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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 4

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 14:15
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Sesso: Maschile
04/03/2008 17:44


RASSEGNA STAMPA PARTE 4


“Un thriller sulla mafia intrecciato a drammi familiari, all’interno di una cornice in cui una subcultura coabita all’interno di un’altra cultura molto forte”.
Classe 1943, David Cronenberg, autore di horror cult del calibro di Videodrome (1983) e La Mosca (1986), definisce con queste parole La Promessa dell’Assassino, sua ultima fatica al cui centro troviamo l’ostetrica Anna Khitrova, con le fattezze di Naomi Watts (King Kong), la quale, decisa a far luce sulla tragica vicenda di una adolescente morta dando alla luce il suo bambino, finisce per trovarsi involontariamente nel mezzo di una vera e propria spirale di violenza scatenata da una delle famiglie esteuropee più famigerate di Londra, di cui fa parte il capriccioso ed instabile Kirill, fortemente legato all’autista russo Nikolai Luzhin.
E, ottimamente interpretati da Vincent Cassel (L’odio) e Viggo Mortensen (Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del Re), sono proprio questi ultimi le vere star di una violenta pellicola che, senza perdere tempo, apre con un sanguinolento omicidio per poi affrontare la delicata tematica del traffico sessuale nel contesto di una Londra divenuta società poliglotta negli ultimi vent’anni.
Una Londra illuminata dalla bella fotografia di Peter Suschitzky (La maschera di ferro) ed in cui si avverte una certa presenza ossessiva dell’acqua, o, comunque, dell’umidità; mentre, come già successo con il riuscito A History of Violence (2005), sempre interpretato da Mortensen, è facile intuire la tendenza del regista canadese a sostituire le sue classiche tematiche legate ad un male manifestato nella fantasiosa e raccapricciante mutazione del corpo, con orrori più realistici e concreti unicamente scaturiti dalla cattiveria dell’essere umano.
Su lenti ritmi di narrazione, quindi, vengono efficacemente costruiti circa 100 minuti di visione volti sì ad esplorare la psicologia e le vicende di un uomo (Luzhin) che non rivela mai la sua vera natura, ma indirizzati soprattutto a regalarci una delle migliori prove cronenberghiane, ennesimo film d’autore all’interno di cui, come sempre, pulsa in maniera evidente il genere.
Francesco Lomuscio, cinemaplus.it



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Ci sono clichè che sembrano inamovibili. L’iconografia cinematografica della mafia russa ce la presenta come truce e sguaiata (l’ultimo riferimento è La 25a Ora di Spike Lee), difficile pensarla invece come cornice di una riflessione sull’amarezza del destino, sul disperato istinto di sopravvivenza di ogni individuo, sulla complicità redentrice che lega oppressi desiderosi di vendetta e una legalità messa alle corde, sulla forza rasserenante di una piccola nuova vita.
E nel tessere la trama di tante istanze David Cronenberg riesce ancora una volta ad essere se stesso e ad imporre il proprio universo d’autore fatto di cupi segnali di disfacimento morale, di violenza estrema, essenziale ed esemplare. Una gola squarciata, una giovane partoriente che inonda di sangue il pavimento, un neonato avviluppato nei residui del liquido amniotico, nel sangue del parto, nei tubi dell’incubatrice… Vite spezzate, morti premature, esseri umani che si aggrappano alla vita con disperata naturalezza. Quel bambino fa da fulcro per la storia di La Promessa dell’Assassino: Anna (Naomi Watts), l’ostetrica che lo accudisce, se ne fa carico (ha sulle spalle una gravidanza, e una relazione, non andati a buon fine) e cerca di tradurre il diario (in russo) della giovane Cristina morta durante il parto. Anche Anna ha origini russe, ma lo zio a cui affida la traduzione la mette in guardia sul pericolo di addentrarsi nei fatti privati di persone e mondi che non conosce. Troppo tardi. Anna è andata a cercare informazioni presso il ristorante dove Cristina lavorava, ha conosciuto Semyon (Armin Müller-Stahl), il padrone del locale, gli ha inopinatamente rivelato l’esistenza di quel diario. Entrando in quel ristorante Anna ha varcato la soglia di un mondo infido e crudele: Semyon (mandante di efferati delitti, cinico stupratore di minorenni) è il boss del clan malavitoso Vory v zakone (letteralmente: ladri nella legge), accanto a lui si muove il figlio Kirill (Vincent Cassel), depravato e insicuro e Nikolaj (Viggo Mortensen) autista e “becchino” che esercita su Kirill, su Anna (e sullo spettatore) un fascino ambiguo e misterioso. Troppi i segreti che si celano dietro la sua maschera statuaria e laconica, ma, ci racconta Cronenberg, “nelle prigioni russe la tua vita è scritta sul tuo corpo” e i tatuaggi che ricoprono quello di Nikolaj narrano delle lotte e degli intrighi di cui è figlio, e le stelle, che con l’affiliazione alla mafia gli vengono impresse sulle ginocchia e sulle spalle, diventano il passpartout per un’iniziazione di fratellanza e tradimento. Il suo corpo tatuato e nudo sarà il protagonista assoluto di un’agghiacciante lotta all’ultimo sangue in un bagno turco: una brutalità “messa a nudo” senza risparmio di colpi, un accavallarsi di corpi lacerati e sanguinati, una violenza animalesca che non dà tregua, una sequenza di cinema angosciante e memorabile.
