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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 2

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 14:13
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Sesso: Maschile
27/12/2007 14:32


RASSEGNA STAMPA PARTE 2


Per i più affezionati, David Cronenberg in quasi quarant'anni di carriera non ha mai subito battute d'arresto. Per noi qualche frenata dagli esiti discutibili c'è stata (eXistenZ, piuttosto che Spider). Nessuno, però, potrà mettere in discussione lo stato di grazia raggiunto dal regista canadese con il recente A History of Violence e con il nuovo La Promessa dell’Assassino. Diciamolo subito, nell'ultimo Cronenberg si viaggia altissimi (e ci si chiede perché né Venezia né Roma siano riusciti a strapparlo a Toronto e Londra) perorando più o meno involontariamente la causa antica della "politique des auteurs".
Nonostante il mainstream di facciata La Promessa dell’Assassino è un film prodotto e soprattutto distribuito da un'etichetta indipendente (la Focus Features), imbottito di star e girato da un signore che si pregia di imporre un proprio stile cinematografico malgrado le convenzioni visive ed espressive dominanti. Per seguire l'evolversi dello script di Steve Knight, Cronenberg marchia la messa in scena adottando la sua tipica distanza e la singolare angolatura verso il soggetto inquadrato (spassoso il momento in cui si scongela un cadavere con il phon), da cui sortisce una dialettica filosofica morbosa sugli aspetti più reconditi dell'animo umano, questa volta rintracciabili tra i pericolosi e cupi gangster della mafia russa londinese dei Vory V Zakone. Per ottenere ciò si serve, letteralmente, di Viggo Mortensen, alias Nikolaj, nonché autista («sono solo un autista», dice sibilando spesso nel film) del vecchio ed elegante boss ristoratore Semyon. Mortensen è corpo plasmabile, completamente tatuabile e perfino feribile, quasi fino alla morte, per svelare l'epifania dell'iniziazione (le stelle tatuate sulle ginocchia e tra spalle e petto) agli alti gradi della malavita e quindi della sua totalizzante vita sociale. Anna, una Naomi Watts più parvenu che altro, disturbata da una giovane neomamma russa appena morta, diventata tutrice dal neonato sopravvissuto e alla ricerca della traduzione del diario scritto in russo della ragazza (contenente squallidi episodi di denuncia del giro di prostituzione legato a Semyon) si fa mero pungolo esterno, moscone nero in tuta da motociclista, per far sbrigare più velocemente il percorso del protagonista. La strada, infatti, viene spianata per quella che il New York Times definisce una sequenza che diventa il film in sé (dietro ad esempi storici come il monologo di Travis Bickle in Taxi driver e la sequenza di stupro in Arancia meccanica): la lotta nella sauna tra due sicari vestiti e Nikolaj/Mortensen nudo che non si aspetta l'aggressione. Volano botte, scricchiolano ossa, scorre sangue senza demoni splatter, per un armonico balletto che si conclude con un eroticissimo scontro al coltello. In un film in cui fa persino capolino una presunta ambiguità sessuale del protagonista: dopo aver dato segni di impotenza, bacia Anna/Watts sfiorandole le labbra quasi con schifo e fugge via con Kirill, il violento e stupidone figlio di Seymon. Davvero queer.
Davide Turrini, Liberazione



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Il nuovo film di Cronenberg si apre con un uomo sgozzato a tutto schermo; prosegue con una adolescente che si accascia in un lago di sangue; e chiude questo incipit da antologia col primo piano inquietante di un neonato ancora coperto di liquido amniotico attaccato a un respiratore immagine che è quasi la "firma" del regista di Inseparabili e La Mosca, sempre attento agli incroci fra l'uomo e la macchina, la carne e il metallo. Eppure La Promessa dell’Assassino, action-thriller fisico e teso come e più di A History of Violence, è anche una specie di "documentario fantastico" sulla mafia russa a Londra.
Documentario per l'estrema attenzione ai segni, ai codici, ai commerci di questo mondo segreto di esiliati. Fantastico per la libertà del tono e dell'intreccio, fra lotta di potere e storia di famiglia (lo script è di Steve Knight, lo sceneggiatore di Piccoli affari sporchi di Frears). Volendo lo si può raccontare come la storia di due diari, opposti e complementari. Il primo è il diario trovato dall'ostetrica inglese di origini russe Naomi Watts addosso all'adolescente che muore fra le sue braccia in apertura dando alla luce una bambina. Grazie a quel diario, scritto in russo, la Watts arriva a un ristorante in stile zarista gestito dall'anziano e apparentemente bonario Armin Müller-Stahl. Non sa di essere finita nella tana del lupo. Lo scoprirà a sue spese, decifrando poco a poco un altro "diario", meno visibile ma anche più ambiguo. Il diario che si porta tatuato addosso Viggo Mortensen, autista e uomo di fiducia del capogang: un tipo così tosto che sbrina i cadaveri col fohn e si spegne le sigarette sulla lingua. Logico che Müller-Stahl lo tratti quasi come un figlio. Anche perché il figlio vero (Vincent Cassel), isterico e tracotante, è un finto macho debosciato e cripto-gay, segretamente innamorato e ovviamente gelosissimo dello stesso Mortensen.
