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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 7

Ultimo Aggiornamento: 17/09/2012 19:26
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Post: 529
Sesso: Maschile
28/10/2007 23:22


RASSEGNA STAMPA PARTE 7


Sullo sfondo di una pacifica e sonnacchiosa provincia americana, il prototipo della famiglia perfetta scopre una terribile verità. Viggo Mortensen (Il Signore degli Anelli) a proprio agio nel ruolo e supportato da un cast ben confezionato, è Tom, capofamiglia perfetto di una famiglia perfetta, composta dallla moglie Edie (Maria Bello) giovanile e atletica, dal figlio liceale, preso di mira dai bulli (Ashton Holmes) e dalla piccola Sarah (Heidi Hayes).
Tom è un uomo mite. Gestisce una modesta tavola calda dove un giorno arrivano due pericolosi criminali che minacciano una rapina con pistole in mano; lui, senza scomporsi, disarma i brutti ceffi e li uccide senza difficoltà, a sangue freddo. La stampa fa di lui un “local hero”, anche se pare che a Tom tutta questa pubblicità non piaccia.
Presto arriveranno infatti i fantasmi del suo passato, un passato molto diverso da quello che si era costruito, con il quale dovrà fare i conti se vorrà tenere in piedi questa doppia identità, che lo ha cambiato dentro ma non troppo.
I tasselli per un buon film ci sono tutti: un grande regista come Cronenberg (inquieto ne La Mosca, talvolta ermetico nel pur bellissimo Spider), una storia lineare, dura e asciutta come un film di Clint Eastwood; un cast di ottimo livello, con un pregevole cammeo di William Hurt nel ruolo del “fratellino cattivo”; l’eroe umano e imbattibile. Eppure si arriva ai titoli di coda con l’impressione che qualcosa sia mancato, col pensiero che “si il film si lasciava guardare, ma difettava di qualcosa”. Che cosa?
Partiamo dal principio: non è certo la lentezza delle prime sequenze, assolutamente magistrale per immergersi nel panorama provinciale americano, non è certo la durezza estrema delle scene violente che anzi tracciano un ritmo (di lì a poi cadenzato) sulla sceneggiatura; ma si inizia a sentire qualcosa di indigesto quando, una volta che Viggo Mortensen ha fatto fuori due criminali nella sua tavola calda e successivamente pochi giorni dopo ha fatto fuori due scagnozzi e il terzo lo ha sistemato il figlio, la Legge rappresentata dallo sceriffo di contea, suo amico, lo interroga con nemmeno quattro domande e il caso sembra archiviato: stona un pochino, penso.
Il viaggio verso Philadelphia, per andare a trovare il fratello, non appare abbastanza motivato: semplicemente, prende e va. Interessante invece la scena erotica con la consorte che, pur non accettando le menzogne propinatele dal marito in tutti quegli anni, è presa da una sorta di ira sessuale, molto forte, in cui avviene, tra tinte di blu chiaroscuranti, un accoppiamento quasi ferino nelle scale della casa. Ma anche questo non sembra essere il punto focale del film: insomma per farla breve e probabilmente riduttiva, se si mostra una stanza e si inquadra una pistola quella pistola deve essere usata.
Larga parte del potenziale di questa pellicola rimane inutilizzato: una maggiore caratterizzazione di una crisi interiore, flashback di un passato terribile, mai del tutto chiaro allo spettatore, un maggior pesantezza della vendetta consumata nei confronti del “fratellino” sviluppata in maniera terribilmente frettolosa, che anche se volontaria, priva la pellicola di un vero e proprio fulcro: cosa voleva dirci? Qual era il messaggio? La morale?
