultimo l’attenua con lo scorrere dei minuti, fino a manifestare una natura inattesa. Detto di questo percorso affine, opposto e speculare, c’è da dire che Eastern Promises è un film decisamente più compatto del precedente, meno diseguale e sempre perfettamente calibrato da un Cronenberg che attenua di parecchio la visività per trovare invece una misura sorprendente. L’abilità del regista canadese è quella di usare tutti gli elementi a disposizione – oltre a una regia che privilegia le inquadrature statiche, una fotografia e un montaggio perfettamente centrati, più un’intensa colonna sonora – per valorizzare una sceneggiatura interessante che, nelle sue mani ispirate, amplifica l’intrinseca suggestione narrativa.
I temi emergenti, il dolore, l’abuso e la violenza, ma anche l’umana pietas sono i tasselli esteriori di un’opera che scende come di consueto negli inferi dell’animo umano per esteriorizzare, attraverso le suggestioni visive, quegli spettri dell’inconscio altrimenti invisibili e inafferrabili. E qui sarebbe inutile fare il lungo elenco della cinematografia cronenberghiana a supporto, partendo da Il demone sotto la pelle fino ad arrivare a Spider, passando naturalmente per Videodrome, a mio modo di vedere la sua opera più inquietante, simbolica e rappresentativa, perlomeno fino a questo film. Fino a questo film perché non ho timore a valutare Eastern Promises come uno dei primi veri capolavori di celluloide del terzo millennio (insieme a Big Fish di Tim Burton e a Mulholland Drive e INLAND EMPIRE di David Lynch), per tutta una serie di ragioni che cercherò brevemente di portarvi ad evidenza.
Dicevamo della misura inattesa, ma non solo, perché Cronenberg si concede senza strafare due tre scene delle sue, senza peraltro calcare la mano, e soprattutto costruisce una delle sequenze che resteranno nell’olimpo della settima arte: una dinamica violenta ripresa frontalmente, in cui Viggo Mortensen, sorpreso da due sicari armati di lame, all’interno di un bagno turco, lotta, nudo come mamma l’ha fatto, per salvarsi la vita. Difficile spiegare, è un raro caso in cui si può solo guardare per valutare, per capire il genio di un grande regista, il pathos unico che riesce a generare nello spettatore. Impossibile restituirvelo a parole: sconvolgente, scioccante. Signori, Cronenberg è unico nel padroneggiare queste vie impervie di rappresentazione, sulla cui scia si può intravedere solo Lynch. Un altro genio, del resto. E a questo punto anche chi detestava l’eccesso di immagini stomachevoli, marchiando negativamente l’artista a priori, non potrà che ricredersi, perché Eastern Promises non arriva soltanto alle budella – ammesso e non concesso che fosse solo e sempre questo, nel migliore dei casi, l’approdo del cinema del regista canadese – ma si insinua nell’anima e colpisce al cuore, attraverso personaggi che trasmettono la loro complessità senza bisogno di troppe parole. È il caso di Nikolai, interpretato da un Viggo Mortensen in stato di grazia, qui alla sua prova migliore, asciutto e misurato almeno quanto la regia di Cronenberg, per il quale non mi sorprenderebbe – pur considerando l’ostracismo di Hollywood nei confronti del cinema del regista di Toronto - una nomination agli Oscar 2008 oramai imminenti. Superlativa è la prova di Armin Mueller-Stahl, nei panni del boss mafioso, simbolo e personificazione del male assoluto, unica figura senza possibilità di redenzione, colui che evoca il vuoto morale, l’aridità, l’assenza di coscienza. Intensa la recitazione della bella Naomi Watts, abbonata ai capolavori – fu protagonista, scoperta da Lynch, del su citato Mulholland Drive -, e di livello anche quella dell’alterno francese Vincent Cassel, qui credibile e sapientemente valorizzato da Cronenberg.