Ma il fascino, più straziante che perverso, di La Promessa dell’Assassino non scaturisce solo dalla “documentazione” dell’abbrutimento che contraddistingue quel mondo sotterraneo che popola la “civile” Londra d’oggi (le esibite scene di sesso e violenza, l’avrete capito, lo consigliano solo a stomaci forti), ma dai sommessi momenti di “buio” che avvolgono i personaggi, l’evolversi del racconto stesso, la spiazzante identificazione dello spettatore. Con una mirabile scelta stilistica Cronenberg riesce a far si che il vero protagonista di questo suo noir sia la voce fuori campo e, ormai “fuori storia”, della povera Cristina. Nelle parole che escono dal suo diario, il tragico racconto della sopraffazioni subite sembra alla fine perdere la sua battaglia (narrativa) rispetto all’invitta forza dei sogni e delle speranze che hanno dato fiducia al suo esistere. Al quel suo commovente “sono venuta a Londra per trovare una vita migliore” fanno eco, in contrappunto, l’immagine rasserenante di Anna, che fuggita dal caos della metropoli trova nell’essere madre (adottiva) il giusto senso per la sua vita, e quella cupa e solitaria di Nikolaj, preso inesorabilmente dal suo ruolo (moralizzatore, ma non per questo meno asfittico) di nuovo padrino della mafia russa londinese. Come in A History of Violence Viggo Mortensen, non-eroe di Cronenberg, è un vincente dal sorriso spento, prigioniero di una realtà, lì familiare qui criminale, segnata da un futuro di profonda, amara incertezza.
Ezio Leoni, movieconnection.it



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Una sera, una ragazzina di 14 anni arriva in fin di vita in un ospedale di Londra. I medici riescono a salvare la bambina che porta in grembo ma non la madre. Anna, una delle infermiere, prende il diario della giovane e si mette in cerca di qualcuno che lo traduca dal russo per riuscire a rintracciare la famiglia della ragazza. Si rivolge così al proprietario di un ristorante di cui la ragazza aveva il biglietto da visita, senza però sapere che l'uomo è un importante mafioso locale. L'uomo dimostra subito grande interesse per il diario della giovane, così come il suo autista dimostra interesse per Anna...
Acclamato da più parti come il seguito di Cronenberg al suo ritorno sul set con A History of Violence, Eastern Promises è in realtà più correttamente il seguito di Steven Knight alla sua sceneggiatura d'esordio, Piccoli affari sporchi. Knight - che è anche l'inventore di "Chi vuol essere milionario" - torna infatti a indagare i crimini e i criminali che si nascondono nella multietnica Londra. Certo la comunità qui rappresentata non ha molti punti in comune con quella del film di Stephen Frears, ma è chiaramente un'altra pennellata nel ritratto che lo scrittore di Birmingham sta facendo del sottobosco della Capitale inglese. Non a caso, è stata la BBC a commissionare il lavoro.
Da parte sua, Cronenberg cerca di evitare che il racconto risulti statico e di sfruttare al meglio Viggo Mortensen e Vincent Cassel - che non sono certo i mafiosi russi più credibili della storia del cinema. Il regista canadese, però, cede più di una volta al suo amore per il sangue, e se in alcuni casi quest'esagerazione colpisce nel segno, in almeno un'occasione ottiene effetti ridicoli. Non è comunque colpa della regia se il film non decolla: i personaggi appaiono stereotipati e le situazioni prevedibili, le forzature nello script sono tante e tutta la parte finale - che si basa su un ribaltamento piuttosto assurdo e del tutto inutile - non convince per nulla. Difficilmente questa storia potrà interessare molta gente, ma il risultato può anche piacere. Da qui a restarne entusiasti e parlare di un gran film, però...
Alberto Cassani, cinefile.biz



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È ancora la combustione di corpo, sangue e duplicità dell’essere a coordinare il cinema di David Cronenberg. Detto in altri modi, anche Eastern Promises racconta l’uomo. Sì, perché il corpo, per Cronenberg, è la forma dell’uomo, la sua espressione, il suo canale (emo)comunicativo.
Nel precedente A History of Violence (2005) il corpo era un viaggio nel tempo, una mutazione temporale, uno scontro generazionale; in Eastern Promises, invece, è un tatuaggio, un segno indelebile che passa davanti, sopra, sotto, dentro gli occhi di altri uomini che, prima ancora di colpire, ferire, uccidere, inevitabilmente guardano. Il corpo è movimento nello spazio.
Come accadeva anche in Spider (2002) dove si districava tra fitte ragnatele, in Eastern Promises il corpo entra ed esce dal labirintico incubo della mafia russa, nuovo corpo virulento del cinema cronenberghiano.