Ryoga, lankelot.eu



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Tratto da un fumetto, A History of Violence porta con sé il marchio indelebile e infallibile dello stile di Cronenberg che torna a parlarci di metamorfosi non solo del corpo, ma anche della mente. Il tema del doppio (ormai sdoganato al cinema) viene qui affrontato in maniera originale e del tutto personale con la mano inconfondibile del grande regista canadese. Ad interessare non è tanto il plot narrativo in sé per sé, che potrebbe risultare a tratti banale e soprattutto già visto, ma il messaggio che porta e che contiene, scritto a caratteri cubitali col sangue scaturito dalla violenza, che volenti o nolenti, è insita, con dosi diverse a seconda del caso, dentro ognuno di noi. Violenza che fa paura ma che al tempo stesso affascina, violenza mostrata talmente velocemente da non lasciarci neanche il tempo di pensare, come molto probabilmente il regista intendeva contrassegnando le scene clou della sua pellicola da una quasi totale mancanza di giudizi esterni o sopra le parti. Il narratore è nascosto, dunque, è quello che conta non è riflettere su un dato di fatto, ma rendersi conto della sua esistenza.
Tom Stall (un sempre più straordinario Viggo Mortensen) è il proprietario di una tavola calda. Vive con sua moglie Edie (una discreta Maria Bello) e i suoi figli Jack e Sarah. La sua vita trascorre tranquilla e Tom, a detta di sua moglie è l’uomo più buono del mondo. Consiglia suo figlio maggiore su come comportarsi coi suoi coetanei che lo infastidiscono, rassicura la piccola Sarah dell’inesistenza di mostri cattivi e si occupa della casa e del lavoro in modo egregio.
Un giorno durante l’orario di chiusura, nel suo locale appaiono due strani tipi che pretendono di bere caffè e di mangiare una torta. Quelli che sembrano essere solo due fastidiosi e prepotenti clienti si mostrano però per quello che sono in realtà: due rapinatori ed efferati assassini (li vediamo all’inizio uccidere senza pietà anche una piccola bambina). Tom non si fa cogliere di sorpresa e riesce ad uccidere entrambi, divenendo l’eroe locale del momento. L’uomo sembra non essere contento della crescente notorietà che comincia a caratterizzarlo, tanto da evitare il più possibile contatti con giornalisti e tv. Quanto tutto sembra essere tornato alla normalità a far visita al suo locale arriva un altro strano tipo con scagnozzi al seguito. Si tratta di Carl Fogarty (un estremamente caratteristico e impressionante Ed Harris) che afferma di conoscere Tom col nome di Joy Cusack e che pretende che l’uomo lo segua per andare a far visita a suo fratello Richie (il fumettistico e particolarissimo William Hurt).
Si tratta di scambio di persona o Tom nasconde qualcosa? Certo è che lui continua a negare di essere mai stato a Philadelphia come invece asserisce il temibile Carl e continua a giurare a sua moglie e ai suoi figli di non sapere di cosa parli quell’uomo. Continuando a proteggere la sua famiglia, Tom è costretto a “planare” nuovamente verso un tragico epilogo che ci lascia sospesi con un interrogativo ben fissato nella mente: conosciamo mai fino in fondo coloro che ci stanno accanto? Ma soprattutto, conosciamo davvero noi stessi?
Psicologicamente teso ed intenso, questo film, giocando sulla dualità della mente, della personalità e persino della corporeità racconta il processo di metamorfosi e di trasformazione subita, volontariamente o necessariamente, da un uomo che sembra aver completamente cancellato uno scomodo passato di violenza e degradazione per raggiungere e realizzare quello che è il tipico sogno americano: un bel lavoro, una bella casa a due piani e una famiglia felice. Ma si sa, la realtà è tutt’altra cosa e quando meno ce lo aspettiamo la nostra vera (duplice o multiforme) natura prima o poi viene a galla. Nel film il cambiamento, il trapasso, l’emergere degli istinti più reconditi viene mostrato attraverso due metaforiche e significative scene di sesso tra Tom e Edie: nella prima i due giocano a fare gli adolescenti paurosi di essere colti in flagrante (scena che porta con sé tutta la dolcezza e la delicatezza di un rapporto di coppia), nella seconda marito e moglie dopo una furiosa lite verbale e fisica sulle scale della loro casa si lasciano andare ad una violenta passione che però non riesce ad unirli realmente (immagini queste di una forte forza comunicativa).