Pregio dell’opera è quello di procedere lenta e senza strappi nella prima parte, cosi disegnando il territorio emotivo in cui far deflagrare la diversa gamma di emozioni che puntuali arrivano nella seconda. Certo chi si aspetta ritmi serrati – e il titolo fuorviante è veramente dannoso, a questo proposito – potrà anche restar deluso, ma chi conosce e ama Cronenberg, chi è in cerca di grande cinema, non potrà che innamorarsi di Eastern Promises, film sui segni del corpo che lascia profonde cicatrici nell’anima: la voce off della ragazza oramai deceduta attraversa e taglia come una lama la pellicola, si insinua più volte nella narrazione e restituisce un’angoscia pari all’indignazione per una vita in fiore spezzata con crudeltà. Ed è un Cronenberg insolitamente lirico quello che ci rivela la sua indignazione, che non concede una sola scena gratuita nemmeno al finale apparentemente consolatorio, facendo incontrare le labbra di Anna e Nikolai solo di sfuggita, nella notte buia, trovando – sorpresa delle sorprese – un epilogo commovente e privo d’artifici.
Il cineasta canadese, toccando il vertice della propria maturità espressiva, ci regala dunque un cinema dalla geometrica potenza, raccontando di promesse non mantenute che, è bene sgombrare definitivamente il campo da ogni possibile malinteso legato all’imperdonabile e fantasioso titolo italiota, non sono affatto quelle di un assassino, ma bensì quelle per un sogno infranto e fasullo, figlie del vuoto di una società occidentale sempre più opulenta e disumana. Quelle fatte alle giovani ragazze dell’est, spesso in arrivo in cerca di fortuna, trovando al contrario degrado e sfruttamento. Un buio fitto di dolore e malinconia, celato sotto la cenere di fuochi fatui tristemente consueti alle nostre megalopoli senz’anima.
Léon, lankelot.eu



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Una lama. E’ una lama affilata e gelida, l’atteso ritorno di Cronenberg sul grande schermo: film dall’impatto visivo/emozionale/percettivo/sensoriale a dir poco devastante. La lama di Eastern Promises lacera quell’imene sottile che separa vita e morte. Il rasoio perfora la membrana che (manichea) separa il bene dal male, favorendo la mescolanza tra gli opposti. Il coltello lambisce freddo la carne che genererà carne, amplifica quel dolore che genererà dolore, profonde sangue che partorirà sangue. L’ago si insinua lentamente sottopelle per depositarvi liquori torbidi ed avvelenati, avviando la più strisciante delle “mutazioni” interne. E’ il mistero cristologico di nascita, morte e risurrezione ad essere al centro di questo film “natalizio e pasquale” ad un tempo. Dietro l’apparente banalità di una trama da mafia-movie (eppure per esempio verrebbe da domandarsi perché mai sia stata scelta proprio la mafia Russa, figlia di una nazione che “è” ortodossia fino al midollo) scorre impetuoso, ma sottotraccia, il flusso delle tematiche cronenberghiane classiche, inquadrate qui in un frame che va diventando anch’esso sempre più “classico”, solenne, maturo: la carne che muta (o che “subisce” la mutazione/tatuaggio), la significazione ancestrale e misteriosa del fluido vitale, la macchina/motore come oggetto d’amore e oggetto per (funzionale a) l’amore, la sessualità/violenza percepita come atto castrante e doloroso. In più: la dialettica morte/vita qui emblematicamente racchiusa nei due personaggi principali. Qualche volta nascita e morte vanno a braccetto, qualche volta nascita e morte possono penetrarsi a vicenda nell’orgasmo abbagliante di una Resurrezione. Dualità. Lui: glaciale caronte traghettatore di anime, figura ambigua e border-line, angelo del trapasso che taglia le dita ai cadaveri, “eraser” che cerca disperatamente di elidere tracce di morte da corpi che una volta contenevano vita. Lei: calorosa e materna levatrice, grembo virginale che accoglie nuove vite alla vita, angelicata madonna dalle fattezze immanenti, generatrice che cerca altrettanto disperatamente di strappare frammenti di vita alla morte (il diario).
Natura trinitaria del Verbo (sulla schiena di Viggo campeggiano tre cupole): Padre-Figlio-Spirito Santo. Il padre/patriarca attraverso la fecondante aberrazione dello stupro, genererà nuova vita e nuova violenza. Il figlio (Christine/Cristo) nell’atto stesso della morte (della madre) tornerà a vivere: nascita, morte e risurrezione, condensate nell’arco di un solo minuto. Lo Spirito Santo: chi se non lui, il nostro Viggo Morte(nsen), il non-generato, il mai-nato (nato morto) e il mai-morto (morto vivente), trait-d’union tra bene e male, perfetta figura di “sintesi”, carta geografica della prostrazione umana. A suggellare questa parabola scritta col sangue una emblematica triplice risurrezione. Della piccola Christine: disseppellita dal cumulo di macerie del suo paese natale ed estratta dal corpo morto di sua madre. Per Anna, che riacquista il ruolo di madre in precedenza brutalmente perduto. Per Nikolai, in quella che è forse la più problematica delle resurrezioni/metamorfosi. Dismessi gli occhiali scuri del mistificatore, resta in piedi soltanto lo scheletro barcollante di una identità tutta da costruire, perché mai esistita “veramente”, perché sempre rimasta celata sotto la maschera della morte. Sulle ginocchia, le stelle che impediscono di genuflettersi dinanzi a Dio: il sacro è dentro, non bisogna cercarlo fuori. Non occorrono idoli, non servono dogmi, non è necessario erigere cattedrali: i corpi cronenberghiani sono gli unici templi dentro i quali è ammesso cantare una preghiera.