Da una forma all’altra, il corpo si ridefinisce e si ricalibra in nuovi spazi. Anche quando espelle la sua essenza, il sangue. Questa continua alternanza tra interno/esterno acquista una nuova sfumatura in Eastern Promises perché concede a superficie e interiorità la conquista di ampi spazi. L’inganno, la promessa, la salvezza e la morte sembrano salire e scendere da una giostra carica di mistero e inquietudine che sposta lo spettatore da un’esperienza emotiva all’altra senza più il controllo di niente.
Cronenberg racconta, innanzitutto, il viaggio interiore di un uomo che guarda dentro il corpo virulento della mafia russa. Un uomo che ha la pelle maculata dai tatuaggi, che perde sangue e che tocca sangue e corpi insanguinati sempre, da sempre e, forse, per sempre. Un uomo, anche, capace di guardare all’amore, alla salvezza e alla speranza.
Eastern Promises è anche la forma di un’ambiguità di fondo, di un disagio esistenziale, di uno scontro concettuale di presenze e identità. La lotta tra bene e male o, forse, la lotta per conoscere cosa sia bene e cosa sia male.
Un film corporale, quindi un film sessuale e per certi versi omosessuale (in fondo gli uomini sono al centro ma anche ai margini e poi la questione rappresenta, da sempre, una specie di ossessione del regista), che racconta la morte, la nascita e la rinascita. La luce, il buio, ancora il buio e poi la luce nel buio. Che scava dentro le ragioni dell’animo umano, che guarda al presente denunciando una realtà estremamente radicata nel territorio londinese, così come estremamente viene descritta e raccontata in questo caso.
Penetrante, romantico, sovversivo, selvaggio, prospettico. Che film!
Matteo Mazza, hideout.it



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Era tra i film più attesi della stagione cinematografica autunnale, tra i fans e gli addetti ai lavori forse il più atteso. Meno per il grande pubblico per il quale David Cronenberg non è una figura di richiamo: i suoi veicoli espressivi e la sua poetica cinematografica si sono nel tempo rivelati troppo selettivi (e questo è forse addirittura un eufemismo), spesso proibitivi per un normale fruitore cinematografico. Il suo ultimo film approda in Italia grazie ad un'idea molto furba della dirigenza del Torino Film Festival, ossia quella di far partecipare come membro della giuria il direttore del Toronto film festival Piers Handling e di ergerlo addirittura a presidente. Ciò ha reso possibile l'approdo al festival torinese di Eastern Promises che è stato l'evento principale della giornata di chiusura (con code che iniziavano più di due ore prima dell'inizio della proiezione) e che aveva distrutto ogni avversario stravincendo il piccolo concorso del festival canadese riscuotendo un enorme successo di critica. Questa, ovviamente, è solo un'ipotesi faziosa ma intrigante. Il film esce in Italia con il titolo senza senso La Promessa dell’Assassino che sostituisce l'ottimo titolo originale Eastern Promises.
Se dopo A History of Violence pensavamo fosse solo un indizio, ora è un dato di fatto: esiste un nuovo David Cronenberg. Un autore che ha saputo rinnovarsi come pochi altri, che ha saputo cambiare il suo sguardo cinematografico pur non alterando le sue tematiche ricorrenti e i suoi "marchi di fabbrica". Un regista che forse ha perso un pizzico di quella infinita genialità che ha mostrato nella prima parte della sua carriera (Videodrome) ormai quarantennale - una genialità che però non rifuggiva l'imperfezione - in favore di uno stile sempre più ricercato, sempre più asciutto, sempre più duro.
Eastern Promises mostra la vicenda di Nikolai Luzhin (Viggo Mortensen) autista e braccio destro di Kirill (Vincent Cassel) figlio e massimo erede di una congrega della mafia russa londinese che fa capo al boss Semyon (Armin Mueller-Stahl). Anna (Naomi Watts) è una levatrice che ha appena fatto partorire una ragazza quattordicenne morta durante il parto. Il diario segreto della ragazza è analizzato e conservato gelosamente da Anna la quale scopre che la ragazza è stata vittima di uno stupro che riguarda in modo diretto Semyon e la sua banda. I destini di Nikolai e Anna si incroceranno ed il primo si vedrà scisso dalla scelta tra fare gli interessi della famiglia per cui lavora o aiutare Anna.
Eastern Promises riprende ciò che A History of Violence aveva lasciato in sospeso, fungendo da vero e proprio contraltare. Si torna a mostrare la divisione dell'animo umano e quanto questo possa mutare al mutare delle condizione a lui circostanti e delle emozioni provate. Viene narrata una vicenda speculare a quella del film precedente dove però Cronenberg mostra il b side della medaglia: quanto di buono c'è in un essere malvagio. In effetti Nikolai incarna perfettamente tutto ciò che Tom/Joey era stato in passato, tutto il suo mondo oscuro, andando così a completare un personaggio straordinario.
La nuova musa del regista è Viggo Mortensen, vero mattatore del film (come già nella precedente opera) che per l'occasione ha svolto un lavoro di preparazione molto duro e degno di merito, vivendo diversi mesi in Siberia nel tentativo di imparare lo slang russo riuscendovi in modo perfetto. Un attore in alcuni momenti celebrato dalla macchina da presa del regista canadese che evidenzia la sua perfetta spigolosità e in altri violentato dalla stessa che mette in luce la sua fisicità viscerale.
