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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 4

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 20:58
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Sesso: Maschile
23/10/2007 20:54


RASSEGNA STAMPA PARTE 4


La ragnatela fa capolino fra ambienti fatiscenti, vie deserte come una tabula rasa, finestre murate, pareti scrostate, emanazioni flatulente (pare di sentirle), tonalità depresse e arrugginite come i ricordi, mostri d'acciaio (il gasometro) che minacciano l'uomo non presente a se stesso, atono, morbosamente attaccato a suppellettili (cognizioni) che sono il filo d'Arianna con la realtà perduta. La ragnatela è attraente e (perché) ambigua finché resta nella penombra: le macchie di Rorschach la psicanalizzano e ne mostrano la geometria, riconducendo l'odissea nell'inconscio di uno schizofrenico ad una cartella clinica con domande chiuse. Freud sovrappone i volti della madre santa e puttana, svela i moventi della follia e intona i versi di "The End" di Jim Morrison: "Father, I want to kill you; Mother, i want to fuckyaaaahhh!!!". I fantasmi del passato, imprigionati in oggetti insignificanti colti per strada, in un puzzle ostico, in un taccuino dove i dati sono solo scarabocchiati, in un pedinamento ossessivo (zavattiniano, alla Umberto D., per il quotidiano di Spider; in flashback alla ricerca del bambino perduto), si sprigionano e appiattiscono i tormenti del protagonista: la ragnatela è un'isola, un nido, il represso gesto d'affetto per la madre che, come il ragno che ha depositato le uova, muore nel momento in cui esaurisce la sua funzione ideale (idealizzata) e viene scoperta in atteggiamenti impuri con una nuova figura maschile (il padre oggetto di gelosia). Nella proiezione simbolica della mente malata, il genitore uccide la madre buona e la sostituisce con una baldracca che è alle origini delle prime turbe sessuali infantili (desiderio/senso di colpa). Il vetro in frantumi, ricomposto, disegna una ragnatela e torna trasparente, il complesso di Edipo trasforma l'esemplare ricerca estetica di Cronenberg in un banale sussidiario di psicanalisi. L'autore canadese non gioca sull'equivoco realtà/immaginazione (è ovvio che Spider altera i fatti nel momento in cui non può ricordare ciò di cui non è stato testimone diretto), non getta nelle fauci della follia, è alla ricerca di un resoconto clinico agganciato allo straordinario possibile (come nel poco convincente M. Butterfly), quando le sue prove migliori raccontano clinicamente delle trame folli. Fiennes, che ha modo di circoscrivere ogni quadro con la tela del suo istrionismo, ha creduto nel romanzo di Patrick McGrath e voluto un regista che lo filma più volte con la mano fra le gambe (Freud e il pene), esaurendo l'inquietante minaccia con un innocente calzino a mo' di borsello. Cronenberg imprime un ritmo lento e faticoso per accompagnare la ricostruzione di un senno scheggiato, veste l'uomo (se l'abito fa il monaco) con gli ambienti circostanti, si ritrova fra le mani un caso paranoico che nasconde la propria inconsistenza sotto più capi di abbigliamento (quando il monaco non c'è…).
