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A cuore aperto - la conferenza di Torino (2003)

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 18:00
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Sesso: Maschile
24/11/2007 20:17


[…] Cronenberg è a Torino su invito di Volumina, l'associazione di Mimmo De Gaetano e Alessandro Amaducci (con l'appoggio «esterno» di Nello Rassu), per continuare il progetto di interferenza tra linguaggi iniziato con Greenaway alla Mole e reso possibile da uno di quei contributi a pioggia di Giampiero Leo, forse poco «politici», ma spesso provvidenziali. Riunioni di lavoro a parte, Cronenberg farà due incontri con gli studenti, mercoledì alla Scuola di cinema d' animazione a Chieri e giovedì al Dams. […]
Sergio Tuffetti, La Repubblica



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La nebbia che avvolge la città aiuta David Cronenberg a nascondere dietro un velo d' ironia l'impressione favorevole per la Torino cinematografica. «Mi dicono che ci sono le montagne attorno alla città, ma io non le ho viste», scherza con gli studenti stipati ieri mattina nell'aula magna per la «lezione» organizzata da Volumina, Dams e Mediateca. Ma, incalzato dall'assessore comunale Fiorenzo Alfieri, che gli chiede conforto al progetto culturale di Torino di trasformarsi da città dell'auto in città del cinema - ritrovando l'antica vocazione dell'era Cabiria - il regista di Crash (film estremo sull'uso «improprio» dell'auto: come Torino?) non tarda a capitolare: «Anche se sono a Torino solo da un paio di giorni e dunque mi è un po' difficile orientarmi nelle nuove strategie di sviluppo della città, mi pare che brilli ovunque una bella carica di talento, di voglia di fare: e il Museo del Cinema è proprio l'immagine-simbolo di una centralità del cinema che a Torino, se insiste, non potrà certo sfuggire».
Mario Serenellini, La Repubblica



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Il 20 Novembre 2003 David Cronenberg arriva, finalmente, a Torino: un’apparizione che negli anni era stata preannunciata centinaia di volte, ma che alla fine è arrivata in maniera quasi inattesa, con il regista canadese ospite del Dams dell’università torinese in uno degli incontri con gli autori (le “Lezioni di Cinema”) che da qualche tempo animano l’attività formativa dell’ateneo. Il regista di Toronto giunge in una sala gremita solo dopo che i padroni di casa (ma oltre ai professori locali Giulia Carluccio e Giaime Alonge, a cui si accoppia per l’unico intervento sensato Sergio Tuffetti della SNC, sono presenti i mitici Donato Santeramo e Anthony Cianciotta, la cui partecipazione in vero è sormontata da un immenso punto interrogativo) hanno pontificato per una buona mezzoretta, tempo in cui il Santeramo si è lasciato andare a paragoni arditi: tra i tanti, ricordiamo solo il suo accostamento diretto tra le tattiche del cinema di Cronenberg quelle del cinema di Fellini (e fin qui, pure pure..), che secondo il critico italo-canadese sarebbe addirittura la diretta ispirazione del cinema di Cronenberg. Ci tratteniamo a stento da una immediata rappresaglia, forse per rispetto della nuova carne. L’Aula Magna dell'università è piena: David entra all'improvviso, facendosi strada tra la gente assiepata, sfoggiando la sua pettinatura post-millennium (capello all’indietro con ciuffo leggermente rigonfio, già ammirato a Cannes), accompagnata dall’ormai solita camicia sbottonata da tombeur de femmes conclamato; lo sguardo è fiero e tranquillo, la sua figura si impone sulla cattedra con forza. Quando raggiunge il suo posto al centro del desco è affiancato da un minuta signora in veste di traduttrice: ella sarà maledetta dai vostri testimoni per tutti i successivi minuti di sfruttamento a causa della sua totale inefficienza. Di seguito la cronaca della conversazione interpretato dai vostri testimoni: Vincenzo regista delle domande nella stanza dei bottoni, Daria Pomponio allo scrittoio degli appunti, Pietro Liberati al reparto registrazione. Tra di noi c’è anche Matteo, amico di Giai Via:

David Cronenberg: Io non ho nulla di particolare da dire: invito voi a fare delle domande per animare la discussione.
Nelle prime file si alza uno studente: Il suo cinema insiste molto sull’interrelazione tra la tecnologia e l’uomo: i media e la televisione in particolare, ma anche tutte le nuove tecnologie hanno cambiato i rapporti tra gli individui. Il contatto non è più quindi uomo-uomo, ma tecnologia-uomo. Cosa ne pensa di questo mio pensiero?
DC: Ho sempre pensato che la Tecnologia sia frutto delle capacità umane, e non qualcosa che travalica l’umanità, ma il riflesso e l’estensione di chi l’ha creata. Credo che lo sviluppo tecnologico sia in continuo cambiamento, ma non sta cambiando noi, siamo noi a cambiare la tecnologia.

Prende la parola CinemAvvenire: Innanzitutto volevamo sapere qualcosa sul suo rapporto con la troupe. Sin dall’inizio della sua carriera ha sempre mantenuto un rapporto costante con gli stessi collaboratori di film in film, formando una squadra quasi sempre fissa: qual è il suo rapporto con Peter Suschitzky, Carol Spier, Ronald Sanders…?
DC: Sono tanti anni che lavoro con le stesse persone: siamo come una famiglia, un gruppo in cui i rapporti si stabiliscono in una dialettica di tensione e impegno: più c’è clima familiare, meglio è per il film. È qualcosa che non succede a Hollywood, dove quando si deve produrre un film si usano i personaggi più di moda, magari quelli che sono stati appena premiati con un Oscar. In tal senso io sono più sulla linea ‘europea’: cerco di creare un gruppo. Quando ho uno script per prima cosa lo invio ai miei collaboratori, al mio direttore della fotografia, al mio montatore e alla mia scenografa, e ovviamente anche a Howard Shore, che cura la colonna sonora: chiedo loro un parere sincero, è questo è l’inizio della collaborazione: è un processo molto complesso e molto intimo.

CinemAvvenire insiste, la traduttrice non sente la domanda…, riformuliamo, vostro onore: Che cosa ci può dire sul progetto abortito di Basic Instinct 2? Per quale motivo le piaceva la sceneggiatura?
DC: Era una progetto inusuale per me, ma conoscevo gli sceneggiatori [tra cui Henry Bean, l’autore di The Believer] e gli attori, avevo già lavorato con loro in altre occasioni. Quando l’agente mi chiamò, mi disse: “Non attaccare la cornetta, perché ci sarebbe da fare Basic Instinct 2. Ok, togliti subito dalla testa il titolo, fai tabula rasa e leggiti il copione! E’ molto bello, erotico, avvincente!” Effettivamente era un ottimo script: è chiaro che io non avrei mai fatto Basic Instinct 1: ma parlai con Sharon Stone di questo secondo capitolo, e anche lei lo trovava un buon progetto.

CinemAvvenire reclama un’ultima domanda, il pubblico rumoreggia: Vorremmo sapere che fine ha fatto il progetto “Painkillers”? Robert Lantos ha trovato i soldi per produrlo? E più in generale, cosa ci può dire sulla produzione dei suoi ultimi film con Lantos stesso?
DC: Sarebbe meglio parlare di film che ho già fatto. Painkillers l’ho scritto 4/5 anni fa: era un progetto a cui in quel momento credevo molto. Ma quando ho riletto la sceneggiatura qualche tempo fa mi sono reso conto che io ero molto cambiato e avevo altri interessi: capita spesso che una sceneggiatura sia realizzabile solo dopo alcuni anni per motivi economici, e nel frattempo si diventa persone differenti, con punti di vista e interessi nuovi.

Uno studente ruba il microfono: per la prima volta la malefica traduttrice sente la domanda: Sto facendo una tesi sulla psicopatologia dei personaggi nei suoi film. Si può dire che tale psicopatologia è stata deviata negli ultimi film nell’ambito familiare, rispetto ai precedenti in cui era concentrata in rapporto con i media?
DC: Per me è difficile parlare dei miei film secondo le vostre categorie. Posso dire che una film come The Brood [il suo quarto film, girato nel 1979] riguarda i rapporti familiari., e che quindi la teoria da lei espressa non è esatta. Ma oggi il mio cinema esplora altri territori. Lo sviluppo del proprio lavoro è come quello di una foresta pluviale: irregolare. È difficile dire perché non voglia fare più Painkillers, e per quali ragioni 5 anni fa invece lo volessi fare.