A questo punto l'indagine della Watts è quasi un pretesto per spingerci in fondo a questo universo fatto di guerre fra clan, esecuzioni barbariche, riti di affiliazione (qui si scopre in tutta la sua ampiezza il "diario" tatuato sul corpo statuario di Mortensen), lotte selvagge (altra scena da antologia: Mortensen che affronta, completamente nudo, due killer in una sauna). Ma quello che in altre mani sarebbe stato solo un film d'azione in più, diventa grazie a Cronenberg l'allucinante referto della crisi di un intero continente. Reso con una furia coreografica e insieme un'aderenza sentimentale che stringe il cuore.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero



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Un film straordinario dove la storia è già successa. Un corollario di A History of Violence
Una voce legge un diario, una storia triste e consueta di promesse spezzate e non mantenute. La storia di una ragazzina arrivata a Londra dall’Est, violentata, drogata, prostituita, morta in ospedale mentre nasceva la sua bambina. Un’ostetrica di origine russa si mette alla ricerca dei suoi parenti per affidare loro la bambina e arriva dritta a una delle fratellanze russe più potenti di Londra: la “Vory V Zakone” (più o meno, “ladri nella legge”), guidata da un uomo anziano dall’apparenza bonaria e dal cuore di ghiaccio, Semyon, proprietario di un ristorante sontuoso, padre e capobanda spietato. La storia di La Promessa dell’Assassino è tutta qui: è già successa. Tutti hanno già un ruolo immutabile, assegnato loro dalla nascita, dal denaro, dalla nazionalità, dal sesso, dal “colore” nel quale vivono immersi, il nero e le ombre di una metropoli notturna e violenta (e il porpora e l’oro della “facciata” rappresentata dal ristorante con i suoi riti), e i pastelli suburbani della gente “perbene”, tutt’altro che separata e immune, anche se non lo sa, dagli orrori quotidiani che si consumano in città. Tutto ritorna, anche qui, come in A History of Violence, peccati, condanne, connessioni riemergono dal passato, padri e figli si detestano, i servizi segreti s’intrecciano con le mafie, far perdere le proprie tracce è impossibile. Per questo il film di Cronenberg comincia con una storia già terminata, alla cui conclusione manca solo un pezzettino di giustizia (la salvezza di una neonata), e rifiuta categoricamente di raccontarne un’altra. Alla fine del film, il protagonista Nikolai, un autista-killer al servizio di Semyon, non ha più nemmeno un riquadro di pelle libera dai tatuaggi che raccontano la sua storia criminale; non ha futuro se non quello imposto dalle stelle incise sulle sue scapole che lo identificano come un capo. Inutile interrogarsi sull’esilità di una trama che si nega a qualsiasi sviluppo narrativo tradizionale, che vive di rapporti psicologici intuiti, consunti o mai consumati, che ha lo splendore astratto di un balletto di ruoli (sintetizzato dalla violenza carnale e letteralmente “danzata” della scena nella sauna) e il disincanto di un teorema sul mondo occidentale contemporaneo. Senza scappatoie, se non per quel sussulto di rigore morale che innesca il suo meccanismo, l’orrore di una morte ingiusta, la tenerezza di una nascita: quel sangue e quegli umori non cambiano la Storia, ma aiutano a restare vivi senza vergognarsi.
Emanuela Martini, FilmTV



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Cos’è che produce la meraviglia intensa, sensuale, profondamente psicotica che si prova di fronte all’ultimo grande film di Cronenberg? E come è possibile che un film apparentemente di genere - mafia russa a Londra — non abbia una sola inquadratura accademica, classica, ma sia invece capace di rituffarci, con meno manierismo, nell’ossessione della carne-macchina, in quel virus patologico che è il segno del Cronenberg più estremo? Non è facile spiegarlo. C’è il luogo, innanzitutto: quella Londra senza Big Ben e Millennium Dome, metropoli degli angoli perduti dell’immigrazione dall’Est, così reale, così astratta. E Poi c’è il delitto, che nel film si nutre del degrado della carne, è fatto di sevizie, stupri, corpi pallidi e prostituiti, mutilazioni, cadaveri congelati: ha una sua temibile, patologica, quotidianità e, allo stesso tempo, surrealtà. Non per nulla la storia ha origine da un’emorragia con nascita prematura, che porta l’ostetrica Naomi Watts fino al clan mafioso dei Vory V Zacone. La sua apparizione squilibra gli uomini della gang, specialmente il killer. autista, l’imperturbabile, disseccato Nikolai/Viggo Mortensen. In lui si sposano alla perfezione sensualità animale e cerimoniale freddo del delitto, cuore in tumulto e protocollo del cinismo. Fino all’esplosione nella scena della sauna, duello coreografato all’ultimo sangue, dove il corpo di Viggo, nudo e istoriato di tatuaggi, si batte come un animale disperato, martoriato tra i fumi del vapore e i marmi scivolosi. Raramente il cinema ha raccontato con tale epica fisicità la volontà disperata di non morire. E di sollevare la testa dal Male.