Niccolò Rangoni, spietati.it



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Dal dolore trasfigurato al dolore trasfigurante, ovvero: dagli effetti all’origine. Cronenberg, ripropone, ancora una volta (per fortuna) i suoi fantasmi e Spider (ri)apre le porte anche al dolore della memoria, oltre che a quello, necessario, del corpo. L’oggetto della ricerca è quello delle radici della sofferenza che trasforma il corpo in cui si introietta, creando, come i fili tesi nella stanza, un’alterità corporea possibile l’unica che può avere accesso al muto dialogo dell’uomo con il sé stesso del passato. Spider ci introduce in un luogo buio che sovente si illumina con la luce del ricordo e, come nel sogno, le immagini si raddensano e si condensano, assumendo forme identiche per personaggi differenti. Il regista canadese non tradisce la propria poetica e fruendo di una storia che gli è congeniale lascia intatto il suo campo dell’indagine: il dolore, il corpo e gli effetti dell’uno sull’altro (ricordate La Mosca?). Salvaguarda il proprio mondo popolato da corpi (tra)sfigurati dal destino, inabissando la ricerca nei conflitti familiari e nel dualismo smisurato tra padre e figlio. Cronenberg procede con una narrazione senza scosse, aprendo i vuoti del personaggio più che riempire le voragini del ricordo. Su questo percorso accidentato viaggia la mente del protagonista che anche da adulto continua a tessere i fili della propria ragnatela che sinistramente, lo ha stretto tra le proprie spire. In questo percorso si annulla ogni distanza temporale (come già le differenze tra i protagonisti) e la vana compresenza di Dennis adulto, durante lo svolgersi degli eventi cruciali del proprio stesso passato, rende manifesto anche il proprio futuro, ma, come nel sogno, lo lascia paralizzato davanti all’accadere degli (immodificabili) avvenimenti. Anche se il ricordo lo irretisce egli avverte anche la necessità di sfuggirgli e liberarsene. Per questo Dennis Cleg/Spider/Ralph Fiennes ha già inventato il dispositivo di salvezza dalla accecante pesantezza del ricordo: la scrittura. Attraverso un procedere altrettanto incomprensibile che il sogno, Spider inventa la propria autoanalisi, una possibile salvezza nel soliloquio misterioso e indecifrabile della propria calligrafia che incide meticolosamente sulla superficie della carta scaricando, attraverso quell’atto così strumentale e così puntigliosamente eseguito, ogni possibile peso del passato. Una finale annotazione per la magnifica interpretazione di Fiennes che ha lavorato sulla voce per renderla sommessa e insinuante (come il ricordo) ma questa fatica e questo piacere, nell’edizione doppiata, andranno perse come lacrime nella pioggia.
Tonino De Pace, sentieriselvaggi.it



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Potrebbe lasciare piuttosto spiazzati e delusi i cronenberghiani questo ultimo Spider. Perché non è proprio un’opera di Cronenberg ma un film su commissione (pare sia stato infatti Ralph Fiennes a convincere l’autore canadese a girare questo film). Perché la scrittura di Patrick McGrath si avverte in maniera forte, rallentando quell’oppressione/mutazione dei luoghi e dei corpi propri di Cronenberg. Protagonista è Spider, un uomo che dopo anni passati in internamento psichiatrico, torna a Londra dove va a vivere in un’oscura abitazione dell’est londinese. Da lì ricomincia a rivedere il proprio passato, soprattutto tornando all’evento che gli ha sconvolto la vita: l’omicidio della madre, avvenuto quando Spider aveva appena 12 anni. Stavolta però sorprende comunque come Cronenberg riesca a scavalcare una scrittura e un universo non propri. Non si tratta più di corpi da mutare e da mutilare, bensì corpi già mutati e mutilati. Spider, come il resto degli altri personaggi non-vivi dell’opera, è già oggetto decomposto fin dalla prima bellissima sequenza in cui la macchina da presa sembra rallentare nel momento in cui si sposta tra la folla indistinta al protagonista. Cronenberg, con il corpo doppio di Ralph Fiennes sembra ricomporre frammenti delle realtà provvisoria di Crash e della virtualità nel mostrare esistenze parallele di eXistenZ. Le location inglesi, dove potrebbe esserci il sospetto a quella composizione visiva propria del cinema britannico, viene trasformato in un non-luogo, oscuro e mai abitato, popolato da quei fantasmi che potrebbero derivare dal cinema di Lynch ma che possiedono anche quella carnalità propria di Cronenberg. I titoli di testa mostrano ancora corpi sezionati – i titoli di testa con le “radiografie” dello scorpione” – per penetrare dentro quegli universi dove la schematica scrittura di McGrath viene ribaltata in una sorta di oscuro viaggio della mente in cui le immagini hanno la consistenza preistorica di quelle di Cronenberg e dove Spider (l’adulto e il bambino) appare il gemello di se stesso, quasi una duplicazione del proprio corpo nel Tempo come in Inseparabili. Ma ancora, ascendenze hitchcockiane, con Miranda Richardson corpo-mutante come Kim Novak in La donna che visse due volte, e la forte scena dell’omicidio in cui la fotografia di Suschitzky sembra rimandare a quei cromatismi forti che sanno di morte come in Hitchcock. Spider è il segno di un cinema che si muove verso nuove traiettorie, non tipicamente cronenbergiano, ma sempre di una forza seducente soprattutto nella sua esibita e struggente malinconia.