Ma a dimostrazione che agli istinti è difficile porre un freno viene posta anche la questione del figlio maggiore di Tom che viene continuamente vessato da un suo compagno, bullo che più bullo non si può (che inizialmente incrocia il suo sguardo in auto con quello dei due assalitori della tavola calda in un camioncino quasi a dimostrare una sorta di specularità) e che, dopo aver sopportato stoicamente senza reagire, scoppia in un impeto di violenza repressa.
Il cambiamento di registro dall’iniziale amenità della cittadina di Millbrook (Indiana) contrassegnata da un alone di pace, serenità e fratellanza tra i suoi abitanti fino ad arrivare ad una sorta di tacita e nascosta consapevolezza dei segreti che nasconde (nella persona di Tom, ma non solo) appare quasi impercettibile, ma è sicuramente ben realizzato anche grazie ad un cambiamento di tono nella fotografia che si incupisce ed ingrigisce man mano che si prosegue col “racconto” e della quasi del tutto assente colonna sonora che arriva propiziamente a sottolineare i momenti di più alta tensione. Senza mai esagerare, Cronenberg filma i momenti salienti con cura e parsimonia regalandoci inquadrature importanti (quella iniziale - che sembra quasi un quadro dipinto per quanto è meravigliosamente fotografata - in cui i due assassini dopo aver sterminato varie persone nella tavola calda escono e mettono a posto la sedia è davvero spettacolare) e soffermandosi su sguardi che raccontano più di mille parole, come quello finale tra Tom e Edie, straziante e latore di immense ed infinite interpretazioni.
A History of Violence (che porta nel titolo tutta la sua essenza) è un film ricco di stile ed eleganza formale che riesce a insinuarsi prepotentemente nella mente dello spettatore.
Alessandra Cavasi, livecity.it



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Oltre a sentirsi piacevolmente inchiodati alla poltrona, durante la visione di A history of Violence, si avverte tutta l'ammirazione per come un acclamato autore come David Cronenberg, sinonimo di un cinema molto personale per tematiche e visionarietà, abbia avuto l'umiltà e la bravura di mettersi al servizio di una sceneggiatura non scritta da lui e di un film strutturalmente "di genere", facendolo diventare uno dei suoi migliori lavori. Spicca infatti la mano del maestro che riesce a dosare e mescolare gli elementi classici di un genere a quelli del proprio universo rappresentativo con padronanza, equilibrio e efficacia tali da generare un film molto coinvolgente e convincente, rispettoso dei personaggi e dello spettatore.
Il plot è uno dei più sperimentati: Tom Stall vive una serena esistenza insieme alla moglie e ai due figli in una cittadina dell'Indiana, nello sconfinato ed isolato entroterra americano, dove gestisce una caffetteria, stimato e rispettato dei suoi compaesani.
Purtroppo un giorno l'esistenza della famiglia del protagonista cambia radicalmente: due efferati criminali irrompono nel locale per una rapina che Tom coraggiosamente riesce a sventare, uccidendo i due malviventi e salvando la vita ai clienti presenti.
Tom diventa così un piccolo eroe della comunità in cui vive e grazie a tv e giornali il suo volto ottiene un quarto d'ora di celebrità in tutto il Paese.
Dopo pochi giorni di calma apparente, si presentano tre gangster da Philadelphia che lo riconoscono non come Tom Stall, bensì come un loro vecchio "collega" sotto mentite spoglie e lo invitano con le minacce a seguirli per sistemare alcuni affari rimasti in sospeso. La storia quindi gira intorno al tema dell'identità, del passato rimosso, della ricerca di serenità negli affetti famigliari, e, ovviamente, della violenza.
Tutte queste tematiche sono state elaborate a fondo in un altro film presentato con successo all'ultimo festival di Cannes (dov'era in concorso anche A History of Violence): Cachè di Micael Haneke.