Pietra Detassis, Ciak



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Vincere a Toronto, sostengono in molti, può aprire le porte alla vittoria dell'Oscar. Così il canadese David Cronenberg, ottenendo il People's Choice Award con Eastern Promises (La Promessa dell’Assassino), si mette in corsa per la futura notte degli Academy Awards. Ancora una volta insieme a Viggo Mortensen, già diretto in A History of Violence, il regista di Spider e La Mosca racconta le vicissitudini di un'ostetrica londinese che rimane invischiata nel giro della mafia russa.
'Poesia decadente' e teatralità, rituali occulti e ritmi incendiari. Pulsione e riflessione. Le storie declamate dal baritono inquietante di Cronenberg sono un pugno in faccia ai valori precostituiti, quell'urlo epico e 'martellante' sulla nostra imminente auto-distruzione, metamorfosi della visione (processo estremo), condizione artistica consumata sulla parete leggendaria della geniale coerenza espressiva: adesso le conseguenze del gioco (sistemi tattili, visivi e sensoriali) possono avere ripercussioni anche sulla vita reale.
'L'immagine in movimento': fascinazione tra l'organico e l'elettronico, in una cornice tecnicistica. Per condurci dalla materia allo spirito. Luce nella casa di quest'ultima, e penombra, appena squarciata dal gioco nervoso delle dita sulle tendine di plastica (instabili): meditazione sulla relatività delle apparenze; il dubbio davanti alla verità dei 'viaggi segreti' come passaggio evoluzionistico. Suoni, molteplici, lavorati, misteriosamente remoti; film fantastico o d'orrore, ma un cinema che si organizza su due poli egualmente fertili per la nostra immaginazione: l'umorismo, addirittura. E, naturalmente, l'inquietudine: "Una volta ho sognato che stavo guardando un film, e il film provocava in me un invecchiamento rapido. Lo stesso film mi stava contagiando, mi stava trasmettendo una malattia che provocava l'invecchiamento; lo schermo diventava uno specchio in cui io mi vedevo invecchiare. Mi sono svegliato in preda al terrore. Ecco di cosa sto realmente parlando, è qualcosa di più di un qualsiasi piccolo virus".
Fragilità, la debolezza in energia di sopravvivenza, la consapevolezza in determinazione: cinema filosofico e crepuscolare, filtra il materiale fantastico attraverso le più diverse ossessioni umane. Un cinema in 'prima persona'; viaggiare 'oltre le apparenze': la fantasia dello spettatore fino al prolungamento del 'non detto'. Ed il contatto con la carne. L'antico simulacro 'degenerativo' nei confronti della modernità tecnologica (eXistenZ). 'Avventura fantastica' che intuiamo mortale. Perchè, 'il doppio è ancora una coppia': una coppia perchè è impossibile separarsi da quelle 'antitesi inquietanti', indissociabile ed eternamente indefinite, che ognuno porta in sé stesso (Inseparabili). Tema fondamentale della quasi totalità dei film di Cronenberg è l'ossessione per la 'mutazione del corpo', in un rinvio di specchi fra realtà e fantasia. Immagini quotidiane, naturali, falsamente idilliache; ma che nascono dal desiderio (pittore della materia): il piacere, gratuito, del gioco dell'esistenza. L'inventario di una poetica: il corpo umano virtuale (Videodrome) la sensualità delle 'ferite mortificate' (Crash), 'verso il film', nel tentativo di comprendere; e verso noi stessi. Per sciogliere quelle indefinibili 'identità emozionate' rimesse in questione.
Andrea Olivieri, cinemadelsilenzio.it



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Il cinema di David Cronenberg ha avuto nell’arco di oltre trenta anni una sua chiara evoluzione, pur mantenendo al centro della sua poetica il corpo, la carne, il sangue. Dalle atmosfere horror de Il demone sotto la pelle (1975) e Rabid - Sete di sangue (1976), film nei quali la tendenza splatter era più che evidente, a opere come Spider (2002) e A History of Violence (2005), la cifra contenutistica del suo cinema sembra aver mantenuto talune caratteristiche che l’hanno fatto diventare regista di culto, specie per certe frange di cinephiles. In tutto questo periodo, Cronenberg ha però anche affinato il suo stile e messo a fuoco il suo universo poetico, che sempre più si è spostato verso il tema dell’identità. Di identità di parla in Spider, così come in A History of Violence. Ora con La Promessa dell’Assassino, questo fulcro tematico (insieme a quello più esteriore della compenetrazione tra bene e male) si è fatto più limpido, chiaro cardine di un’architettura espressiva che trova i suoi puntelli anche in un uso intelligente dei codici di alcuni generi.
