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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 6

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 14:03
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Sesso: Maschile
23/10/2007 19:35


RASSEGNA STAMPA PARTE 6


Nel panorama cinematografico mondiale, quella di David Cronenberg è una figura emblematica. Cineasta prediletto da "cinéphiles radicali" e giovani critici, e snobbato dalle accademie e dalla critica "ufficiale", è stato sempre artefice di un cinema fuori da ogni regola e schematizzazione. Il suo universo poetico è destabilizzante e anticonvenzionale, dunque facilmente criticabile dallo spettatore/critico medio che intende essere rassicurato piuttosto che trasportato in una dimensione angosciante e visionaria.
Cronenberg invece è autore che percorre strade contenutistiche e stilistiche impervie e che pur frequentando generi apparentemente popolari e bassi, come l’horror e il thriller-splatter, in realtà si è sempre concentrato su riflessioni filosofiche ed esistenziali molto complesse. Prova inequivocabile di questo atteggiamento creativo è proprio la sua filmografia, contraddistinta da lavori spesso sottovalutati e non compresi, ma senza dubbio sconvolgenti. Basta fare qualche titolo per rendersi conto ciò: Brood - La covata malefica (1979), Scanners (1981), Videodrome (1983), Inseparabili (1988), Crash (1996), eXistenZ (1999), Spider (2002).
Una carriera densa di capolavori, sempre incentrati su tematiche di enorme portata: il corpo e le sue mutazioni, la psicanalisi e le derive mentali degli individui, il dualismo fisicità-intelletto, la carne e la tecnologia, l’identità e il doppio.
La caratteristica principale di Cronenberg è quella di aver utilizzato tali componenti concettuali con costanza e di aver affrontato questi argomenti anche mettendosi in gioco come autore, cioè compiendo delle imprevedibili svolte espressive quasi sempre riuscite, solo in qualche occasione fallite.
Ebbene, una di queste svolte riguarda proprio la sua ultima fatica registica: A History of Violence, lungometraggio già presentato con successo all’ultimo Festival di Cannes.
E’ sorprendete verificare come questo film sia stato accolto da parte degli addetti ai lavori. Viene infatti evidenziata, in generale, una tendenza da parte del regista canadese ad abbandonare la sua cifra stilistica a favore dei meccanismi espressivi più consoni agli stilemi del cinema americano commerciale. Niente di più sbagliato. E’ infatti avvenuto esattamente il contrario. E’ stato Cronenberg a piegare le regole del genere al suo mondo poetico e visuale. Ne è venuto fuori un lungometraggio di grande bellezza ed efficacia che oltre a toccare una tematica a lui cara, quella dell’identità e della mutazione psicologica degli esseri umani, ha fatto emergere il problema della violenza come fattore caratterizzante di tutta la società americana.
A History of Violence è un film girato con assoluta maestria e riserva le sequenze più pregevoli nelle fasi iniziali del racconto. Successivamente prende piede un tono maggiormente enigmatico e contraddistinto da una caustica e inusuale vena di ironia, dalle connotazioni stranianti.
Ottima l’interpretazione di Viggo Mortensen, perfetto nella sua enigmatica e misteriosa inespressività, elemento interpretativo in grado di metter a fuoco con chiarezza la tenebrosa ambiguità del personaggio principale.
David Arciere, cultframe.com