Lo svolgimento però è esattamente opposto. Benchè accomunati sin dalle prime sequenze da un senso di incombente minaccia che solo apparentemente arriva dall'esterno e che invece si rivela essere sepolto dentro la personalità del protagonista, Haneke crea un film del tutto personale e originale nello stile e nella trattazione, mentre Cronenberg si affida ad alcuni solidi strumenti narrativi classici del cinema thriller e noir, che qui funzionano a meraviglia: personaggi la cui moralità è messa a dura prova dagli eventi, la cruda solidità del paesaggio che sembra assistere impassibile alle alterne vicende umane, il ritmo crescente e incalzante del racconto, una serie di personaggi non protagonisti di grandissimo spessore e molto ben delineati (ottime, oltre a quella del protagonista Viggo Mortensen, le interpretazioni di Maria Bello, Ed Harris, Ashton Holmes e memorabile il bel cameo di William Hurt). Ma tra le pieghe della messa in scena del lato oscuro della vita di una famiglia (che metaforicamente potrebbe essere quella di una Nazione, come in Cachè), c'è qualcosa di più che pulsa sotto pelle.
Emerge, prima lentamente per poi esplodere in tutta la sua violenza, un senso di inquietudine, una sensazione strisciante che all'inizio lo spettatore non sa spiegarsi e che trattiene dentro sé, proprio come fa lo stesso protagonista, fin quando finalmente Tom è costretto a venire allo scoperto.
E' da questo terreno che tutto il talento visionario di Cronenberg viene fuori alla grande senza però fagocitare la storia: prima l'incipit onirico del film, l'apparente serenità dell'immutabile vita di paese; poi i segni di una mutazione non più occultabile: gli sfregi sulla schiena della moglie, il sesso rabbioso di una coppia che ha perso l'identità, i volti disintegrati dei gangster, il sangue che macchia i vestiti come le coscienze dei familiari innocenti. Un viaggio attraverso le paure e i suoi effetti, condotto dal personaggio di Tom che come il protagonista del precedente film di Cronenberg, Spider, snoda i fili di un passato doloroso e violento, ma che qui rivela un vago, e inedito in questo autore, senso religioso di un uomo ("tre anni di peregrinare senza meta nel deserto" rivela Tom alla moglie) che è disposto a redimersi, a cambiare vita e a difendere la sua famiglia e la serenità in cui e' nata e cresciuta, a qualsiasi costo, anche a quello di sporcarsi di nuovo le mani di sangue, pur di spezzare l'inesorabile cerchio dell'umana violenza.
Eduard Le Fou, cineboom.it



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Prima o poi i traumi riaffiorano. Per quanto una persona possa ingannare se stessa e gli altri, i traumi riaffiorano. E son problemi. Cronenberg analizza il momento esatto della vita di un uomo apparentemente beatificato dall'american dream: ha una famiglia perfetta, una donna che lo ama come il primo giorno, due bimbi carini carini con cui ha un dialogo irreprensibile. E lavora in una tavola calda, una di quelle in cui la comunità del solito paesino provinciale (in cui pare che mai nulla debba accadere) si ritira a bere caffè e a mangiar torte ogni pomeriggio, aggiornandosi sul tranquillo tedio che compone le loro giornate. Ma in questa stessa tavola calda accade l'imprevisto, e con troppa e sospetta facilità il buon Viggo fa fuori due rapinatori "che fanno sul serio".
La vicenda innesca una bomba che detonerà con l'incontro di strani personaggi che sembrano perseguitare il punitore, cercando di attribuirgli un'identità che esso stesso nega con tutte le sue forze. A sproposito si è parlato di colpo di scena; ciò che potrebbe sembrare telefonato non lo è nella logica in cui non si dà come colpo di scena. La "rivelazione" è un semplice nucleo nella sinossi del film, per cui non sarebbe nemmeno opportuno parlare di spoiler. Cronenberg non vuol stupire nè con colpi di trama (semmai di trauma) nè con effetti speciali, grazie a Dio.
Il suo è un semplice excursus in un genere che non gli compete, ma le tematiche di fondo rimangono comunque le stesse; ha ragione chi ha parlato di un "Inseparabili" in solitario. Ed è proprio perché è un genere che non gli compete che probabilmente gli è riuscito così bene; Cronenberg, come ogni autore che si rispetti, non cede alle lusinghe di un pulp a tutto spiano e mostra la violenza con il contagocce. In fin dei conti, vista una testa saltata le hai viste tutte: e se è vero che le sequenze prettamente violente sono pochine, va anche detto che si tratta di puri momenti in cui l'efferatezza è diluita non poco.