cinedrome.splinder.com



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Cronenberg firma un altro straordinario capolavoro. Come A History of Violence, Eastern Promises (promesse orientali) racconta una storia di ordinaria violenza, intrecciando il mondo onesto di una Londra privata di Buckingham Palace e Big Ben, con il mondo "altro" della mafia russa. Le "Promesse orientali" del film sono tre, la promesse di chi vuole riuscire a trovare una giustificazione alla violenza più tremenda e cruda (Nikolai), la promessa di chi vuole salvare la vita innocente di una bambina (Anna), e la promessa di chi invece si è fidato del sogno di una vita migliore lontano dai paesi dell'est europeo (Tatiana). Tre promesse che svelano la terribile realtà della prostituzione minorile. Questa realtà è ciò che fa muovere tutti i personaggi, personaggi che gelosamente tentano di nascondere il loro lato più malvagio e violento, ma che la loro carnalità non riesce a contenere. Cronenberg gioca, come ha sempre fatto (basti pensare a La Mosca o Videodrome) con il corpo dei suoi personaggi, e mai come in questo film ce lo dimostra apertamente. I corpi dei mafiosi sono interamente ricoperti da tatuaggi che insieme raccontano la storia di ognuno, la pelle può essere letta e interpretata proprio come un libro e mette in mostra la reale o presunta identità di una persona. Il regista, a questo proposito, incide sul petto di Viggo Mortensen una grande croce, come ad avvertire subito lo spettatore che si trova di fronte ad un personaggio emblematico, pronto a sacrificare il proprio corpo ad una causa superiore, la salvezza di chi è stato ingannato da una promessa ignobile e meschina. Eastern Promises è un film sui corpi e di corpi; crudo, violento e potente, come la scena della lotta nel bagno turco, in cui il corpo nudo di Mortensen lotta fino allo sfinimento, in cui la vita lotta contro la morte, la speranza contro la rassegnazione. Tutto in Cronenberg è riconducibile al corpo, e alla carne: il sesso come l'amore, il bene come il male, l'identità più intima come le false apparenze, il bene come il male; e come il corpo può risultare un ibrido, così anche i sentimenti e i valori possono mischiarsi tra loro, l'importante però è essere sempre fedele alle proprie promesse.
Thomas_derton, it.qoob.tv



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In una Londra periferica, cupa e piovosa, David Cronenberg mette in scena la tragedia della schiavitù di quanti dall’Europa dell’est si rivolgono alle nazioni più ricche alla ricerca di un riscatto, di una vita migliore. E’ una storia di schiavi quella di Cronenberg, con un lieto fine che non allieta.
Una quattordicenne russa morendo da alla luce una bambina che un’ostetrica (Naomi Watts) vuole salvare dall’affidamento, cercando le origini della famiglia della ragazza in un diario trovato nella borsa della giovane madre. Dalla traduzione delle pagine del diario verrà fuori una storia di violenza, di soprusi e schiavitù, legata alla cosca russa Vory y Zakone da cui la ragazza non è riuscita a liberarsi. Da questo nucleo Cronenberg sviluppa un’intreccio densissimo, fatto di profondità psicologiche e forti conflitti interiori. E’ il caso di Nikolai (Viggo Mortensen) autista della cosca, nonché braccio di macabri occultamenti di cadaveri. In lui schiavo e aguzzino si intrecciano, tra disillusione e tormento per una condizione a cui è costretto e a cui costringe, suo malgrado, le giovani donne dell’est.