L’ultima fatica registica dell’autore canadese rappresenta un sorta di felice intreccio tra gangster-movie e spy-story. Croneberg ha utilizzato alcuni elementi tipici dei film incentrati sul fenomeno mafioso (nel caso specifico si occupa di mafia russa) e li ha inseriti in un contesto spionistico/poliziesco che viene svelato in un passaggio cruciale della vicenda. Ovviamente, non è la prima volta che il cinema si occupa di poliziotti/agenti segreti che lavorano sotto copertura nel mondo criminale, ma ciò che differenzia La Promessa dell’Assassino da tutte le opere simili e appunto l’approccio concettuale di Cronenberg che si traduce anche in un’impostazione formale riconoscibile.
La Promessa dell’Assassino è un lungometraggio freddo, composto, misurato. La violenza è praticata dai protagonisti in una sorta di meccanismo esistenziale che trasforma atti riprovevoli e sanguinari in procedure quasi burocratiche. I mafiosi russi e ceceni che uccidono e sgozzano senza pietà, si comportano seguendo alla regola alcune procedure che riconoscono come le sole istanze normative alle quali si può fare riferimento. Cronenberg da una veste visuale a queste pratiche molto algida e scioccante. Le sue inquadrature sono solide e chiare, le sue immagini sono rese “metalliche” da una fotografia che fa divenire raggelante ogni fattore cromatico. L’autore poi, a parte il personaggio interpretato da Vincent Cassel (attraversato da un vena di follia) impone ai suoi attori una recitazione assolutamente controllata che contribuisce a far divenire la visione del film straniante. In tal senso, straordinarie appaiono le prestazioni di Viggo Mortensen e Naomi Watts. Addirittura strepitosa quella di Armin Mueller-Stahl, attore (a nostro avviso sottovalutato) di cristallina abilità in grado di comunicare orrore e depravazione attraverso un’interpretazione di rara compostezza espressiva.
La Promessa dell’Assassino porta alle estreme conseguenze il discorso iniziato da Cronenberg in A History of Violence. Rappresenta un mondo cupo ed estremo, in cui la morte ha un posto centrale e in cui la disperazione esistenziale è esorcizzata attraverso la pratica quotidiana della violenza ingiustificata.
Come al solito, il cinema di David Cronenberg non risulta rassicurante, anzi lascia lo spettatore in uno stato di disagio provocato principalmente dal pessimismo che emerge dalla poetica del cineasta canadese che, sempre più, si occupa dell’identità degli individui, i quali riescono a sopravvivere solo nell’ambiguità. Da comportamenti superficiali/esteriori e perversioni generate dal falso senso esistenziale scaturiscono comportamenti imposti anche da un sentimento malato di appartenenza.
Ne La Promessa dell’Assassino la mafia russa, violentissima e crudele oltre ogni limite, è la metafora di una società frammentata e chiusa in particolarismi che finiscono per provocare ossessioni e una tragica, quanto inevitabile, tendenza verso la morte.
Maurizio G. De Bonis, sncci.it



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David Cronenberg ne La Promessa dell’Assassino, presentato con successo nella sezione ufficiale del 55° festival di San Sebastian, continua il proprio personale percorso narrativo raccontando ancora un’altra ‘storia di violenza’. Se, però, nel lavoro precedente A History of Violence (2005), a cui quest’ultima opera sembra direttamente collegarsi, il regista canadese sembrava voler nascondere accuratamente la propria mano, allo stesso modo in cui il protagonista Tom si sottrae al ricordo della passata vita da killer professionista, qui la direzione assume una forza epica dovuta alla consapevolezza con la quale l’autore mescola i meccanismi del thriller noir alla narrazione. D’altra parte, come sottolinea lo stesso Viggo Mortensen, protagonista di entrambi i film, ne La Promessa dell’Assassino il personaggio di Nikolai, anch’egli costretto a celare il proprio passato, "sa cosa vuole e soprattutto sa chi è".
La caduta del regime socialista ha fatto emergere una miseria e un’insofferenza diffusa in gran parte della popolazione dei paesi dell’ex Unione Sovietica, che di conseguenza ha visto aumentare negli ultimi anni l’emigrazione di giovani ragazzi e ragazze disposti a lasciare l’Europa orientale per inseguire le promesse della ‘civile’ Europa occidentale. Quelle promesse di una vita migliore, di un mondo nuovo, a cui si riferisce il titolo del film, si trasformano però nella maggioranza dei casi nella barbarie dello sfruttamento, che nel caso delle donne, anche molto giovani, significa prostituzione. All’interno di questo scenario si muove la pellicola di David Cronenberg che, anche grazie all’aiuto di Steven Knight, già sceneggiatore di Dirty Pretty Things di Stephen Frears, e dell’ormai inseparabile direttore della fotografia Peter Suschitzsky, restituisce con attenta dovizia di particolari la vita degli immigrati russi nella capitale britannica e l’orrore della realtà della loro malavita.