Simone Emiliani, sentieriselvaggi.it



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David Cronenberg torna al cinema con il suo nuovo film Spider, terzo film dello stesso regista con il titolo dedicato ad un insetto (es.La Mosca e Madame Butterfly)
In una Londra senza tempo, il film narra la storia di Mr. Cleg (Ralph Fiennes), che una volta trasferito dall’ospedale psichiatrico, dove ha passato gran parte della sua vita, in una sorta di clinica di riabilitazione, dove appena arrivato comincerà a rivivere il dramma che ha spezzato la sua esistenza.
Cronenberg vuole vedere nella mente di Mr. Cleg, dietro le sue ombre, vuole analizzare la sua irrazionalità attraverso la sua memoria…
…memoria di una realtà razionale o di follia?
Un ottimo cast che comprende Gabriel Byrne, Miranda Richardson e nella sua piccola parte il grande Lynn Redgrave.
Grosso errore di questo film riguarda il doppiaggio italiano dove troviamo un pessimo Tonino Accolla che dà voce a Ralph Fiennes, un errore già commesso in passato, mi pare, nel film Strange Days, l’attore Fiennes deve, secondo me, essere doppiato in Italia da Roberto Pedicini.
Per concludere voglio dire che nel film troviamo una regia “insolita” di Cronenberg, che però affascina, come al solito.
Federico Bagnoli Rossi, cinemaplus.it



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Spider è un pover uomo appena uscito dal manicomio che trova alloggio in una pensione vicino a dove è cresciuto. E’ mal vestito, fa fatica a parlare e si muove con estrema lentezza. Che cosa ha la sua mente, perché è ridotto così? Rivedendo i luoghi dell’infanzia poco per volta i suoi ricordi riaffiorano. Tendono però a mescolarsi con quelli del manicomio e con le fantasie di una vita spensierata e libera. Difficile per lui comprendere quale sia la realtà e forse lo è sempre stato…
Cronenberg si lascia ispirare dal romanzo omonimo di McGrath, ma non riesce a dare alla sua opera un vero perché. Lo stile è come sempre impeccabile e gelido, ma questa volta troppo. L’eccessivo rigore formale, a cui contribuiscono le scenografie povere e buie e una fotografia virata sui colori del grigio e del marrone (non per questo brutta, anzi, ma fuori posto), raffreddano la materia del racconto fino all’eccesso. Non vi può essere partecipazione per lo spettatore nel mondo di Spider, tutto è troppo strano, finto. Anche la colonna sonora, decisamente iettatoria acuisce la sensazione di essere di fronte ad un enorme pezzo di ghiaccio.
Certo Cronenberg non affonda e il suo film riesce comunque a mantenere un certo fascino. Difficile togliersi dalla mente il Ralph Fiennes nascosto dietro la porta o nell’angolo buio della stanza mentre spia la sua vita da bambino, ma tutto questo non basta. Da un materiale così incandescente ci si aspettava decisamente di più. Le visioni di una vita migliore in compagnia degli amici risultano addirittura staccate dal resto del film e perché ridurre la percezione della realtà di un matto ad una camera vuota e buia? Non sono cose già viste?