La figura femminile è fondamentale per David Cronenberg, anche in un film maschile come questo, forse soprattutto in questo. La donna è partecipe della mutazione del protagonista e come faceva Maria Bello si trasforma insieme a lui spinta da un'istintiva attrazione interiore che spesso detta i suoi comportamenti. Tra i due non ci sono le scene di sesso esplicito che c'erano in A History of Violence ma c'è una sessualità ed un'attrazione latente quasi tangibile.
L'ossessione cronenberghiana della scissione e della mutazione umana trova espressione in uno stile asciutto ma non privo di scene tipiche dell'autore, scene di violenza estrema che risultano ancor più forti grazie al contrasto con i toni generali del film. Un lavoro che, come il precedente, torna a parlare della gente comune o meglio di un personaggio come altri. Il primo era un padre di famiglia, il secondo un autista come tanti altri costretto a reagire al confronto col mondo, ed a mostrare la sua vera natura o la parte celata della stessa.
Il film probabilmente non ha l'incipit ed il finale di A History of Violence (quelli erano da antologia), ma nel complesso è addirittura migliore, grazie ad una perfezione stilistica raggiunta dal regista canadese che si dimostra impeccabile in ogni scelta registica e capace di raccogliere tutti gli elementi della sua filmografia, tutti i temi, tutte le migliori inquadrature, tutte le ossessioni, addizionarli, interpolarli e sintetizzarli in un'opera pulita, rigorosa, perfetta.
Attilio Palmieri , theothersmag.com



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David Cronenberg e Viggo Mortensen sono tornati insieme sul set per raccontare ancora una storia criminale. Rispetto a A History Of Violence, ne La Promessa dell’Assassino si procede al contrario ma con esiti simili: invece di un uomo semplice e orientato agli affetti familiari come nell'adattamento del fumetto di John Wagner e Vince Locke, ora Viggo "Aragorn" Mortensen veste i panni di uno spietato killer della mafia Russia, tanto efferato quanto fedele al suo boss. Due figure lontane, quella dell'uomo di famiglia Tom Stall e del sicario Nikolai Luzhin, accomunate però da un passato tenuto ben nascosto ma che inesorabilmente dovrà venire a galla insieme alla verità nascosta dalla scia di violenza che entrambi si lasciano alle spalle.
Una storia avvincente quella imbastita da Cronenberg che trasforma i sobborghi di Londra in un vero set da noir: senza esagerare con la propria abilità tecnica, il regista è attento nel calare lo spettatore all'interno degli ambienti malavitosi, fumosi e pregni di vodka, di un mondo dominato dalla legge del più forte, in cui il potere non è mai appannaggio di una sola fazione ma perennemente in bilico, tra chi sopravvive e chi è destinato a soccombere. Un ambiente, come ama definirlo il capo Semyon (un grande Armin Mueller-Stahl), in cui "il dettaglio che appare più insignificante è quello che ti frega".
La buona riuscita di questo thriller è frutto di un calibrato lavoro di squadra: oltre alla convincente sceneggiatura di Steve Knight (nominato all'Oscar per lo script di Piccoli affari sporchi e capace di mantenere un'atmosfera ambigua per tutta la visione), la prova dell'intero cast è apprezzabile. Mortensen si è calato con efficacia nei panni del freddo criminale, negli sguardi, negli atteggiamenti e nell'inconfondibile accento dell'Est, Vincent Cassel non sfigura nel dar vita al figlio frustrato e incapace al comando del capo-famiglia, ma è proprio Armin Mueller-Stahl a fare la voce grossa: lui non interpreta questo ruolo, sembra viverlo letteralmente.
Un film adatto non solo agli amanti dello stile del regista ma a tutti coloro che amano i thriller con sfumature da noir in cui i personaggi, prima si mostrano come ombre inquietanti ma alla fine emergono per quella che è la loro vera natura regalando un quadro vivido e dal gusto profondamente reale.
M.V., delcinema.it



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Eastern Promises segna il ritorno dietro la macchina da presa di David Cronenberg dopo A History of Violence. La trama è ambientata a Londra e incentrata sul mondo della mafia russa. Mondo in cui si trova catapultata Anna Khitrova, ostetrica presso un ospedale di Londra, dopo che una quattordicenne russa muore di parto dando alla luce una bambina. Per rintracciarne i familiari, malgrado l'opposizione dei suoi parenti che la sconsigliano di farlo, Anna si servirà del diario della ragazza, fino ad approdare ad un ristorante il cui proprietario è Semyon, all'apparenza gentiluomo dai modi affabili, ma che in realtà è un boss della Vory V Zakone legato al mercato delle prostitute venute dall'est e direttamente coinvolto nella vicenda personale della ragazza morta.
Alle dipendenze di Semyon c'è il figlio Kirill, debole e instabile, e Nikolai Luzhin, autista dal passato misterioso.
Anna e Semyon sono i personaggi simbolo di due mondi contrapposti, nettamente separati: la mafia russa da una parte, la "brava gente" dall'altra. Nel film di Cronenberg sono le caratterizzazioni più definite, quelle che presentano meno lati nascosti rispetto agli altri attori della vicenda. Anna, spinta dalla volontà di trovare una famiglia a quella bambina rimasta orfana, entrerà in contatto con il mondo mafioso di Semyon. L'incontro/scontro tra questi due mondi influenzerà profondamente sia Kirill, che Nikolai. Kirill vive all'ombra del padre che profondamente detesta, ma non ha la forza nè la volontà per ribellarsi, finendo per esserne una pallida imitazione.