Il racconto segue un plot classico da gangster movie, ricordando l’essenzialità del dramma shakespeariano, e si svolge in una Londra antica, ferma in un tempo indefinito, e se possibile ancora più buia, piovosa, cupa, piena di rancori e crudeltà pronte ad esplodere. "Non nevica mai, non fa mai caldo, Londra è una città di puttane e froci", in questo modo il boss della mafia russa, ironicamente sconfortato, conferma la necessaria ineluttabile normalità della violenza nel sistema sociale di ieri e di oggi. Così nella sequenza introduttiva un normale taglio di capelli dal barbiere diventa una sanguinosa esecuzione mafiosa, mentre l’ingresso di una ragazza spaesata in una farmacia si trasforma in una tragica corsa verso l’ospedale; dove Tatiana, questo è il nome della giovane donna ucraina, appena quattordicenne, muore durante il parto dando alla luce una bambina.
Siamo alla vigilia di Natale e quell’avvenimento, quasi profetico, sembra turbare profondamente Anna, l’infermiera di turno, interpretata da una convincente Naomi Watts, che decide di ricercare le origini della piccola cosciente di dover affrontare in qualche modo anche le proprie; visto che anche la sua famiglia ha origini russe. In fondo quello della protagonista è il tentativo di interrompere l’indifferenza della quotidianità per riscattare almeno, se possibile, la vita di quell’unico essere innocente, ma per farlo deve portare alla luce la verità. Verità che i personaggi di Cronenberg, solitamente, preferiscono tenere occultata, perché destabilizzante di una realtà in essere alla quale non ci si può opporre, pena la rivelazione di un altro da sé orribile o diverso con cui è a volte impossibile confrontarsi. Per questo Nikolai, l’autista personale di Kiril (Vincent Cassel) unico figlio ed erede del boss, quando incontra Anna le spiega: "I go right. I go left. I go straight. That’s all I do!". Il personaggio, interpretato magistralmente da Viggo Mortensen, si limita ad andare a destra, a sinistra, diritto, come un eroe tragico moderno, segue l’inesorabile scorrere del destino che egli stesso si è designato senza ripensamenti, senza voltarsi indietro.
Metafora del lavoro dell’attore Nikolai, infiltrato della polizia di stato russa, recita il ruolo del malavitoso ed il suo stesso corpo diventa un luogo sacrificabile per la scena su cui proiettare, attraverso una serie di tatuaggi, la propria trasformazione in un vory v zakone (letteralmente "ladri per statuto"), ovvero un affiliato della mafia russa. Questa favola nera giunge al lieto fine, attraverso una contrastante relazione tra eros e tanatos che coinvolge tutti i personaggi, ma la battaglia dove il bene ed il male si confondono e compenetrano all’infinito non sembra potersi concludere mai. L’infermiera può, così, adottare la piccola Cristhine, il boss arrestato e incriminato per abuso di minore e traffico di prostituzione, mentre lo chauffeur che ha ormai scalato i vertici dell’associazione criminosa, nell’ultima significativa sequenza, ci appare in tutta la sua statuaria ambigua consistenza, imprigionato nel ruolo dell’eroe, costretto a scavare fino alla radice della violenza per poi chissà, forse, riuscire ad estirparla o conviverci per l’eternità.
Emanuele Nespeca, drammaturgia.it


Cronenberg, sotto l’abito disegnato del progetto, è nudo e crudo e si applica allo script. Cronenberg, divelte le vesti, è nudo e crudo, lo è fin dall’inizio: la stilizzata truculenza di uno sgozzamento, una pozza di sangue da rottura di placenta, un neonato gelatinoso a cui viene applicato un respiratore, un cadavere scongelato con il phon, un taglio di dita in dettaglio. La chirurgica macchina da presa di Suschitzky disegna anche Eastern Promises, pellicola che è difficile non considerare in rapporto stretto e necessario al precedente A History of Violence, sembrando, questi due film, formare un dittico (e non è solo la questione, ampiamente/inutilmente dibattuta, della serie B e del possibile, teorico aggiramento di una “normale” strategia produttivo-commerciale – Cronenberg Autore che, perdinci, funziona al botteghino - che è all’origine del progetto) in cui i due film dialogano e si confrontano specularmente. Il perno Viggo Mortensen (attore magnifico che sembra tradurre alla perfezione l’algore cronenberghiano, incarnazione sublime della duplicità su cui si fondano entrambe le opere) ricopre un ruolo che pare uguale e contrario a quello di Tom Stall del precedente, invertendosi le coordinate: lì il Male (un Male problematico, pieno di sfumature) che, trasformatosi in Bene, veniva richiamato nel suo vecchio mondo per un ultimo, supremo confronto; qui il Bene (un Bene controverso e torbido, sia chiaro) trasfigurato nel Male ma poi improvvisamente reviviscente, dunque umano. Destatosi dall’ibernazione: salvifico. Un film di metallico rigore, fatto di personaggi (e ambienti, pure: il raffinato ristorante copre qualsiasi nefandezza) che si disfano della muta [una pelle marchiata da segni (in)confondibili – Nikolai tatuato con i simboli dell’onore sì, ma come bestia da mandare al macello, inconsapevole agnello (?) sacrificale -] e si trasformano, un film che gioca sugli opposti e corre su due basilari livelli (normalità – anormalità) che si incrociano quando Anna incontra il padrone del ristorante (le si apre davanti lo “strano mondo”; comincia una lenta, implacabile analisi dell’ambiente malavitoso fatto di abusi, mutilazioni, sfruttamento) e che, come aHoV, non rinuncia all’ironia straniante di chi percorre la strada del genere, ma tenendosi strategicamente ai margini della corsia.
