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Umanità, errori, visioni - due articoli

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 18:13
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Sesso: Maschile
13/12/2007 21:17


Per una “nuova” umanità?
Viaggio nel cinema mutante di David Cronenberg


Nella sua rigorosa astensione dagli effetti speciali, ma soprattutto nello spostamento dell’attenzione dal corpo umano alla mente umana, Spider (2002) potrebbe forse rappresentare uno spartiacque nel cinema morbosamente corporale del canadese David Cronenberg. Se è vero infatti che di effetti speciali aveva fatto già a meno in altri film, come M. Butterfly (1993) o Crash (1996), e che i meandri della mente umana erano già stati da lui ampiamente esplorati, è anche vero che qui per la prima volta (con la parziale eccezione de Il Pasto Nudo, 1991), il corpo umano cessa di essere il protagonista assoluto della storia, e la carne non appare più come il luogo privilegiato di profonde mutazioni. È un cinema mutante quello di Cronenberg, perché in esso si assiste alla costante trasformazione dell’essere umano in qualcosa di diverso da sé, alla costante alterazione delle caratteristiche peculiari della sua specie; ed è mutante perché a ogni film cambia, muta il punto di vista, ogni film mostra un aspetto diverso dell’umanità in via di mutazione. Questa costante evoluzione del cinema del regista canadese (con la sola eccezione, forse, di La Zona Morta (1983), il meno riuscito e il meno inseribile in questo discorso) ha però indubbiamente un bersaglio privilegiato: la scienza, presenza inquietante in quasi tutti i suoi film. La scienza intesa come scienza medica, sapere sul corpo umano, presente in tutti i primi film del regista, e la scienza come tecnologia, tentativo di migliorare la vita degli uomini, analizzata soprattutto nella seconda parte della sua cinematografia.
L’umanità, e gli scienziati in particolare, nei film di Cronenberg hanno una sproporzionata fiducia nella scienza, e credono di potersene servire liberamente, come se questa potesse costituire il rimedio per tutti i mali, come se fosse infallibile, come se non fosse anch’essa un prodotto dell’uomo.
Ne Il demone sotto la pelle (1975) alcuni scienziati vogliono creare un parassita che sia utile al corpo umano, ma poi ne perdono il controllo scatenando così l’epidemia; in Rabid (1977) la protagonista subisce un inusitato trapianto di pelle che la trasforma in un mostro assetato di sangue; in The Brood (1979) un medico sperimenta una cura, a metà tra la psicoanalisi e l’ipnosi, che si propone di eliminare nel paziente le pulsioni negative, ma ne nasce una covata di mostriciattoli assassini; ancora, in Scanners (1981) il tentativo di far nascere individui dal potenziale telepatico elevatissimo mette in pericolo l’intera umanità.
Il tentativo, insomma, di andare al di là dei nostri limiti, di puntare all’immortalità e all’onnipotenza, peccando in un certo senso di hybris nei confronti della natura e della nostra stessa umanità, è destinato a creare dei mostri e in definitiva a portare alla rovina, ben lungi dal perfezionarlo, il genere umano.
In Inseparabili (1988) uno dei gemelli Mantle, affermati ginecologi, convince una paziente di trovarsi nel migliore ospedale di Toronto perché “noi abbiamo la tecnologia”; sennonché anche la tecnologia è un prodotto della mente umana, e quando il suo gemello comincia a perdere la ragione, in preda a gravi problemi con l’eroina, dalla sua fantasia malata escono deliranti strumenti “per operare donne mutanti”.
Il problema, dunque, non è la scienza di per sé, ma l’incapacità dell’uomo di mantenerne il controllo in ogni momento, il nostro essere anche troppo fragili emotivamente: sempre in Inseparabili, i problemi dei fratelli Mantle cominciano quando Beverly si innamora di una donna, immettendo così un fattore estraneo nello strettissimo rapporto che ha col fratello, e si acutizzano quando questa, per motivi di lavoro, se ne va via per qualche settimana, facendolo sprofondare in una crisi che porterà entrambi i fratelli alla rovina. Così anche in La Mosca (1986): il grande scienziato Brundle Seth ha programmato la sua vita in funzione della scienza e quando conosce l’amore non riesce a conciliare questo ‘imprevisto’ con la sua precedente vita. Al primo attacco di gelosia si ubriaca e decide di provare su di sé il “teletrasbordatore”, la sua geniale invenzione, in condizioni molto precarie, commettendo infatti una disattenzione che gli sarà fatale.