Per quanto riguarda il cast Ralph Fiennes vaga per il set senza convincere. Il suo perenne sguardo nel vuoto e l’inespressività sanno di maniera. Brava invece Miranda Richardson che si ritaglia un piccolo spazio in questo marasma di personaggi monodimensionali.
All’uscita dal cinema ci rimane un solo grande enigma. Perché Cronenberg ha deciso di girare questo film se non aveva niente di nuovo da dire? Peccato perché lui è sempre stato un provocatore e un innovatore, ma questa volta si è accontentato di fare un lavoro di solida routine.
Diego Sandri, cinemaplus.it



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David Cronenberg ritorna nelle sale italiane con Spider, il film presentato al Festival di Cannes 2002. La pellicola si dipana, per meno di due ore, tra il 1960 e il 1980, attraverso i ricordi del protagonista, Dennis Cleg (Ralph Fiennes), denominato affettuosamente dalla madre "Spider", per l'abitudine di intrecciare e tirare corde davanti a sé come tele di un ragno. Dopo essere stato rinchiuso e isolato per più di vent'anni in una clinica psichiatrica, ritorna nei luoghi della sua infanzia, l'East End di Londra, e inizia ad annotare febbrilmente su un diario tutto ciò che rammenta di quegli anni, fino alla tragedia che avrebbe segnato la sua mente.
Il protagonista, che parla a stento, più mugolando e balbettando, ci precipita nel suo universo disturbato dove, tra l'onirico e il reale, si svolgono le vicende frammentate come tanti pezzi di uno specchio rotto. Nei flashback ossessivi, in cui Dennis appare come spettatore di se stesso, lo vediamo bambino (interpretato da un bravissimo Bradley Hall), in un ambiente familiare claustrofobico, con un padre violento e bevitore (Gabriel Byrne in un ruolo difficilissimo) e una madre amabile ma sottomessa (Miranda Richardson), molto tenera nei confronti di Dennis. Il bambino "assiste" all'omicidio della madre, ad opera del padre, subito rimpiazzata dalla prostituta Yvonne (sempre la Richardson), donna volgare e con un bicchiere sempre in mano. Spider "bambino" escogita un ingegnoso piano per ucciderla nel sonno e qui i ricordi di Spider "adulto" si fanno nebulosi. Il finale, naturalmente, è a sorpresa...
Tratto dal romanzo omonimo dell’inglese Patrick McGrath e sceneggiato dallo stesso autore, si avvale della scenografia minimalista di Andrew Sanders: visioni di quartieri londinesi malati, una stazione ferroviaria, un pub, una panchina, una cucina in una casa fatiscente con la tappezzeria a bolle per l'umidità, la pensione in cui Spider alloggia nel presente, popolata di altri relitti, zombie come lui in una realtà che si perde di vista. E la fotografia, ad opera di Peter Suschitzky, usa spesso il grandangolare per deformare le prospettive e isolare i personaggi. I toni dominanti sono il grigio, o colori spenti e tenui, il verdino e il celeste senza vita. La colonna sonora è di Howard Shore, premio Oscar per Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell'Anello.
Lo spettatore che si avvicina al film di Cronenberg attendendo effetti speciali, horror e sangue, ne resta deluso: lo stile è asciutto e sommesso, tale però da rendere le immagini memorabili. In un primo tempo, Cronenberg aveva pensato a una voce fuori campo che raccontasse l'evolversi delle vicende nella mente del protagonista, poi l'ha eliminata. "Ho tolto tutto quello che non era essenziale. Ho cercato di visualizzare l'inferno nella mente del protagonista".
Il film è dilatato, tanto che la critica si è divisa, accusando il regista di lentezza e ripetitività, ma in realtà è proprio grazie a quel passo lungo e martellato che Cronenberg riesce a farci entrare nella mente annebbiata del protagonista, in cui non esiste scansione temporale. Il passato è un blocco di cemento che c'è sempre, e il presente è fanghiglia in funzione di quello, confuso e mescolato a quello, una "memoria contaminata", come definisce lo stesso regista.