Scritto da Steve Knight, già autore del copione di Dirty Pretty Things di Frears, imperniato anch’esso sulla descrizione della Londra invisibile degli immigrati, Eastern Promises è sì una carola natalizia come può intonarla Cronenberg (tutto si svolge nei fatidici giorni festivi), lucente, violenta, tesa, ma confezionata come un thriller classico (altrimenti dicasi hollywoodiano) e che dunque affida tutto alla dinamica del meccanismo, con solo l’ombra di un sentimento e (per carità) nessun sentimentalismo. Eastern Promises, con l’occhio all’accademia, sfrondato, come il precedente, da certo gridato cascame autoriale (Cronenberg, teorizzatore very clever, certo, ma troppe volte – quasi sempre? - imperfetto traduttore della sua medesima poetica), non privo del riconoscibile virtuosismo, è sicuramente più omogeneo del suddetto, apparendo come granitico blocco narrativo che si snoda senza bruschi cambi di direzione, laddove la secca, imprevista (geniale, lo dico) deviazione di aHoV sorprendeva e spiazzava, ma in cui uguali risultano le modalità di svelamento della trasformazione/svestizione (metaforica e letterale) del personaggio centrale che avviene, improvvisa nella seconda parte (nella magnifica scena del bagno turco - tesa, cruenta, simbolica – Nikolai, l’uomo nudo, dopo la lotta disperata, si dispone in posizione fetale: è lì che assistiamo all’esplicita mutazione/ nuova nascita?). E il finale, nel cuore caloroso della casa, lynchianamente (Blue velvet…) accogliente. Dunque poco o nulla rassicurante. L’ombra di una minaccia.
Si aggiunga il sottotesto, in cui elementi di differenziazione (nazionalità, cultura, sesso) vengono letti come chiavi del Disagio, subculture che incrociano altre subculture, vissute con orgoglio/viste con disprezzo, ciascuna costituendo una marca (s)qualificante, la squadra in cui giocare (la prova di virilità, il Chelsea - il presidente è Abramovich, non dimentichiamocene -, il test di fedeltà), il popolo o la famiglia (la Famiglia) da non tradire. Un incrocio di tematiche, che si riflette nel miscuglio che risulta essere questo film radicalmente contemporaneo, in cui la malavita è polverizzata e entra in ogni ingranaggio (la mafia russa sintesi della brutalità di oggi), in cui la polizia non esiste, opera meticcia come i nostri tempi, appunto, diretta da un canadese, scritta da un inglese, e ambientata in una Londra dove personaggi di origini russe, diversamente/egualmente sradicati, vengono interpretati da australiani (Watts), statunitensi (Mortensen), francesi (Cassel), tedeschi (Mueller-Stahl, stupendo), polacchi (Skolimowski), inglesi (Cusack), scelte di casting ovviamente studiate che impongono una visione del film rigorosamente in originale, per saggiare come ciascuno di essi pieghi (muti?) il proprio idioma originario alla cadenza russa, per apprezzare fino in fondo il superbo lavoro che il regista fa, com’è suo costume, col parco attoriale a sua disposizione.
Luca Pacilio, spietati.it


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La violenza secondo Cronenberg: capitolo 2.
Dopo A History of Violence, il regista Cronenberg ritorna con un secondo film sul tema della violenza. Nel primo caso, la rabbia umana era nascosta ed assopita per poi "esplodere". Nel nuovo film La Promessa dell’Assassino, il maestro canadese ci mostra l'aggressività come arma di ricatto e di potere. Un thriller dalle sfumature noir ambientato in un sobborgo della Londra dei nostri giorni, dove una famiglia mafiosa russa tesse la tela di potere e i suoi traffici illegali. Ad apprendere i segreti e i metodi della famiglia vi è anche Nikolai, serio e taciturno autista, ma all'occorrenza anche abile killer e becchino, interpretato in maniera ineccepibile da Viggo Mortensen, la cui espressività nel saper comunicare vale più di mille parole. Presto l'autista guadagnerà la fiducia del capo famiglia a scapito del figlio, interpretato da Vincent Cassel a tratti leggermente stereotipato. Nikolai trova sulla sua strada di mafioso l'ostetrica Anna (Naomi Watts), coinvolta a sua insaputa in una vicenda pericolosa dopo aver ritrovato un diario segreto, posseduto da una giovane paziente deceduta dopo il parto.