Domanda di prammatica dell’assessore, che reclama il microfono e poi asserisce: Torino è una città famosa per la produzione delle auto ma anche per la nascita del cinema. Pensa che riusciremo a riportarla ad essere una delle capitali del cinema?
DC: Sono solo tre giorni che sono a Torino, per cui è molto difficile capire se ci sono le infrastrutture per cui possa diventare di nuovo una capitale del cinema. Forse è a causa della nebbia che mi renderebbe difficile fotografarla [ride sotto i baffi]; mi dicono che ci sono montagne attorno alla città, anche se io non le ho viste: mi fido [di nuovo sogghigna]. In verità, parlando seriamente, ho l’impressione che non manchino qui talenti o intraprendenza. Il museo, ad esempio, è molto bello…

Uno studente: Volevo ascoltare da lei alcune riflessioni sul genere horror: ritiene che abbia un effetto catartico per i mali sociali e la raffigurazione della violenza?
DC: Bisogna capire che cosa si intende per arte, e poi deciderne la funzione. Qualcuno ha detto che l’arte è sempre sovversiva. Per esempio pensiamo alla versione freudiana della civiltà: per Freud la civiltà=repressione, quindi l’arte, che nasce dall’inconscio, per la civiltà è sovversiva. Se tu vedi così la situazione, allora è soltanto attraverso violenza e sovversione che si arriva all’arte. Per me, però, il rapporto tra arte e società è molto più complesso: non sono d’accordo con chi dice che l’arte deve glorificare le cose belle. È un dibattito in corso, che continuo a fare da solo, realizzando film. Per me fare film è un modo di discorrere di filosofia con me stesso, capire il significato dell’arte e della società. Per questo non escludo nessuna possibilità: né l’orrore, né la sessualità, né la violenza.

Matteo, su sollecitazione di CinemAvvenire, requisisce il microfono e si avventura su dorsali vansantiane: C’è un filo teoretico tra Videodrome, Naked Lunch e eXistenZ? Che cosa ci può dire poi sulla sua esperienza di attore, in particolare riferendosi ai suoi ruoli in Cabal e To Die For?
DC: Come ho detto non parto mai da una posizione teoretica per fare i miei film: non pretendo di analizzarli, mi richiederebbe l’utilizzo di una parte del cervello che non uso per farli. Non valgo molto, insomma, come critico, cosa in cui [indica Santeramo e Cianciotta: che non li conosca così bene?] c’è qualcuno meglio di me. Mi piace invece recitare: pochi giorni fa ero a Los Angeles per interpretare un ruolo nel telefilm Alias [quello con protagonista Jennifer Garner]: è molto stimolante per me riciclarmi nella recitazione. La distanza fisica tra attore e regista è di soli pochi metri, ma il lavoro che si fa è estremamente diverso: la mia esperienza come regista si è arricchita quando ho tentato di capire l’attore anche dal suo punto di vista.

Un altro studente: Può parlarci dei suoi lavori Tv? Vorrei poi analizzare qualcosa che è spesso sottovalutato: secondo me in Fast Company si fondono il documentario e l’iperrealismo, la fiction e la realtà... è d’accordo?
DC: Le mie regie televisive non sono molto importanti, la Tv non è un medium per i registi, ma è cosa per produttori e attori. Quindi mi interessa relativamente poco. Chiaramente c’è anche una buona TV, per esempio la HBO produce “movies of the week”, e ci sono registi che si specializzano in questi film, che hanno tematiche molto attuali, e che sfruttano l’immediatezza del mezzo televisivo in tale direzione. La mia esperienza è stata per una serie di telefilm, non per un “movie of the week”.
In tutti i miei film c’è un aspetto documentario: quindi alcuni elementi sono quelli che posso definire di “found art” [arte trovata]. Mentre si lavora con gli attori in un ambiente si possono trovare piccoli spazi di found art: come accade per il personaggio di Spider, quando faccio un film raccolgo per il percorso degli oggetti e me li metto in tasca. Ma c’è anche il punto di vista opposto: quando sono stato al festival di Telluride, quest’anno, ho incontrato molti registi di documentari, tra loro c’era anche Michael Moore, e mi hanno detto che molto del loro lavoro consiste nel girare zone puramente ‘fiction’ all’interno del documentario.