La prova di Ralph Fiennes è mozzafiato: specializzato in ruoli "malati" o "estremi", qui si cala nel personaggio impressionando. Il volto emaciato, gli occhi spersi, i capelli ritti in testa, catatonico, con problemi deambulatori accentuati dagli abiti che gli pendono addosso come stracci, in più balbettante: vale la pena di sentirlo recitare in originale. "É un lavoro molto fisico, di precisione - sottolinea Cronenberg - quasi mimico, Ralph ha pochi dialoghi, mi servo soprattutto dei suoi piedi, delle sue mani che sono sorprendenti".
Il regista ci porta a simpatizzare con Spider: coinvolti empaticamente nelle sue vicende, ci sentiamo a disagio, comprendiamo che nella ricostruzione mnemonica di Spider qualcosa non va, ma la schizofrenia ci inganna. Dice il regista: "Vorrei che lo spettatore, che lo guarda come qualcuno che non penserebbe mai di avvicinare, si lasciasse prendere poco a poco, fino a credere, all'uscita dalla sala, che Spider è lui stesso".
"Più che uno schizofrenico - afferma Cronenberg - Spider è una personalità singolare, con una memoria inquinata e problemi di identità. Quante volte, tra persone cosiddette normali, non si è d'accordo nemmeno su ciò che si è visto? È difficile dare una definizione precisa della schizofrenia. A Beautiful Mind è il tipico modo in cui Hollywood può vedere la cosa: la fisicità irruenta, la musica che sottolinea le scene, il finale consolatorio. Nel caso di Spider la follia è tutta interiore e dobbiamo percepirla dai suoi occhi". E ancora: "Quello che mi interessava era il problema dell'identità perduta. Quando sentiamo che la nostra vita, il nostro percorso ci sfugge siamo in un territorio che riguarda tutti noi, non solo gli schizofrenici. É lo stesso territorio di Kafka, Proust, Beckett".
"In un certo senso lui stesso è un'artista, perché ricrea la sua vita. Per un solo spettatore, cioè se stesso". La fragilità del protagonista ha toccato il cuore del regista: "Se leggiamo le notizie di cronaca sappiamo che basta un secondo per cambiare le nostre vite completamente: può essere un’esplosione, un trauma mentale, un ictus, un collasso economico. Se uno ha sensibilità verso le cose della vita, non ha paura a guardare in faccia la realtà, a considerare questa possibilità. Al contrario quelli che la temono, la evitano. Questo è il significato di Spider per me".
Certo la pellicola è sui generis e di non facile approccio. Si pensi alla metafora della tela di ragno, che protegge e rinchiude allo stesso tempo, a Spider che tesse una realtà senza tempo, con frammenti del passato e immagini del presente, che alla fine si rivelerà una tela di menzogne. Tematiche complesse, quali il complesso edipico, l'antagonismo con il padre nella "gara" per accaparrarsi l'amore della madre, l'atto sessuale vissuto come presunta violenza da parte del padre sulla madre. Secondo lo stesso regista: "Questo film non ha niente di autobiografico, ma mi ricordo dei momenti in cui scorgevo la sessualità dei miei genitori, dei sentimenti di difficoltà, di confusione, dei momenti in cui un bambino può confondere sesso e violenza".