Nikolai è solo un "autista": va dritto, a destra o sinistra a seconda dei bisogni dei suoi capi. E' un mero esecutore di volontà altrui.
Kirill e Nikolai sono uomini senza identità, vivono nell'ombra, le loro azioni e le loro scelte sono dettate dalla volontà degli altri, da stimoli esterni. Sono spiriti affini, pur nella loro differenza caratteriale: glaciale e impassibile Nikolai, ridondante ed eccessivo Kirill, ma tuttavia legati tra loro da una profonda amicizia e rispetto reciproco. Anche se non a livello biologico, sono come dei gemelli.
Il loro legame è simbiotico come quello dei gemelli Mantle di Inseparabili; i due condividono le stesse esperienze e le azioni dell'uno devono essere replicate dall'altro. Nel bordello, durante un festino sfrenato con delle ragazze, Kirill imporrà a Nikolai di scegliersi una ragazza e scoparsela come ha fatto lui e suo padre prima di lui "per essere un vero uomo e non sembrare una checca". Quando Nikolai sarà promosso al rango di capitano, (l'abbraccio tra Kirill e Nikolai in un campo/controcampo è identico a quello fra Beverly ed Elliot Mantle di Inseparabili), l'identità tra i due sarà perfetta. I tatuaggi aggiunti sulle spalle e sulle ginocchia di Nikolai sanciranno la loro perfetta interscambiabilità e sarà il motore scatenante della scena migliore di tutto il film: l'aggressione a Nikolai nel bagno turco. La scena della sauna è di una violenza inaudita, perfetta nella propria crudezza, nella sua rappresentazione coreografica così poco hollywoodiana, dai cromatismi molto accesi della fotografia di Peter Suschitzy e dal suono che sottolinea le ferite e le lacerazioni del corpo umano.
Corpo umano che racchiude, nelle ossessioni del regista canadese, mediante la lettura dei tatuaggi, l'identità e la memoria dell'individuo come un libro, ma al contempo la fonte del suo stesso inganno. Il corpo mostra solo l'apparenza di ciò che siamo, non ha la capacità di svelare fino in fondo la nostra anima, di andare oltre queste apparenze. Una zona morta, che rimane invisibile e celata agli occhi dello spettatore, che viene manipolato da ciò che "crede" di poter vedere, da quello che è solo una realtà soggettiva, non oggettiva.
Basato sulla sceneggiatura di Steven Knight, Cronenberg dirige un thriller cupo, teso, dominato da forti contrasti, violento ma non compiaciuto, asettico e malsano in egual modo, dalle forti venature noir, ma lasciando spazio anche al melò. Una contaminazione di generi che permette di scavare in profondità nella psicologia dei personaggi, non lasciando spazio ad alcun tratto manicheistico in essi. Un cast di prim'ordine senza alcuna dissonanza. Viggo Mortensen è ormai lontano anni luce dall'Aragorn del Signore degli Anelli. Il sodalizio con Cronenberg, iniziato con precedente A History of Violence, lo gratifica con la sua migliore interpretazione. Attraverso la potente espressività del suo volto, i suoi gesti, dona vita ad un personaggio indimenticabile capace di essere glaciale ed efferato come nella scena della sauna, autentica macchina distruttrice sostenuta dal solo istinto di sopravvivenza più brutale, ma capace di momenti di vera compassione.
La vera sorpresa è però Vincent Cassel, figlio snaturato e debole di Semyon, apparentemente stereotipato ma speculare al personaggio di Mortensen a cui si adagia, perennemente in bilico ad un precipizio morale da cui saprà togliersi all'ultimo momento rifiutandosi di eseguire i dettami malavitosi del padre.
Da non sottovalutare la prova di Naomi Watts. E' lei, involontariamente, il "virus" che contaminerà la vita di Nikolai attraverso la "tossina" del diario di Tatiana, la ragazza morta di parto. Come la donna triforcuta Claire Niveau/Genevieve Bujold, il suo istinto di madre mancata, innescherà l'effetto domino che da Nikolai arriverà al vero cuore nero del film: Il boss Semyon (un bravissimo Armin Mueller-Stahl), cinico e spietato, attento anche al più piccolo particolare, perchè "è dal dettaglio più insignificante che nascono le fregature".
Piccola curiosità: nessuno degli interpreti, principali e secondari, è russo o d'origine russa. Una successiva visione della pellicola in lingua originale renderà giustizia al lavoro molto fine eseguito dagli attori coinvolti nei confronti del linguaggio, uno slang anglo- russo; peculiaretà che la piattezza del doppiaggio italiano non fa percepire.