Ma anche i capi dell’organizzazione per la quale Nikolai presta servizio vivono, a loro modo, una condizione di coercizione. Krill (Vincent Cassel) è schiavo dell’autoritarismo del padre, represso nelle sue pulsioni sessuali e costretto a fare i conti con una posizione che gli impedisce di essere ciò che vuole. Semyon (Ammin Mueller-Stahl), padre di Krill e capo dell’organizzazione, ricopre il suo ruolo con la crudeltà che necessita la conservazione del suo potere, a cui non può sottrarsi.
E’ un film diretto magistralmente: elegante, pulito anche nelle scene più cruente. In questo film Cronenberg torna sul suo tema preferito, quello del corpo e della carne, ma lo riaffronta con i canoni del cinema classico, lontano dalle psicosi surrealiste di Inseparabili (1988) o eXistenZ (1999).
Infatti la schiavitù passa attraverso la coercizione del corpo, quella dello sfruttamento sessuale da un lato e quella dei corpi martoriati dalla cieca violenza dalla mafia dall’altro. Merita certamente un accenno la scelta da parte del regista di rappresentare gli omicidi esclusivamente con armi da taglio; e i tagli nella carne sono ferite vivide, e il non-senso della violenza trasuda attraverso di essi. Una scena esemplare è certamente la lotta nella sauna tra Nikolai e due sgherri assoldati per ucciderlo; una fotografia formidabile dove i coltelli, vere e proprie protesi dell’assassino, incidono nella carne i segni della violenza evitando il freddo distacco dell’arma da fuoco.
Il corpo di Mortensen sguscia tra i suoi assassini con movenze potenti e sensuali; il suo è un correre via al contempo dalla morte e dal peccato. Troverà redenzione, anche se la strada che gli riservano Cronenberg e Steven Knight (la sceneggiatura è infatti scritta a quattro mani) può lasciare insoddisfatti i cinefili più esigenti. Ottime le prestazioni di tutti gli attori in scena; un accenno particolare merita quella di Mortensen, perfetto nel suo progressivo guadagnarsi il centro della scena. D’altro canto il film convince in tutti i suoi aspetti e non può che essere annoverato tra le migliori opere cinematografiche degli ultimi anni.
Arcangelo Riociola, alcinema.org



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Ancora non è cessata la vertigine che mi accompagna dalla calamitante visione di Eastern Promises... il film lapidario, pulsante e terso, quasi penetra sotto la pelle dello spettatore, annidandosi così nel suo intimo più profondo, fino a mutarne lentamente, dall'interno, alcuni tratti distintivi, arrivando a potenziare un indubitabile preesistente sfumato disagio esistenziale... Cronenberg, dietro le parvenze di un body-horror sulla fragilità dell'identità personale o di un avvincente thriller sulla mafia russa, ci mostra in realtà i meccanismi più sordidi e occulti della società contemporanea, dove, dietro la linda apparenza dell'opulenza e del potere, spesso si celano ipocritamente le più torve e agghiaccianti nefandezze. Illuminante in tal senso è il personaggio di Semyon, spaventosamente interpretato da Armin Mueller-Stahl, affabile padrone del placido e lussuoso ristorante russo e contemporaneamente allucinante capo dei "Vory V Zakone", che ci mostra paurosamente come il male sia ormai così sottilmente infiltrato e perfettamente mimetizzato tra le maglie della nostra società occidentale da risultare pressoché invisibile.
Cronenberg pervade il film di una continua, ambigua e vibrante, tensione erotica e crea con Nikolai (il personaggio interpretato da Viggo Mortensen) un'icona apocalittica, dal corpo integralmente tatuato con simboli rievocanti il suo percorso criminale, che colpisce l'immaginario cinefilo collettivo alla pari del sempiterno Snake Plissken (o Iena Plissken, all'italiana...).
La sequenza della sauna, girata da Cronenberg con una padronanza assoluta degli spazi e dei corpi e con una secchezza praticamente chirurgica, odora letteralmente di sudore, carne e sangue ed entra di diritto ed all'istante nel pantheon delle scene in celluloide che non si dimenticano. Cronenberg nel rappresentare la violenza non lascia alcuna scappatoia allo spettattore, che si trova così compenetrato da immagini il cui grado di realtà è totale e dove sente concretamente e fisicamente su di sé l'elasticità e deformabilità dei muscoli, dei tendini e delle ossa dei personaggi sullo schermo.