Apparentemente La Promessa dell’Assassino può sembrare semplice e scontato, un normale film sulla mafia - nel particolare quella russa - ma non è solo questo ciò che Cronenberg ci vuole raccontare. I film del regista canadese hanno spesso uno o più aspetti, non solo quello di raccontare una storia, ma una metafora della vita. Questa volta la violenza è quella del potere, dell'essere schiavi e ricattatori al tempo stesso, il cui unico scopo è raggiungere il fine, senza se e senza ma. Una violenza, oltre ad essere fisica e brutale, intrinseca nell'uomo stesso, viscerale e nascosta dietro ad un gesto, ad uno sguardo o una parola, e ciò si percepisce, come fosse uno sfondo, in tutto l'arco del film. A tal proposito due scene sono da manifesto: nel primo caso il duello con Mortensen, completamente nudo, che uccide con le proprie mani due killer all'interno di un bagno turco e il cui effetto anche scenografico e cromatico è molto forte. Il secondo caso è rintracciato, tra i tanti, nel momento in cui il padrino preferisce parlare da solo con Nikolai mandando via il figlio per andare a prendere del vino in cantina.
L'unica piccola pecca del film, se così si può dire, è il personaggio di Naomi Watts, forse un po' troppo sacrificato e ridotto ad una parte più semplice e forse più superficiale, nonostante la bella e brava attrice inglese. La Promessa dell’Assassino è un film che cattura molto lo spettatore e rende bene l'atmosfera da thriller noir e poi con un Mortensen così ispirato, come già in precedenza Cronenberg aveva saputo esaltare, non si poteva sbagliare. A differenza del finale nel film precedente, forse un po' in calo, questo si conclude in crescendo con un primo piano su Mortensen che lascia nel dubbio volontariamente lo spettatore. Da vedere. Al prossimo capitolo...
Giulio Cicala, icine.it



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Eastern Promises - La Promessa dell’Assassino è un gioiello di film.
Se perdere (credo definitivamente, a questo punto) l’apporto di David Cronenberg al cinema horror significa guadagnare e poter godere di un film di questa portata, allora siamo ben disposti a dire addio per sempre alla nuova carne per dare il benvenuto a quello che attualmente è il più grande cineasta dell’America Settentrionale.
Un percorso lucido, che dura da più di 40 anni e che ha portato l’autore canadese con La Promessa dell’Assassino a manipolare il genere, ad accettare lavori su commissione per poter poi stravolgere il materiale di partenza (già promettente, grazie all’ottimo e “cattivo” Steven Knight) e infettare il terreno dell’ordinaria storia di malavita con tutta una serie di virus e codici.
In Eastern Promises - La Promessa dell’Assassino non è Londra quella che riempie lo schermo, bensì una metropoli aliena vista con gli occhi di un canadese.
Calli veneziani che succhiano cadaveri in acqua e strani dinosauri postmoderni, gibbosi e imponenti nel loro metallo luccicante affollano le riprese esterne per poi cedere il passo a quelli che mi sembrano i migliori interni mai proposti da questo regista, che ha comunque fatto da tempo della cura ossessiva per ambienti e costumi un suo classico marchio di fabbrica.
E così come la città non è Londra, i suoi abitanti non sono londinesi, bensì un ceppo mutante, codificabile attraverso la mappatura dei tatuaggi sul corpo e in grado di parlare solo il linguaggio della violenza, con una netta separazione dal resto del mondo, declamata in modo esplicito da Viggo Mortensen a Vincent Cassel a una Naomi Watts che continua a premere ai confini di quell’universo, cercando di decifrarlo così come suo zio tenta di tradurre il diario di Tatiana.
Mai così erotico come in Eastern Promises - La Promessa dell’Assassino, il cinema di Cronenberg trasuda sesso e sensualità a ogni possibile inquadratura, che si tratti di qualche piatto tipico russo o del corpo di Naomi Watts, sempre coperto e fasciato da jeans e giubbotti eppure capace di destare molta più attenzione di una decina di tintobrasserie varie.
Imparziale e attento anche all’altra metà del corpo umano, Cronenberg sceglie di spogliare Viggo Mortensen proprio in una delle scene focali del film, creando una danza di morte fra lui e due killer (all’opposto, completamente vestiti) che rimarrà negli annali come una delle migliori scene di combattimento della recente storia del cinema, da sola in grado di ridefinire canoni e di dettare future evoluzioni.
Sgozzamenti, mutilazioni oculari, amputazioni delle dita e altro ancora aspettano il fan del sadismo e del torture movie, brillando come i più chiari esempi, per potenza evocativa e durezza formale, di quanto spenta, innocua e massificata sia la tortura da factory impostata dai vari Eli Roth e splat pack company varie.