Si è parlato molto della svolta di David Cronenberg regista con A History of Violence. Molti si sono scandalizzati del fatto che il cineasta canadese si sia venduto agli studios per poter essere più accessibile verso il grande pubblico e non essere più un autore di nicchia (una nicchia comunque decisamente ampia qualitativamente e quantitativamente), di aver lasciato alle sue spalle lo sperimentalismo delle prime pellicole. Niente di tutto questo: già con A History of Violence, ora con Eastern Promises, l'autore canadese costruisce una pellicola compatta e rigorosa, perfettamente coerente con le tematiche dei suoi film precedenti: lo studio del corpo come ricerca dell'essenza dell'animo umano, senza tradire se stesso. Tale continuità è sancita anche dalla scelta del cast tecnico, che condivide il lavoro di Cronenberg fin dalle sue prime pellicole.
La fotografia di Peter Suschitzy è molto variegata: dal tono gelido di fondo fino al patinato del finale che rimanda a quello di Velluto Blu di David Lynch. Molto accurate le scenografie degli interni del ristorante russo di Carol Spier, sfondo perfetto per un'altra scena bellissima: la promozione di Nikolai al rango di capitano. Avvolgente e mai invasiva la colonna sonora di Howard Shore ed eccellente il montaggio di Ronald Sanders, altri collaboratori storici di David Cronenberg.
Il cineasta canadese è più vivo che mai. Dividerà il pubblico e la critica come è sempre successo, ma i veri fan sapranno apprezzare fino in fondo anche questa pellicola.
"I'm just a driver."
The Gaunt, filmscoop.it



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Eastern Promises è un film che lascia interdetti. Per chiarire questa mia posizione è necessario chiamare in causa A History of Violence. A History aveva anticipato un cambio di registro nell'ambito della filmografia di Cronenberg, ovvero l'abbandono di una tipologia di cinema - che ha saputo creare dibattiti e discettazioni filosofeggianti sui temi della mutazione del corpo e dell'interazione della carne umana con la realtà materiale circostante - a favore di un modalità di cinema meno disponibile ad un'apertura di significati.
Una sensazione di freddezza e glacialità sembrava avvolgere il primo film della coppia Cronenberg-Mortensen. L'idea nasceva da una striscia di fumetti e intorno a quella storia si sviluppava la vicenda che vedeva coinvolti personaggi macchiettistici, privi di una credibile parvenza psicologica. La medesima operazione avviene ne La Promessa dell’Assassino (traduzione italiana che non tiene conto dello sviluppo dell'intreccio).
La delusione risiede proprio in quella patina di artefazione che aveva gà contraddistinto l'opera precedente. Qui almeno vi è un minimo di caratterizzazione dei personaggi, basti pensare alla famiglia di Anna (Naomi Watts) e ai temibili membri dei Vory V Zakone, che seppure sembrino usciti da un catalogo di luoghi comuni, rispecchiano gli stereotipi di tipizzazioni purtroppo riscontrabili nella vita comune di tutti i giorni. Certo si può sostenere che A History of Violence sia stato realizzato con il presupposto di essere un film senza un'anima, ma qualora fosse, ci chiediamo quale sia il senso dell'operazione. La stessa domanda si può rivolgere nel caso di Eastern Promises.
Il film racconta una storia che sembra uscita direttamente dalla stanza dell'ufficio di qualche potente produttore. Soprattutto verso il finale si tracima verso un senso di ripetitività e di già visto che nemmeno l'immancabile colpo di scena riesce a riscattare. E il rammarico aumenta se si tiene in considerazione il corpus precedente di opere dell'autore, prodotto in periodi in cui immaginiamo fosse supportato da una brillante vena artistica. Cosa resta di tutto quello? Una ragazza che ha modo di soddisfare il proprio senso di maternità e un sottofondo di bieca violenza in una Londra in mano ad assassini russi fra giri di prostituzione, vodka e miseria di sentimenti non possono essere considerati elementi in grado di affezionare un pubblico.
Più interessante sarebbe stato approfondire i legami che intercorrono tra la capitale britannica e il nuovo capitalismo a sfondo criminale proveniente dalla Russia. Invece Cronenberg, per sua stessa ammissione, si sofferma su ciò che fa parte delle tradizioni dell'organizzazione criminale, trascurando di tradurre in immagini il perchè di una così capillare diffusione in terra britannica delle società per azioni a delinquere di matrice sovietica. Non osavamo chiedere un romanzo d'inchiesta alla Saviano, ma neppure riteniamo sufficienti poche scene di losche rappresaglie con i ceceni per spiegare un fenomeno così complesso come quello della mafia russa. Ecco perchè La Promessa dell’Assassino è un film quasi simile a tanti altri dello studio system di Hollywood, perchè non ha il coraggio di intraprendere un percorso di indagine sociologica utile a risvegliare le coscienze sopite, che purtroppo per loro sono, e di questo passo rimarranno, in uno stato di perenne incubazione.
Nella speranza che Cronenberg torni a una produzione artistica più consona alle sue possibilità, ci vogliamo quanto meno augurare che dall'America giungano nel mercato europeo lavori cinematografici di uno spessore intellettuale maggiore. La riproposizione della violenza fine a se stessa pensiamo abbia ormai esacerbato persino gli animi dei cinefili più puri, i quali siamo convinti chiedano ai validi autori di cinema di non sfruttare questo topos solamente al fine di tenere sotto scacco lo spettatore.