Riponendo una smisurata fiducia nel progresso, e votandosi ciecamente a esso, l’uomo ha cominciato a perdere contatto con la realtà, ed è sufficiente anche solo un innamoramento (ciò che di più umano si possa pensare) a provocare un corto circuito dagli esiti sempre sconvolgenti.
In M. Butterfly, uno dei film più complessi e originali del cineasta (che tratta anche dell’imperialismo, dell’omosessualità, del rapporto dominatore-dominato), René Gallimard, un diplomatico francese che lavora a Pechino (interpretato splendidamente da Jeremy Irons), inizia un rapporto con una cantante d’opera cinese. Inizialmente, fiducioso nella sua posizione di superiorità (anche sociale e culturale), assume con lei un atteggiamento spavaldo e sicuro di sé (un po’ come i paesi occidentali, che erano convinti di poter controllare il contesto politico ed economico cinese). Successivamente, e senza che se ne renda conto, i rapporti di forza si invertono (ma forse le cose non erano mai state come credeva), e Gallimard si ritrova totalmente schiavo del suo amore, che si rivelerà addirittura una spia oltre che un uomo (ma come aveva potuto essere così cieco?).
È proprio il tema della perdita di contatto con la realtà, così presente un po’ in tutti i film di Cronenberg (a partire da Videodrome in particolare), a costituire l’altro punto cardinale della sua cinematografia, e l’ultimo argomento di questa ricognizione.
Non solo la sproporzionata fiducia nella scienza (e quindi in noi stessi) ci fa perdere i contatti con la realtà, ma la inarrestabile tecnologizzazione della società ci fornisce continuamente strumenti sempre più perfezionati per allontanarci da essa, e la tecnologia sta diventando sempre di più parte di noi stessi.
In Videodrome (1983) il protagonista, dopo avere visionato una serie di videocassette, comincia a non distinguere più il mondo del video da quello reale, fino a diventare egli stesso, in una memorabile sequenza, un videoregistratore umano; i protagonisti di Crash, invece, esplorano il rapporto tra incidenti d’auto e desiderio sessuale, convinti che è in atto un processo di “rimodellamento del corpo umano attraverso la tecnologia”. Corpi che diventano macchine, quindi, ma anche macchine che diventano corpi: ne Il Pasto Nudo, dove l’alterazione della percezione è dovuta alla droga, vediamo macchine da scrivere che si trasformano in insetti parlanti, mentre in eXistenZ (1999) l’ultima moda è un gioco di realtà virtuale a cui si gioca mediante dei joypad composti da materiale organico che si collegano alla schiena con una spina. Inutile dire che la confusione dei livelli di coscienza è totale, e il colpo di scena finale non è necessariamente da prendere come spiegazione a posteriori, tanto più in quanto è accompagnato dal beffardo grido di “lunga vita al realismo”.
Andare oltre, nel senso di una perdita di contatto con la realtà, sembrava difficile, ma con Spider Cronenberg, oltre a realizzare come detto un’inversione di tendenza, spostando la questione tutta all’interno del cervello umano, la porta a un punto che si direbbe definitivo. Spider ha già totalmente perso di vista la realtà, la vita che egli vive (e che ricorda) è puramente mentale, ed è questa perdita che ha segnato la sua condanna. In Spider le macchine e la scienza non hanno più un ruolo rilevante, e il destino tragico è già compiuto. Nel presente, infatti, vediamo Spider muoversi in una città assurdamente vuota, e i suoi coinquilini, malati di mente come lui, sembrano essere gli unici sopravvissuti a una catastrofe di maggiori dimensioni. Come se per Cronenberg l’umanità avesse già superato il punto di non ritorno, come se la perdita di noi stessi causata dalla nostra corsa verso qualcos’altro ci avesse già fatto diventare, nel migliore dei casi, tutti matti.
Ma allora, non c’è più scampo? O c’è ancora qualcosa da salvare? Soltanto a partire dal prossimo film, che aspettiamo con trepidazione, potremo capire se per il regista canadese l’umanità ha ancora qualche carta da giocare. Nella speranza che sia stato troppo pessimista, che recuperando ciò che c’è di più umano in noi (come i sentimenti, totalmente scomparsi in Crash) si possa sfuggire all’autodistruzione. Che insomma l’umanità non finisca, come nel terribile (e bellissimo) finale di Rabid, nel camion della spazzatura.
Diego Barboni, frameonline.it