Donata Ferrario, cineclick.it



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Un groppo alla gola. Questa la sensazione che mi ha assalito uscendo dal cinema in cui era appena stato proiettato Spider. E questo non per la tensione che mi aveva appena generato il film, ma per la mezza delusione per il film di un grande regista. David Cronenberg è senza dubbio tra i più audaci autori dell’ultimo trentennio, ma con questa pellicola sembra essersi preso una pausa di riflessione. Tutti i novantotto minuti scorrono come una lunga pausa intramezzata solo da qualche intromissione del vero Cronenberg. Un film così lento, per avere senso proprio, dovrebbe o avere una narrazione molto forte, o rifiutare del tutto la narratività. Spider si pone nel mezzo, sfruttando una sceneggiatura che troppo presto mette le carte in tavola e a metà pellicola lascia intendere il finale solo apparentemente a sorpresa. Abbandonata la trama, il regista cerca allora di avventurarsi nell’introspezione del personaggio, ma, oltre alle evidenti pulsioni edipiche, emerge poco dalla pur buona interpretazione di Ralph Fiennes. Pur riallontanandosi da quel cinema di fantascienza che tanto ha prodotto nella sua carriera, Cronenberg non si avvicina insomma a quel capolavoro melodrammatico che è stato M. Butterfly. Numerosa critica ha cercato di individuare in Spider metafore più o meno evidenti di postmoderna memoria, ma queste appaiono più come spirali mentali dei critici stessi piuttosto che reali intenzione dell’autore. E in fondo un film superiore alla media (complimento solo fino a un certo punto); con una regia accurata e senza eccessi e con un ottimo lavoro alla fotografia del fido Peter Suschitzky, ma da Cronenberg è lecito chiedersi qualcosa di più.
Alberto Brumana, hideout.it



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Il cinema di Cronenberg è sempre stato legato alla degenerazione, al cambiamento malato, di solito del corpo. Qui, invece, il cineasta canadese ha, per così dire, spostato leggermente la macchina da presa mantenendo il tema della degenerazione ma tralasciando il corpo e impegnandosi invece nello studio lucido e allucinato di una mente malata. Nella pellicola noi la realtà la vediamo cogli occhi del protagonista. È tutto una sua interpretazione. Cronenberg non da motivazioni alla sua pazzia, essa è qualcosa di insito e ineluttabile, un semplice dato di fatto di cui si può solo prendere atto, come la vita e la morte. Le ragnatele che ossessionano il protagonista sono il legame malato che lo unisce agli altri. La condanna di Dennis forse è la solitudine, ma in fondo né lui né noi lo sappiamo. La sua condanna sarà restare rinchiuso nel suo universo di schizofrenia. Le ragnatele sono macchiate di sangue, sangue del suo sangue da lui stesso versato. Perché la ragnatela è legame di vita crudele me anche strumento di morte. Il tutto immerso in un'ambientazione gelida e kafkiana.
Cronenberg in questo film più che in altri è molto aiutato dai suoi interpreti. Ralph Fiennes interprete di poche ma valide pellicole dà tutto se stesso al personaggio, rendendone la sofferenza dell'anima con pochi accenni espressivi senza istrioneggiare. Miranda Richardson è impegnata in un doppio ruolo che esalta tutte le sue qualità attoriali. Essi spiccano rispetto agli altri bravi ma più misurati attori.
Il film pur rimanendo superiore alla media non è però certo il migliore del canadese. È come se Cronenberg senza mostri, mutazioni corporali e violenza parossistica non si trovasse a suo agio. Come se insomma non si divertisse davvero. Chissà, forse è proprio per questo che il film gli è in certi punti quasi rubato dai suoi splendidi attori. Come se fosse un esperimento interessante ma interlocutorio, fondamentale comunque per meglio comprendere la poetica e l'anima di uno dei più grandi creatori d'incubi del cinema contemporaneo, e non solo.
Giuseppe Scandiffio, hideout.it



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Innanzitutto grazie, signor Cronemberg, grazie per non avermi tediato con voci narranti, spiegazioni per famiglie e facili finali ad effetto. Grazie di cuore per avermi dato Spider: la sua forza sta nel saper tener alta l'attenzione in un puzzle di tessere desaturate in cui perdo sempre di più il filo del racconto ma in cui sono sempre più convinto che alla prossima tessera tutto sarà chiaro.
Ora capirò perché la casa è sempre la stessa, ora capirò per quale ragione il bambino sa dov'è nascosto il corpo.