Giovanni Pedrollo, ilcinemante.it



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Dopo il convincente A History of Violence, La Promessa dell’Assassino segna il ritorno del regista canadese David Cronenberg al genere noir.
Ambientato in una Londra piovosa e grigia, l’ultimo parto del padre della “nuova carne” è un thriller dalla trama piuttosto semplice, lineare, ma che riesce ad imporsi con tensione visiva e grande eleganza registica grazie a diversi fattori, primo tra tutti la notevole interpretazione del cast attoriale, dal quale emerge con possanza il camaleontico Viggo Mortensen, già  protagonista del precedente lavoro di Cronenberg, A History of Violence, e che come in quest’ultimo veste i panni di una personaggio ambiguo, dai contorni morali indefiniti e difficilmente codificabili. Tra gli altri interpreti, è d’obbligo evidenziare Vincent Cassel, perfettamente a suo agio nel ruolo di un mafioso un po’ toccato e dalle scelte avventate; Naomi Watts, la cui sensualità  traspare da ogni fotogramma, anche nei momenti di maggiore statica; e il bravissimo Armin Mueller-Stahl, veterano della settima arte capace di dare vita ad un boss della mala tra i più convincenti visti al cinema negli ultimi anni.
David Cronenberg, sin dalle sue prime opere, ha segnato il mondo del cinema con i suoi horror per nulla convenzionali, giocati sul rapporto tra normalità  ed infezione, nel senso di contaminazione del vivere quotidiano, di decostruzione della realtà  così come convenzionalmente percepita. La sua poetica è spesso attraversata dal concetto del doppio: a cominciare dal dittico Il demone sotto la pelle / Rabid - Sete di sangue, che analizza gli effetti causati dall’introduzione di una variabile virulenta nel tessuto della quotidianità, capace di toccare le corde più basse – e primitive – della natura umana; il duo filmico Scanners / La Zona Morta, strumento di analisi della sete di potere dell’uomo, quando amplificata e deformata da forze di origine sovrumana; Inseparabili (probabilmente il suo capolavoro), storia di due gemelli legati dalla carne e dalla psiche, condannati a condividere gioie, scelte e sofferenza in un inestricabile sistema vitale di alimentazione biunivoca; eXistenZ, film di fantascienza intessuto sulla contrapposizione tra ciò che è ritenuto reale e ciò che invece è considerato virtuale, e sull’ambiguità  del concetto di verità ; e infine proprio l’opera gemellare “illegittima” costituita da A History of Violence e da La Promessa dell’Assassino.
Storia sulla disintegrazione del sogno americano il primo, con il suo messaggio anti-mediatico e per nulla rassicurante, La Promessa dell’Assassino è invece un noir puro, la storia di un mistero metropolitano.
Anna, levatrice in un ospedale di Londra, dopo aver assistito alla morte post-parto di una giovane quattordicenne, ritrova tra gli effetti personali della stessa un diario, scritto in russo. Con l’aiuto di un suo zio originario della Russia – ed ex membro del KGB, il servizio segreto sovietico – ne tradurrà  le pagine, scoprendo un intrico di relazioni torbide ed inquietanti tra gli ambienti della mafia russa e il mondo della prostituzione.
Lo script è di buona fattura, anche se pecca sul versante psicologico, lasciando in ombra la personalità  e il background di molti personaggi, primo tra tutti del “becchino” Nikolai. Un altro difetto della sceneggiatura, questa volta relativo alla costruzione dell’intreccio, riguarda la risoluzione dei principali snodi narrativi della trama, la quale in alcuni tratti appare piuttosto forzata, quasi un’applicazione frettolosa e sbrigativa della tecnica del deus ex machina. È evidente, sin dalle prime fasi del film, come il regista non abbia voluto porre l’accento sulla complessità  del plot o sul suo intreccio, quanto invece sullo scorrere inesorabile e oscuro della staticità  del quotidiano verso mondi nascosti dietro anche il più insignificante e insospettabile degli eventi. Nonostante questo però, Steven Knight, dopo la pregevole prova offerta con la sceneggiatura di Piccoli affari sporchi – per la regia di Stephen Frears – si dimostra comunque ancora una volta perfettamente a suo agio tra i sentieri sotterranei e fumosi di una Londra che nasconde più di quanto mostra, regalando al pubblico una narrazione efficace e sostenuta da un cast in stato di grazia.
Il nero, il grigio e il rosso sono i colori predominanti della pellicola. Il rosso del sangue – che scorre, ma che non eccede in quantità , e che per questo si fa strumento, evitando l’esagerazione, l’ipertrofia – il nero degli abiti, e infine il grigio, dell’ambiente londinese così come dei tatuaggi, i quali si pongono come veicolo metacinematografico di narrazione, ponte comunicativo atipico che lega – ma spesso allontana – i personaggi della storia.