***

Mutazioni, errori, visioni
Il cinema di David Cronenberg


Da quando David Cronenberg ha cominciato a esplorare il cinema, e con esso la “bellezza interiore” (lo spazio buio e omogeneo in cui prendono corpo i pensieri, il punto d’origine di ogni visione), ha illuminato alcune delle mutazioni generate dal cinema stesso nell’uomo, una “libido scopica” che si è insinuata, come un demone, sotto la pelle della realtà apparente (Il demone sotto la pelle è il primo lungometraggio del regista canadese). Quella tensione che, di pari passo allo sviluppo tecnologico, ha finito con l’invischiare il soggetto in una ragnatela di rappresentazioni inestricabile e senza verità alcuna, i cui fili indicano altrettanti percorsi e intrecciano innumerevoli nodi insolubili, che legano il soggetto alle proprie visioni, ormai prive di referente oggettivo, rispondenti unicamente alla loro natura di significanti autonomi.

Tutto il cinema di Cronenberg fotografa, scruta, seziona, i significanti autonomi che, come mutazioni genetiche, abitano l’uomo da quando esiste il cinema. Neoplasie che si moltiplicano e si espandono fino a dare nuova forma alla realtà intera, mutandone l’aspetto e l’assetto a partire dall’incrinarsi del confine che separa(va) la realtà dalla rappresentazione.
Da Videodrome (1983) in poi, Cronenberg cerca di declinare in ogni diatesi (nell’accezione medica e linguistica) possibile lo stesso tema: la fusione di un piano oggettivo di realtà con un piano soggettivo, il progressivo sconfinamento dell’uno nell’altro. La mutazione organica (nel primo Cronenberg biomeccanica, ad opera di Rick Baker) è la visualizzazione di questa fusione. Ne è il residuo visibile, la conseguenza tangibile. La mutazione è, come l’immagine, creazione di una nuova forma. Non a caso ogni mutazione visibile finisce per plasmare l’inquadratura, fino a contaminare progressivamente la struttura narrativa, che via via, fino a Spider, si fa più densa, fino ad “ingrumarsi” definitivamente in una struttura a tela di ragno, fino a rappresentarsi autonomamente quale essa è.

La qualità maggiore di Videodrome, finisce così per coincidere con il suo maggiore difetto: la tessitura di un ordito complesso attorno ad una tautologia, il fluire narrativo che si cristallizza in una sintesi plastico-visiva, una sorta di neoplasia.
Più si allontana dal dettaglio neoplastico (La zona Morta segna un passaggio importante in questo senso), più lo sguardo di Cronenberg si dilata, ed è l’immagine stessa a risultare contaminata. Differenti piani di realtà si fondono senza soluzione di continuità in una simultaneità spazio-temporale che anticipa le successive scelte estetiche del l’autore di Inseparabili (l’esempio più fulgido della definizione di questa poetica). L’incidente, l’errore umano, l’anomalia sono le costanti dell’opera di Cronenberg: spazi aperti al caso, all’errore di calcolo (La Mosca), zone morte in cui nuove forme prendono corpo (M. Butterfly).

Ogni visione cronenberghiana sembra trarre origine da un embrione indistinto e oscuro, da una materia che soggiace alla forma. Ogni visualizzazione di corpi estranei, siano essi escrescenze o fori, applicazioni o protesi, è un atto estetico: il tentativo di dar forma all’informe, di dar corpo al pensiero, di chiarire l’oscuro. L’immagine si cristallizza in visioni nitide, illuminate da una luce clinica (di Peter Suschitzky). L’informe costituisce la sostanza stessa della rappresentazione, fino a contaminare il tempo del racconto, che nell’evolvere e chiarirsi in senso longitudinale, involve e si aggroviglia nuovamente verso l’informe. L’andamento “bustrofedico” dei plot di Il Pasto Nudo, Crash, eXistenZ e Spider, che non contribuisce a sciogliere alcun intreccio, è il sintomo più evidente di un anelito all’oscurità narrativa, in nome di una sempre più preponderante autonomia dell’immagine (sottolineata dal commento sonoro “statico” di Howard Shore).

Lungo la cinematografia cronenberghiana, l’immagine si conferma una sorta di veicolo d’infezione: in quanto proiezione chiarificata dei recessi bui della mente, corpo del pensiero e rappresentazione dell’informe, tende a contaminare, mutare e sostituire la percezione della realtà fenomenica.
Il cinema, secondo Cronenberg, è già mutazione. Da corpo estraneo del soggetto pensante, si è fatto nuova natura, insieme organica e meccanica. La tecnologia è stata assorbita, assimilata, naturalizzata dall’uomo e l’immagine cinematografica non è che l’espressione di un’osmosi naturale.
Riccardo Triolo, sncci.it
[Modificato da |Painter| 10/06/2010 18:13]
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