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Tutta colpa della televisione. Tom Stall (un eccezionale Viggo Mortensen) conduce una vita tranquilla insieme a sua moglie (Maria Bello) e ai suoi due figli. Quando sventa una rapina nel suo piccolo ristorante, uccidendo i due banditi, la sua vita cambia radicalmente: ecco che i media iniziano a tormentarlo e qualcuno, forse da un passato lontano e dimenticato, torna per la resa dei conti. A History of Violence, lungometraggio presentato allo scorso Festival di Cannes, segna il ritorno alla regia del maestro canadese.
Se nel primo atto appare una pistola (diceva Anton Checov) nell’ultimo deve sparare. David Cronenberg ci toglie subito dall’impaccio regalandoci, dopo una mezz’oretta di film, una solenne sparatoria (con tanto di banditi e ostaggi) che sembra essere confezionata su misura per Quentin Tarantino. Cosa succede, dunque, se un uomo medio della provincia americana uccide improvvisamente due banditi che cercano di rapinarlo? In poco tempo diventa un eroe nazionale, aiutato suo malgrado dall’ossessività delle telecamere che lo inseguono ovunque. Ma qualcuno, a centinaia di chilometri di distanza, lo riconosce e si mette subito sulle sue tracce. Così la sua vita viene improvvisamente stravolta da due malviventi che dicono di saperla lunga sul suo passato. Chi è davvero Tom? Si tratta solo di uno scambio di persona oppure la sua aria da buon padre di famiglia nasconde in realtà un’altra identità?
Cronenberg parla dei suoi personaggi: "hanno una potente risonanza emotiva. Una coppia sposata con due bambini cerca di vivere onestamente, tranquillamente, ma incontra delle difficoltà. Questo è l’elemento classico che ho amato". E ancora, raccontando del suo film dice: "il fatto che non l’abbia scritto io (il film è tratto da un romanzo grafico di John Wagner e Vince Locke cui Cronenberg è subentrato solo all’ultimo momento) non significa che non mi appartenga. Ho pensato che fosse un genere di thriller unico, diverso dal solito. Un thriller alla Hitchcock, in cui un uomo innocente viene scambiato per un altro da persone molto pericolose e trascinato in un mondo di cui non sa nulla".
Cronenberg è un maestro nel portare lo spettatore in un labirinto in cui le entrate e le uscite si moltiplicano all’infinito, in quel confine dove il reale - e ciò che non lo è - si confonde fino ad annullarsi. I suoi specchi deforma(n)ti non si distinguono affatto dalla figura che riflettono e l’apparenza è, alle volte, la sostanza sotto cui si cela una continua dannazione. La ricerca della purificazione nulla può di fronte alla violenza che plasma il lato oscuro di ciascuno di noi: "trovo interessante" nota Maria Bello "che le persone che hanno accesso al loro lato oscuro siano esseri umani incredibilmente sereni, perché non ne hanno paura". E chiudendo sul regista dice: "David accede così facilmente a questo lato di sé, che non deve viverci, e non lo fa".
Pierpaolo Simone, nonsolocinema.com



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Tom Stall, padre di famiglia dall’esistenza apparentemente tranquilla, per legittima difesa uccide l’uomo che l’ha aggredito al ristorante. Da quel momento diventa un personaggio pubblico che attira l’interesse dei media...
Storia di ordinaria follia omicida in una cittadina della provincia americana. Come ordinaria ed all’apparenza tranquilla è la famiglia Stall che vi abita: padre Tom (Viggo Il Signore degli Anelli Mortensen) gestore di un coffee restaurant, moglie avvocato (Maria E.R. Bello) e due figli.
Ma la loro vita è destinata a cambiare quando Tom diventa suo malgrado una sorta di eroe nazionale – acclamato e perseguitato dai media – allorché uccide due criminali che volevano rapinarlo. A disagio per questa inaspettata celebrità, la famiglia Stall cerca di ritornare alla vita normale ma un tipo misterioso e minaccioso (Ed The Hours Harris) arriva in città per insidiare l’eroe Tom che sembra nascondere una doppia identità.
Tema questo (l’ambiguità, l’ignoto ed oscuro paesaggio dell’animo umano ed il silenzioso orrore in esso sottinteso) tanto caro al cinema di David Cronenberg che ritorna con questo insolito thriller – A History of Violence - dietro la macchina da presa appassionandoci con il suo oramai riconosciuto tocco di geniale maestro ed abile costruttore di atmosfere intimamente sospese e paurosamente glaciali. Servito da una graphic novel di straordinaria presa emotiva e da un interprete principale/Viggo Mortensen magistrale per realistica ambiguità e paurosa intensità, Cronenberg aggiunge un ulteriore tassello alla sua personalissima ed intrigante indagine sulla coscienza umana che film dopo film (Videodrome, La Mosca, Pasto Nudo, Crash) ci racconta dell’eterna e naturale perversione dell’animo umano.
Ed in tempi dominati da una sfacciata ed ordinaria violenza quotidiana, il suo racconto pulito, lineare e sconvolgente sulle ombre che sottendono alla vita di ogni essere umano “hitchcockniamente” ci spaventa ed ammutolisce ricordandoci l’ineluttabilità del destino tragico dell’uomo.
Calogero Messina, nonsolocinema.com