Insomma, quando questo film è violento lo è per davvero, non si scherza. Anzi, non si scherza affatto; Cronenberg, che non è uno sprovveduto, ha capito che di fronte ad un film a carattere violento ci sono solo due strade da seguire: la strada dell'ironia e del sorriso che accompagna ogni zampillo di sangue o la completa austerità. Vie di mezzo non ce ne sono, o si fa un Ichi the Killer o si gira un A History of Violence. E la pellicola è cupa, malinconica, claustrofobica nella psicologia e senza uscita nel suo darsi come punto di non ritorno. E la violenza, come un virus, si propaga in fretta e attecchisce bene e facilmente; quando un ineludibile lato del carattere viene solleticato dalla circostanza non solo esplode, ma lo fa nel peggiore dei modi, si veda la profonda e radicale trasformazione del figlio.
Che non è semplicemente un ragazzo represso e tutto sommato pusillanime; tutt'altro, egli è il classico ragazzo d'oro come solo la vita americana della primissima parte del film può generare e crescere. E il suo affrontare e vincere la sfida con il bullo del paese (lui sì pavido) nello spogliatoio è atto totale di sottomissione degli istinti alla ragione. La sfida è vinta in quanto mantenuta sullo stile di quella che è la microsocietà del paese. Una cosa molto simile la avvertiamo nella sequenza di sesso, sempre a inizio film. I due coniugi si appartano esattamente come fossero due liceali, e cercano di consumare l'atto dell'amore come non hanno potuto farlo in passato e in altre età. Ma si badi, sempre con una sorta di freno inibitore dettata dalla razionalità e un parziale controllo della "bestialità"; il marito, appunto, si finge stupito e fa commenti come fosse davvero un liceale. I due giocano, si hanno l'uno l'altro simulando di essere altri da sè.
Cronenberg ha quindi accumulato abbastanza informazioni per descriverci questa vita da cartolina che in qualche modo non può andare avanti, una vita dominata dalla logica della fetta di torta da offrire agli ospiti, costretta a ripetere sè stessa, sempre con le solite modalità, con una routine che ormai ha edificato un'impasse difficilmente risolvibile. Chi sostiene che questa idilliaca parte sia troppo didascalica ha ragione, ma sbaglia quando la condanna bollandola come superficiale; essa è estremamente funzionale nel mostrarci un meccanismo che si rompe, come una diga che sollecitata da una fortissima pressione inizia a mostrare le crepe per poi distruggersi sotto la furia dell'acqua, che riplasma, nel disastro, la geografia del luogo. L'evento della rapina sventata è quel momento, e da lì in poi i modelli e i comportamenti dei protagonisti sono rimodellati.
C'è che ritrova sè stesso, ma c'è anche chi perde sè stesso e trova un'altra identità, tangente alla prima. E' il caso del ragazzo. Da boy scout che risolve le situazioni in maniera saggia e pacifica, perde il suo punto di riferimento (il padre) e si evolve adattandosi alla nuova situazione.
Il nucleo famigliare deve seguire, per non perdere l'armonia, l'esempio della figura di rifermento, chiaramente entro i limiti concessi.
È anche il caso della moglie; passato lo shock per la scoperta, Cronenberg ci mostra una sequenza assai significativa, ovvero quella del sesso sulle scale. Se l'affrontare il teppistello era per il figlio la cerimonia con cui acquistava una nuova identità, la scena del sesso sulle scale è per la moglie il battesimo che servirà a ricompattare la famiglia. La donna non accetta le coordinate della violenza sul piano fisico e del dolore, ma le accetta sul versante del sesso, a lei più congeniale. Che non è più un gioco, una simulazione, come ci era stato mostrato prima, ma un accoppiamento brutale, quasi animale, con tanto di molteplici lividi lasciati sul corpo della donna e un solenne calcio sui cosiddetti che il marito mette in conto. Emblema della castrazione virtuale con la quale la moglie rimette in discussione l'eccessiva mascolinità del selvaggio partner? Può darsi.