Forse il solo elemento poco efficace è proprio la supposta sorpresa finale, che tale non è per uno spettatore appena smaliziato, ma che comunque non deve interessare più di tanto all’interno dell’economia della pellicola.
Future, ulteriori visioni della pellicola dovrebbero confermare quel che già mi azzardo a dire fin d’ora: con Eastern Promises ci troviamo di fronte al miglior Cronenberg di sempre, per controllo della materia, per ricerca del dettaglio e della perfezione in ogni elemento tecnico, per raffinatezza dello sguardo e potenza degli improvvisi, innumerevoli pugni in faccia che riserva allo spettatore.
Cast a livello stellare in OGNI suo elemento: citare qualcuno sarebbe far torto a tutti gli altri, anche se è impossibile non segnalare la spettacolare performance di un Viggo Mortensen mai visto a questi livelli, in grado di alternare l’impassibilità del carnefice alla violenza sfrenata dell’episodio di sesso, per poi svoltare nella compassione di uno sguardo di enorme espressività.
Fotografia, costumi, scenografie, montaggio e musiche (tutti di altissima qualità) completano il quadro di una pellicola destinata a rappresentare uno spartiacque per un certo genere cinematografico.
Almeno due gradini superiore al già ottimo A History of Violence, Eastern Promises - La Promessa dell’Assassino è un film da guardare e gustare a ogni costo.
Elvezio Sciallis, latelanera.com



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Dopo la svolta artistica di A History of Violence, David Cronenberg torna con un nuovo thriller ad alto tasso di violenza. Ambientato a Londra nel sottobosco criminale di origine est-europea.
Il Trans Siberian è un ristorante di Londra che funge da copertura per i loschi traffici della mafia russa, gestito da Semyon, un anziano boss, e da suo figlio Kirill (Vincent Cassel) che si accompagna al fido Nikolai (Viggo Mortensen), un affilliato con la mansione di autista. Un giorno la famiglia affida un compito a Nikolai: recuperare il diario compromettente di una ragazza morta dopo un parto, caduto nelle mani di una giovane infermiera (Naomi Watts).
Da qualche tempo Cronenberg sembra interessato a nuove tematiche, più terrene e meno teoriche: i tempi di Videodrome (1982) e della nascita della "nuova carne" sembrano definitivamente passati. Quello a cui si assiste, a partire dal bellissimo A History of Violence (2005), è una progressiva e lucida riflessione sulla brutalità della realtà, fotografata con dettagli macabri che lasciano ben poco all'immaginazione, un retaggio, questo, in puro stile horror, genere che il regista ha onorato con opere memorabili (Scanners, La Zona Morta, La Mosca, ecc.)
La Promessa dell’Assassino si immerge in territori "pericolosi", nascosti all'occhio comune dell'uomo della strada, un mondo codificato di segni e gesti, in cui i tatuaggi impressi sulla pelle dei criminali delineano il grado di importanza e la storia dell'individuo all'interno dell'organizzazione.
Viggo Mortensen, mai cosi bravo, interpreta un autista-becchino dai metodi glaciali, sempre vestito con un elegante completo nero. L'attore, celebre per il ruolo di Aragorn nella saga de Il Signore degli Anelli, ha vissuto un periodo in Russia per apprendere la lingua e avere un accento credibile (purtroppo il doppiaggio italiano non rende giustizia), si è documentato sulla malavita locale e preso contatti con diverse persone del luogo. Il risultato è clamoroso: parlare di premio Oscar non è esagerato.
Ma degne spalle del protagonista sono anche Vincent Cassel (Il patto dei lupi, Irreversible, ecc.), ormai esperto nell'arte di tratteggiare persone disgustose come il gangster sbruffone e ubriaco Kirill, oppure il boss incarnato con affabile crudeltà e classe da Armin Mueller-Stahl (The Game), tanto da rivaleggiare con Mortesen in bravura. Naomi Watts (The Ring) si destreggia molto bene rendendo credibile il personaggio di una premurosa levatrice.
La spirale di violenza ne La Promessa dell’Assassino non risparmia i più deboli, a farne le spese sono soprattutto le (giovani) donne, giunte dall'Est europeo con la promessa di una vita migliore che rimane delusa. Il sangue sgorga in maniera impressionante, con un realismo da lasciare basiti e reso ancora più feroce dalle armi da taglio, tradizionali strumenti di morte sempre efficaci e che non perdonano.
La sequenza ambientata nella sauna è già entrata nella storia del cinema, e Cronenberg si può permettere di dire: “diventerà famosa come quella della doccia di Psyco”. Il regista dirige con precisione cronometrica, aiutato dalla bella sceneggiatura di Steven Knight, un film che si segnala come uno dei migliori titoli del 2007.
L'unico appunto che si può avanzare è l'evidente influenza del precedente A History of Violence, che viene richiamato nella struttura narrativa e nella cupa atmosfera: dettagli che non inficiano la pregiata qualità della pellicola. Da non perdere.
cinemaz.it
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 14:13]
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