E tu, quando sarai al cinema e capirai di trovarti faccia a faccia con le sequenze chiarificatrici, quando capirai che è il momento di tirare le somme ormai Cronemberg avrà impigliato anche te nella mente di uno schizofrenico e ti sarai perso in una sala cinematografica che altro non è che un semplice cubo di cemento armato. Perché il ragno-Cronemberg che ti ha acchiappato in una rete che da lontano non potevi vedere, e tu ci resti appiccicato. Quello che lentamente accade è troppo affascinante perché ti venga voglia di dormire o di andartene via, e alla fine resterai solo con l'odore del gas nei vestiti senza aver capito nulla. Allora uscirai dalla sala ma senza guardar storto il bigliettaio perché il film era una presa per il culo. Tutt’altro. Salirai per le scale soddisfatto, buttando un ultima occhiata al manifesto che è l'unica cosa brutta del film.
Lucio Basadonne, hideout.it



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Le macchie di Rorschach che fanno da sfondo ai titoli di testa mi hanno confermato un'intima idea che andavo maturando apprestandomi alla visione di questo film, e cioè che l'incontro tra due personalità artistiche come il regista David Cronenberg e lo scrittore Patrick McGrath non poteva non avere un esito felice. Lo scrittore inglese autore di romanzi di grande successo come Follia e Il Morbo di Haggard sembra essere il complemento necessario e logico della complessa e singolare regola estetica del regista canadese. Cronenberg gira questo film - per l'appunto tratto dal romanzo Spider di McGrath che ne ha anche curato la sceneggiatura - con la familiarità che un'artista ha con un'opera che da sempre sembra vorticargli nella testa. Le tematiche della pazzia e della sanità si intersecano con l'eterna dicotomia tra essere e apparire, incubo e realtà. Raccontare, anche solo per cenni, la trama di questo film sarebbe un'operazione ingiusta nei confronti dell'impianto narrativo dell'opera oltre che difficoltosa nello sforzarsi di non dire troppo o troppo poco. Diciamo che è una storia di quotidiana allucinatoria follia dove il disturbo psichico assurge a momento qualificante di una categoria esistenziale in un dato tempo ed in un dato luogo. Tempi e luoghi che non sono però casuali o astorici. La storia, come la vita, è ben radicata nella realtà concreta del quando e del dove avviene, con i suoi palazzi, le sue strade, i suoi locali, e le persone che li frequentano.
Il film è girato da Cronenberg con la consueta cura e ricercatezza. Ogni inquadratura è frutto di uno studio accurato ed attento. Ogni taglio o sequenza mettono in mostra le qualità pittoriche e prospettiche del regista che non lesina mai di impreziosire, e impreziosirci, con una ricerca della luce e delle sue fonti che mostrano l'estrema conoscenza di Cronenberg dei maestri della pittura rinascimentale. L'occhio di Cronenberg, come quello dei protagonisti del film - assolutamente calato nella parte un gigantesco Ralph Fiennes - è un occhio che dietro ha una mente che ne governa anche le più intime ed impercettibili funzioni. Quello che vediamo non è, ma al massimo potrebbe essere. Ed è in questa potenzialità che l'opera si innesta con dialoghi secchi ma incisivi, con personaggi finemente modellati col temperino, con aneddoti ed espedienti sempre significativi. Quella tela di ragno che aleggia leggera ma presente nei momenti cruciali, quando la storia imbocca la via di quella che sembra essere l'unica soluzione possibile, ne è un esempio illuminante.
Accanto a Ralph Fiennes ruotano due altri ottimi interpreti come Gabriel Byrne, intenso e drammatico, ed una polivalente, insondabile e misteriosa, Miranda Richardson, alla prova con una parte di quelle che nobilitano una carriera.
Lo spazio di una recensione è impietosamente troppo angusto per poter compiutamente ragionare su questo film, l'unico consiglio che vi posso dare è di andare senza indugio a vederlo. Anche se la visione susciterà il vostro amore o il vostro odio, comunque, non vi lascerà indifferenti.
Das, filmup.com
[Modificato da |Painter| 10/06/2010 20:58]
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