La scena del rapporto sessuale obbligato tra Nikolai e una prostituta, sotto gli occhi dell'instabile Kirill (interpretato dal grande Vincent Cassel), rimanda alla fulminante durezza, impregnata di umana disperazione, dei gelidi amplessi raffigurati nelle opere di Francis Bacon.
Come sempre nel cinema di Cronenberg le identità dei personaggi vacillano e mutano, andando a far crollare le stolide certezze dello spettatore medio (incredibilmente i suoi film continuano ad essere proiettati nei multiplex).
Ma nel film non manca una scintilla di speranza, data sia dalla bambina perduta e salvata, che dal personaggio di Naomi Watts, caparbia virago capace di sfidare e affrontare apertamente il male, anche a rischio di perdere tutto...anche perchè forse l'essere umano è naturalmente connaturato al male, mentre il bene non è altro che una sacrosanta imposizione razionale successiva.
Nella pellicola tutto è esemplare, dalla fotografia al montaggio, dalle musiche alle scenografie sia degli interni che degli esterni (una spettrale Londra, notturna e pulsante). Il finale, irrisolto e tragicamente sereno, è il suggello alla perfezione.
Cronenberg continua ad essere uno dei più grandi artisti contemporanei, che persegue con coerenza e selvaggia inventiva la sua virulenta visione del mondo, mutando continuamente ma rimanendo uguale a sé stesso, senza mai cedere alcunché in stile e perseguendo irriducibilmente il verbo della Nuova Carne e ...comunque merita di essere visto in originale con sottotitoli (ma è un'ovvia banalità).
"Il cardine di tutta la vita umana è qui: sapere chi si vuole essere. Poco conta chi tu sia, l'importante è che tu sappia chi vuoi essere" (Miguel de Unamuno - Commento alla vita di Don Chisciotte)
scaglie.blogspot.com



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Un uomo è mai veramente nudo se il suo corpo è coperto di tatuaggi? Un uomo può riuscire a difendersi solo con la forza del proprio corpo? Questi sono alcuni dei quesiti che il grande Cronenberg ci propone con questo suo noir dai sapori forti. Le vite di tre persone si intrecciano “grazie” alla morte di una giovane ragazza che cela dei segreti inconfessabili, raccontati solo ad un diario segreto. Le tre persone in questione sono Anna, la levatrice che cerca di indagare sulla povera Tatiana morta di parto, Kirill, il figlio di un potente boss mafioso russo, e Nikolai, l’autista e migliore amico di questo. Il filo che li lega è molto sottile e sembra che a tesserlo sia proprio il potente e spietato Semyon (il padre di Kirill).
Ma il soggetto noir, la storia di mafia sono solo dei pretesti per raccontare qualcosa di ben più profondo e cioè il rapporto dell’uomo col proprio corpo, il senso di appartenenza ad una famiglia che esiste solo in base ad esperienze passate - esperienze segnate dai tatuaggi - la crudezza della violenza perpetuata senza l’utilizzo di armi da fuoco, ma con il solo utilizzo delle lame (che vanno a scalfire i corpi vestiti o nudi in maniera indelebile) e delle proprie mani.
Tutto ha inizio nella bottega di un barbiere all’interno della quale un ragazzino impaurito, sotto stretto ordine di un altro uomo, sgozza il “cliente” di turno. Capiamo subito di trovarci di fronte a componenti della mafia russa, dato il loro forte accento.
Siamo a Londra e nel frattempo una ragazzina incinta vaga scalza per le strade in cerca di aiuto. Quando sviene in una pozza di sangue (altro elemento importantissimo all’interno di questa pellicola, ma sicuramente nel percorso cronenenberghiano), viene portata in ospedale, dove ad occuparsene è Anna (Naomi Watts), una giovane levatrice. Purtroppo Tatiana (così si chiama la ragazzina) non riesce a sopravvivere e ad Anna non resta altro che cercare di trovare altri parenti in vita a cui affidare la piccola Christine (così chiamata da lei perché le ricorda Cristo).