Fatto sta che la riscoperta del passato di Viggo è volta ad una riscrittura dei valori tradizionali della sua famiglia, valori che però hanno portato all'impasse e quindi al decadimento del nucleo.
Ma la violenza è solo un pretesto per far sì che la famiglia agisca in limine; se in un primo momento sono la moglie e il figlio ad adeguarsi, è anche vero che alla fine del film troveremo un padre pronto a scendere a compromessi; un padre che osserva la propria famiglia ad occhi bassi e lucidi, un padre che probabilmente si sente indegno della propria prole che ha dimostrato di potersi identificare in tutto e per tutto con lui (si ricordi che il figlio arriva ad uccidere letteralmente). Qui si apre una nuova sfida, sfida i cui esiti ci saranno celati; ce la farà adesso il padre ad adeguarsi a sua volta alla "nuova famiglia", alla sua "nuova carne"?
In A History Of Violence la violenza non si dà solo nel togliere la vita a qualcuno, ma anche nell'affrontare i fantasmi del proprio passato. Da notare inoltre come una delle ossessioni cronenberghiane appaia qui in grande stile: l'ossessione per il corpo e le sue penetrazioni, la corruzione della carne e la cangiante deformità nel momento del suo scempio. Tutti i massacri sono compiuti in una situazione di prossemica intima, delitti faccia a faccia e spesso a mani nude (POI con l'ausilio di armi da fuoco). una sorta di balletto sul tema di "all hail the new flash" ma al contrario: qui l'empietà e il disprezzo della carne porta comunque alla morte, ma senza epifanie di sorta. Qui si muore senza frasi retoriche, non da eroi.
Solo il tempo per un appunto, in questo film che è comunque eccezionale. Non un difetto ma un appunto, come a cercar e il proverbiale ago nel pagliaio. L'episodio a casa del fratello ritrovato (e subito perso...) è forse un po' troppo fuggevole; tutto accade con la stessa rapidità con cui Viggo uccide a mani nude chi gli si mette contro. A History of Violence dura poco, sarebbe stato interessante se Cronenberg avesse trovato il tempo di approfondire questa parte della trama che tanto trascurabile non pare.
Trama che arriva da sceneggiatura preconfezionata, e deriva da un fumetto. Fumetto che lo stesso Cronenberg (dice) si è rifiutato di leggere.
Per chi pensa che il porting perfetto sia il risibile Sin City.
filmscoop.it



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La famiglia di Tom Stall è quella tipicamente forgiata sull’american dream. Padre proprietario di una piccola tavola calda a Millbrook, madre bionda e in carriera, figlio grande al college tra amori alcolici e persecuzioni dei bulli fighetti di turno, figlia piccola tutta sua mamma. Un quadro di serenità assoluta, con giusto qualche graffio in superficie per non dare soddisfazione ai detrattori di turno. Tom e sua moglie Edie sono la coppia perfetta. Lui, adottato in giovane età da una coppia di Portland: lei, di buona famiglia e bellissima. Si amano, ancora appassionatamente. Una sera, lei lascia la piccola Sarah alla bambinaia. Jack, il primogenito, è dall’amica Jenny a bere. In apparenza a studiare, ma tutti sappiamo quanto fragile può essere un’apparenza, vero? Vestita di tutto punto, come una scolaretta, perché “non abbiamo mai vissuto da adolescenti insieme”, stuzzica le fantasie del marito. Fanno l’amore, appassionatamente. “Sono il figlio di puttana più fortunato del mondo”, sussurra lui.