Altro elemento visivo che caratterizza e che definisce La Promessa dell’Assassino è costituito dalla fisicità . A tal proposito, risulta perfetta ed emblematica la scena di nudo integrale di Viggo Mortensen, nei panni di un faccendiere della mafia, costretto ad affrontare due sicari della criminalità  russa mentre si trova all’interno di un bagno turco. La scena, girata senza alcun accompagnamento musicale, è la sublime dimostrazione di due elementi: la bravura indiscussa di un attore, Viggo Mortensen, in grado di “parlare” con la sola mimica del viso, con il movimento del corpo, con il sangue, e di un regista, che in pochi minuti riesce a regalare un climax narrativo che coinvolge la mente, per l’eleganza registica; le viscere, per la truculenza del combattimento e i rumori naturali prodotti dall’impatto dei corpi; e i sensi, per la sensualità  perversa e trascinante capaci di imporsi con un movimento di macchina che in apparenza indugia esclusivamente su Viggo Mortensen, ma che in realtà  è pura e semplice adorazione dell’estetica cinematografica e del “vero” rivelato attraverso lo scontro delle carni. Quello di Cronenberg è l’atto d’amore di un cultore della contaminazione – dei corpi, dei mondi – che diviene mezzo di trasmissione che trascende il limite comunicativo dell’arte fine a se stessa, e che si pone come unico punto di contatto tra la percezione addomesticata dello spettatore medio e il nucleo stesso dell’umano.
La Promessa dell’Assassino è un capolavoro del cinema moderno, la conferma della grandezza artistica di un regista in continua evoluzione – come i protagonisti delle sue storie – perfettamente a suo agio con la cinematografia mainstream, ma sempre fedele alle coordinate della propria poetica. Un regista capace di dirigere ottimamente un cast multietnico, di far convivere un numero enorme di sensibilità  e stili recitativi, e a un tempo di sostenere con mestiere il fardello della coerenza artistica, della rappresentazione della propria visione del cinema, senza compromessi di alcun tipo: solo espressione, immagine, nuda e cruda.
realdarkdream.com



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Crudo e terribile, con una memorabile scena centrale di violenza pura. Si presenta così agli occhi dello spettatore l’ultimo film di David Cronenberg, La Promessa dell’Assassino. Cronenberg, regista non facile, anzi piuttosto scomodo, ma dalla poetica e dallo stile riconoscibilissimi, ha sempre raccontato la stessa storia nei suoi film, da Videodrome, uno dei sui primi film, al recente A History of Violence, passando per i più noti La Mosca, Inseparabili, Crash. I film del regista canadese mettono infatti sempre al centro l’uomo e la sua trasformazione in qualcosa d’altro: in una mosca (La Mosca), in una proiezione idealizzata di sé (il commovente melodramma M. Butterfly). Spesso quello che emerge nei film di Cronenberg è il lato oscuro dell’animo e della psiche, gli aspetti più istintivi e “malati”: il male come malattia e come ossessione impossibile da debellare (si veda a questo proposito la parabola di follia di James Wood protagonista di Videodrome). Il male, insomma, è qui, tra di noi, nelle nostre case, nelle nostre menti. Si annida nei posti più imprevisti, la provincia americana di A History of Violence, dove un tranquillo barista celava una doppia, terribile identità. Oppure nel cuore di una Londra plumbea abitata, pare, da soli immigrati. Perché La Promessa dell’Assassino è ambientato a Londra, ma parla russo. E non solo a parole, ma anche con tatuaggi-ferite che rivelano fino a un certo punto l’identità del protagonista. E allora La Promessa dell’Assassino non è soltanto un buon gangster movie in salsa russa. In realtà, pur utilizzando codice, linguaggio e facce da gangster (memorabili gli occhi di ghiaccio del boss russo interpretato da Armin Mueller-Stahl) il film dice anche qualcosa d’altro: è innanzitutto un dramma d’identità dalle movenze scespiriane in cui la violenza e il sangue – che non mancano per tutto il film – sottolineano con forza l’unica vera domanda che muove tutto il film: chi sono io? Chi è infatti Nikolai, il personaggio interpretato dal bravo Viggo Mortensen? E’ un semplice autista della malavita russa; un boss in carriera della mala; l’amante segreto di Kirill (Vincent Cassell), o qualcosa di più o di diverso ? E lo stesso si potrebbe dire dei diversi riusciti personaggi che percorrono il film: il boss mafioso, dolce nonno e proprietario di un locale in centro Londra, in realtà padrino dei più crudeli. O ancora, il personaggio violento e delicato di Vincent Cassell, nascostamente e vergognosamente omosessuale. Quali allora i pregi de La Promessa dell’Assassino? Una messinscena sobria che fa sì ricorso e ampiamente al sangue ma per motivi di “genere”; una direzione degli attori efficace, con l’eccezione forse di Naomi Watts, il personaggio più debole e meno verosimile della vicenda. Un discorso attuale e vero sull’uomo di oggi, che vive quotidianamente il terrore di un nemico interno. Che c’è e contro cui bisogna combattere con tutte le proprie forze, ma che non è semplicemente il “mostro”, qualcosa a parte rispetto a noi e che non c’entra con noi. È la punta nera di un iceberg chiamato peccato e che, diversamente dosato, c’entra con la vita di tutti noi. E’ con il nostro cuore che bisogna combattere: la vera, quotidiana e più dura battaglia, infatti, si gioca infatti proprio da quelle parti. E nessuno può tirarsi indietro.
Simone Fortunato, sentieridelcinema.it
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 14:15]
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