Inizia così il viaggio di Anna (e dello spettatore) all’interno di un mircomondo contrassegnato da un insieme di regole e valori che travalicano quella che è la normale visione della vita. Un mondo dove dare dell’ubriacone e della checca a qualcuno equivale aver firmato la propria condanna a morte. Un mondo dove si addestrano giovani ragazzini ritardati a sgozzare il proprio “nemico” senza pietà. Un mondo dove un uomo può decidere della vita e della morte di chiunque gli arrechi fastidio solo perché ha due stelle tatuate sul petto. Un mondo dove le “questioni” si risolvono nelle saune in modo tale da poter vedere da quali tatuaggi è “contaminato” il corpo del proprio interlocutore. Un mondo dove non sei nessuno se non hai dei tatuaggi sulle ginocchia che dimostrano che non sei disposto ad inginocchiarti mai o se non hai la “consacrazione familiare” che comporta ulteriori tatuaggi. I tatuaggi sono un vero e proprio vestito, un racconto della propria vita vissuta e delle esperienze subite che rendono il portatore degno di essere ammesso nella Famiglia.
Pur essendo un semplice autista è Nikolai (uno strepitosamente affascinante Viggo Mortensen) ad attirare verso di sé tutte le attenzioni con una movenza quasi felina e dei gesti da far venire i brividi (di grandissimo impatto visivo il segno di mettersi le due dita sotto la gola per minacciare lo zio di Anna) e con uno sguardo al tempo stesso intenso e quasi compassato che riesce a fulminare in un attimo. A fargli da spalla, anche se in realtà dovrebbe essere proprio lui il protagonista, è l’allampanato Kirill (un espressivissimo Vincent Cassel), un simpatico compagnone che ama divertirsi bevendo e stuprando giovani ragazze al servizio di suo padre e che forse non si rende conto di trovarsi dentro qualcosa più grande di lui, manipolato e maneggiato a dovere da Semyon (Armin Mueller Sthal) dagli occhi e dal cuore di ghiaccio, spietato con i suoi nemici, gioviale con i suoi amici e tremendamente severo con suo figlio che non è come lui vorrebbe.
Ognuno di loro è posto davanti a delle scelte che comportano la salvezza della vita di qualcun altro ed ognuno di loro alla fine sembra prendere la strada giusta. Dopo aver visto il flemmatico, elegante e gentile (almeno con Anna) Nikolai “scopare” crudamente una donna quasi assente ed inerme (sicuramente inebetita dall’alcool e dalle droghe) solo per dimostrare a Kirill di essere un vero uomo e quindi degno della sua Famiglia e soprattutto ingaggiare una lotta corpo a corpo completamente nudo con dei sicari che volevano vendicare la morte del famoso “cliente” sgozzato all’inizio del film (due scene che rimarranno per sempre nella storia del cinema per la loro enorme forza visiva ed impatto emozionale, quasi da infarto cardiaco), facciamo una scoperta sconcertante sulla sua persona che ribalta le carte in tavola. Nikolai è davvero quell’uomo segnato dall’esperienza del carcere russo (completamente tatuata sul suo corpo) che si fa aggiungere delle stelle sulle ginocchia e sul petto per entrare nel clan di Semyon e che “pulisce” diligentemente i cadaveri lasciati in giro da questi e da suo figlio (molto cruda la scena nella quale taglia le dita di un cadavere e spegne la sigaretta sulla lingua di questo per poi tagliarla)?
La verità non è semplice come sembra essere, ma si cela nelle viscere, nel sangue (di chi muore e di chi nasce), nel corpo.
Con una colonna sonora poco presente ma sicuramente notevole e apprezzabile e una fotografia molto caratterizzante le varie situazioni e i vari personaggi (bellissima quando incornicia la festa di compleanno di una centenaria nel ristorante di Semyon), incentrata su toni freddi che sottolineano il gelo nel cuore di Anna (che in precedenza ha perso un bambino, motivo per il quale forse è così ossessionata da Christine), e di Nikolai, costretto ad essere quello che forse non vorrebbe essere, e l’atavica tristezza, forse inconscia, di Kirill che anela l’amore paterno senza riuscire a trovarlo rifugiandosi nell’affetto (quasi morboso) vero Nikolai, La Promessa dell’Assassino è un notevole esempio di cinema non convenzionale che, partendo da una storia apparentemente banale e già vista, racconta e mostra (attraverso le lame che trafiggono Nikolai) il dolore, la paura e i sentimenti più nascosti, quelli che bisogna andare a scavare.
La sceneggiatura scarna ma pratica lascia ampio spazio (come è giusto che sia) alle potenti immagini che parlano da sole (se il film fosse stato muto il messaggio sarebbe arrivato lo stesso).
Unico ed irripetibile.
Alessandra Cavisi, livecity.it
[Modificato da |Painter| 08/12/2010 15:52]
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