L’effetto farfalla ci spiega, con tinte variamente apocalittiche, come sia sufficiente un batter d’ali d’insetto nell’emisfero nord della Terra per provocare un uragano all’altro capo. In un attimo, l’armonia delle cose può essere dissolta. E per conoscere il lato oscuro delle cose, devi essertene già sporcato le mani. All’inizio non appare evidente. I malviventi che decidono di rapinare il ristorante di Stall sono dei professionisti senza alcuno scrupolo. Li vediamo, all’inizio, con un piano sequenza magistrale, soffermarsi in un piccolo bar nella provincia della provincia, massacrare barbaramente la commessa per qualche dollaro e poi, tornando dentro per riempire un contenitore d’acqua (anche il radiatore vuole la sua parte?), far fuori sua figlia, svegliatasi nel momento meno opportuno. A History Of Violence. Peccato che, alla minaccia concreta di uccidere una cameriera sua cara amica, non facciano i conti con la reazione del protagonista. Nemmeno un coltello conficcato in un piede riesce a fermarne la furia: i due finiscono a terra, l’uno riempito di pallottole nel petto, l’altro con la faccia sfigurata da una caraffa di caffè e con il cervello saltato in aria per uno sparo. La minaccia è sventata, le vite dei bravi cittadini di Millbrook sono al sicuro: Tom Stall è diventato l’eroe nazionale. A History Of Violence.
La poetica del maestro Cronenberg, da sempre fautrice di messaggi forti e shockanti che partono dall’analisi del corpo umano e dalle sue trasformazioni, si trasferisce in un thriller psicologico dall’impatto visivo vivido e straordinariamente pressante (non è un caso che la storyline sia, originariamente, appannaggio dell’omonima graphic novel disegnata da John Wagner nel 1997). Atipico nella durata, nello svolgimento, nella caratterizzazione dei personaggi, A History Of Violence ha la freddezza gelida dei ghigni di un Viggo Mortensen ai massimi livelli, libero dai legacci e dagli sbrodolamenti fantasy di mr. Jackson, dell’abbraccio giudaico che Richie Cusack (William Hurt) riserva a suo fratello – comunicandogli serafico la necessità impellente della sua morte - della reazione scomposta del bullo Bobby (Kyle Schmid) alla partita di baseball, quando un fuoricampo eccezionale viene stoppato, Deo gratia, da Jack Stall (un eccellente Ashton Holmes). Il regista canadese è l’Henry Wotton della celluloide: lo scienziato, il microbiologo che osserva, su un vetrino, il concatenarsi degli eventi, scatenati da un fatto improvviso ed inaspettato.
Fatto sta che l’aggressione subita turba Stall in maniera profonda. L’attenzione del paese si accende su di lui, la stampa ne parla diffusamente: troppo diffusamente. Dei computi signori si presentano al suo ristorante, lo chiamano Joey Cusack e lo invitano a ritornare a Philadelphia. Una, due volte. “Non vi conosco e non ho mai visto Philadelphia”, è la risposta perplessa dell’interessato. Lo seguono, lo spiano. Perseguitano la sua famiglia, insinuano dubbi in Edie. “Gli chieda come mai è così bravo ad ammazzare” dice, avvicinandola in un centro commerciale, il più vecchio dei tre, uno sfregiato che si fa chiamare Carl Fogaty. Ricerche accurate, ad opera dello sceriffo, dimostrano l’appartenenza del gruppo alla malavita organizzata, di ceppo irlandese, insediata nella cittadina americana. Cos’avrà mai a che fare un serafico ristoratore con una cricca di mafiosi? Se lo chiedono sua moglie, i figli, il vigilante, lo stesso Tom. Il gioco psicologico continua, fino a che non si presentano alle porte di casa sua, sequestrando Jack e costringendolo a seguirli. Dapprima accondiscendente, subito Stall subisce una metamorfosi che lo porta a compiere un massacro. I due uomini di fiducia di Fogaty finiscono a terra, privi di vita. Il capo della banda sembra avere la meglio, quando una fucilata da tergo gli fa esplodere i visceri. È stato proprio Jack a sparare. A History Of Violence. Il protagonista si avvicina a suo figlio: l’andatura caracollante, la faccia deformata, i lineamenti contratti, il sangue sul volto, la bocca spianata in un ghigno all’ingiù che cancella ogni sentimento positivo. Jekyll diventa Hyde.