Uno studente un po’ attempato si lancia in una questione sempre aperta: Cinema/letteratura: che rapporti ci sono?
DC: Secondo me c’è una completa interrelazione tra le altri: non esistono confini ma un interscambio costante, quindi cinema e Tv divorano ogni espressione artistica: pensate al fumetto che diventa film, al film che diventa romanzo, etc. Con la globalizzazione, poi, oggi è indifferente quale nazione produca un romanzo: un libro qualsiasi può diventare un film americano, europeo, o altro. Ritengo di dover essere aperto a tutto per il lavoro che faccio. Probabilmente non era valida neanche allora, ma ora sicuramente non lo è, quell’idea dell’artista unico che crea l’opera compiuta e intoccabile, come un orafo che cesella un gioiello perfetto.

Uno studentello fomentato chiede: Si rende conto che The Dead Zone è di gran lunga superiore al romanzo che lo ha ispirato?
DC: Sono d’accordo!! [Risata sonora del pubblico]. Quando ho letto il romanzo di King vi ho trovato molte cose che, francamente, non funzionavano. Devi essere soprattutto molto sincero con te stesso, più che con l’autore, quando adatti un romanzo. Steven King scrive in grandi quantità, ma senza far mai una revisione di ciò che ha fatto. Scrive di getto, e produce così tantissima roba: ma è ovvio che se parti da un romanzo di 500 pagine per fare un film devi fare un lavoro di ripulitura. Bisogna tradire il romanzo per essergli fedeli: sono due mezzi di comunicazione diversi, c’è chi dice che The Naked Lunch non si potesse filmare, e io sono d’accordo: nessun libro può essere filmato.

Giaime Alonge chiede di liberare l’ostaggio Cronenberg, che non sembra proprio freschissimo dopo due ore di terzo grado, e chiama il “time”; uno studente si affretta a dire: Come definirebbe il suo genere cinematografico?
DC: Non lo farei.

Altri boys si precipitano: Trovo che Crash rappresenti la riumanizzazione, non parla di arte, ma di vita!
DC: Sono d’accordo con te. Ma dov’è la domanda?

Prende il microfono uno studente post-punk: è l’ultima domanda. Leggendo molti articoli sui suoi film ho trovato opinioni su cui non sono per nulla d’accordo. Trovo che il suo stile sia tra il classico e barocco, lei non trova? Lei non usa quasi per nulla gli effetti speciali!
DC: Per me fare film è un’operazione molto tattile, scultorea, fisica. Per cui voglio avere sempre con me sul set le cose con cui lavoro: non solo gli attori, ma anche le luci, i costumi. Non mi piace fare quelle letture a tavolino con lo script con gli attori perché trovo che tutto cambi quando si hanno davanti gli attori, con i costumi e le scene. Per questo voglio che anche gli effetti speciali siano lì. Per me gli effetti speciali non sono così speciali: in realtà tutto ciò che si fa al cinema è illusione. Per esempio in Spider Ralph Fiennes è il mio effetto speciale: gli effetti speciali digitali, ci sono, esistono, ma non siamo obbligati ad usarli!

That’s all, folks: arrivederci all’anno prossimo, se le voci di retrospettiva al TFF saranno confermate. David se ne va scortato da una coorte di cacciatori di autografi. Noi lo abbiamo immortalato, e tra poco potremo ricordarlo anche (solo?) in forma di foto. Altrimenti, per toccarlo solo un po’, dovremo aspettare il suo ritorno nelle nostre vicinanze. Ma noi saremo ancora qui, sempre fedelmente in attesa. Gridando "Gloria e vita..."
Vincenzo Sangiorgio, cinemavvenire.it
[Modificato da |Painter| 10/06/2010 18:00]
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