Tutti gli equilibri sono ormai saltati. Tom Stall non è mai esistito, al suo posto c’è Joey Cusack, bandito di Philadelphia. La famiglia perfetta dell’inizio ora è un incubo a cielo aperto, un’alcova di paura e perversione. Edie ha subito, passiva, un inganno magnificamente orchestrato, ha amato un uomo che non è mai esistito, si è sposata con una maschera. Cronenberg caratterizza i personaggi con profondissimi risvolti interiori: la disperazione di una vita distrutta si rivolta sulle espressioni facciali, sulle abitudini, sui comportamenti, nel vuoto di un’esistenza fasulla senza più alcun valore. Cusack cerca di far la pace con sua moglie ma questa si rifiuta, lo colpisce e scappa via. Lui la rincorre e con forza animale la violenta sulle scale. Nessun amore, nessuna delicatezza. Il romanticismo di inizio pellicola evapora a contatto con il crudo istinto, la ferocia, l’Ἄτη omerica che induce alla follia. Un uomo, se nasce quadro, non muore tondo: ecco la perfetta sintesi cronenberghiana. A mutare non è, questa volta, la fisionomia ma la psicologia: e come in Videodrome le allucinazioni indotte da un segnale televisivo massonico deformavano la realtà, riuscendo addirittura ad ibridare pistole nelle mani, o ne Il Pasto Nudo l’abuso di disinfestante per scarafaggi proiettava una lucida schizofrenia bukowskiana dentro una vita di alcol e desolazione, A History Of Violence mostra il lato oscuro dell’uomo a dispetto di ogni indoratura od occultamento.
I fantasmi del presente passato continueranno a tormentare il protagonista, sino alla fine. Dove il codice d’onore del crimine annienterà addirittura i flebili legami di fratellanza ed il rosso del sangue sarà l’unico colore che prevarrà sulle tinte mogano dei mobili, sulle striature dei gessati, sul tenue verde di un lussuoso giardino. Violenza e disumanità, ieri come oggi, a cui viene risposto con violenza e disumanità. L’amarissimo finale non prevede parole, tantomeno vincitori: le lacrime non scintillano solo negli occhi sofferenti di una grande Maria Bello.
Marco Biaiso, storiadeifilm.it



***

Bene ha detto chi ha sostenuto che A History of Violence è la straight story di Cronenberg: più lineare di così non potrebbe essere. Tom Stall, un tranquillo padre di famiglia che gestisce una tavola calda, si ritrova a fare il pistolero per difendersi da due assassini che gli hanno occupato il locale. E l’inizio di un calvario: i media lo portano in trionfo e per tutta conseguenza arriva da Philadelphia un losco figuro, guercio ed elegantissimo, che dice di conoscerlo.
Negare non serve a nulla: iniziano minacce e pedinamenti. Famiglia sconvolta e barili di sangue all’orizzonte. Ma chi mente per davvero? Ecco il classico caso di sceneggiatura che in mani diverse avrebbe potuto dare tutt’altri esiti. Sbandierato come una limpida riflessione sulle conseguenze psicologiche della violenza, il film esaurisce tutt’al più la questione sul piano della tensione erotica tra moglie e marito, e su quello della percezione filiale dell’etica sociale. Ma non gridiamo al miracolo. E’ tutto telefonato e abbastanza didascalico. E dopo che l’eroe ha fatto gran sterminio di cattivelli e cattivoni da fumetto (da cui il film è tratto, e si sente) se ne torna al desco familiare accolto da pagnotta, minestra e sguardi afflitti.
Poi però c’è la mano di Cronenberg, che incanta. Dalla livida e tesissima sequenza iniziale che introduce i due spietati killer, al disegno arioso e a tratti pittorico della provincia americana; dalla scelta di raccontare in modo silenzioso, per mutismi ansiogeni e corse affannate, i picchi di tensione, al tratteggio caratteriale (anche caratterista) minuzioso e tutto primi piani. La mdp è sempre dove deve stare, e le immagini stordiscono letteralmente, come stordito appare Tom durante tutto il film. La violenza sonnecchia per lunghi tratti, poi esplode fragorosa, quindi si riassopisce. Ed è respingente sì, ma anche qui meno di quel che s’annunciava. Il rischio dell’effetto Giustiziere della Notte c’è eccome.
Giorgio Viaro, nocturno.it
[Modificato da |Painter| 17/09/2012 19:26]
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