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La violenza è insita nell'essere umano, è un demone che silenzioso si annida e si muove sotto la pelle di ognuno di noi e che nessuno riesce o vuole riuscire a debellare. Questo è ciò che ci dice e ci ha sempre detto Cronenberg con il suo cinema, il quale a volte in maniera terrificante a volte con grotteschi affreschi pseudo-fantascientifici ha sempre portato sullo schermo possibili spaccati di vita reale rivisitati attraverso una formidabile forza re-immaginativa. Nel lontano millenovecentottantadue era la televisione a portare la violenza nelle nostre case e a farla passare per qualcosa del tutto normale ed inevitabile e quel capolavoro che è Videodrome aveva fotografato in modo impeccabile il possibile distaccamento dalla realtà a cui ciò avrebbe potuto portare. Le allucinazioni(?) provate dal personaggio interpretato da James Woods non erano per nulla esagerate se paragonate a quelle che ragazzi e adolescenti hanno ammesso di aver provato in seguito alla visione di guerre, pestaggi e programmi moralmente discutibili. Ricordate quanti bambini sono morti e di conseguenza quanti di essi sono diventati assassini per voler emulare wrestler e/o power rangers? Negli anni novanta la violenza aveva trovato un nuovo modo per raggiungere le nostre cellule cerebrali e distorcerle fin dalla tenerissima età: i videogames! Giochi in soggettiva che ti trasformavano in un soldato, un hooligans, un nazista o in un mafioso e ti chiedevano di uccidere, stuprare, massacrare il prossimo o qualunque cosa si aggirasse lungo il raggio della tua visuale. eXistenZ nel millenovecentonovantanove aveva assorbito tutto questo mondo virtuale e ce lo aveva riproposto come reale, vivo, presente. Lo sconcerto di non riuscire più a distinguere il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato. Chiunque attorno a te può essere il tuo nemico, può volere la tua morte e quindi deve essere ucciso per primo. A dar man forte a queste tesi sono arrivate dichiarazioni di ragazzi che dopo aver visto scene di razzismo in TV e dopo aver giocato a games il cui obiettivo è quello di sterminare più ebrei possibili, hanno fatto il pieno d'armi e hanno messo a ferro e fuoco scuole intere negli U.S.A.. Oggi a distanza di tredici anni da Videodrome la nostra società non è cambiata, i media sono sempre più radicati nel nostro vivere quotidiano e decidono le sorti di persone e nazioni intere. Così un uomo che per difesa uccide un altro uomo, diventa un eroe, il simbolo di un intera nazione. Ma fino a che punto un atto come quello di assassinare può diventare legittimo? E' corretto porre fine ad un'azione sbagliata con una altrettanto sbagliata? E' giusto far diventare un simbolo di giustizia qualcosa che in sé non ha nulla di giusto? Sono questi gli interrogativi che Cronenberg ci propone col suo ultimo bellissimo film, A History of Violence e lo fa alla sua maniera, mettendoci di fronte alla vera violenza, così efferata come solo nella realtà può esserlo, ma che paradossalmente ci disgusta ancor di più quando è finta, lì sullo schermo. Il regista canadese si cita a ripetizione e si rinnova in continuazione, sequenza dopo sequenza, dettaglio dopo dettaglio. Alla fine di questo terribile viaggio si esce dal cinema con una nuova, vecchia consapevolezza: la violenza sta al passo con i tempi, trova sempre un modo per venir fuori e addirittura per passare come una costante del tutto normale della nostra vita.
Luca Lardieri, close-up.it



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In una recensione di A History of Violence pubblicata in settembre, il critico americano Roger Ebert, sorta di Mereghetti o Morandini d’oltreoceano (da anni è infatti autore di un famoso dizionario del cinema), scriveva che al regista canadese interessano tre livelli del concetto di violenza. Innanzitutto quello - per così dire - banalmente "narrativo" legato all’intreccio e alla vicenda dei protagonisti; poi quello dell’uso storico della violenza come mezzo per risolvere le dispute; infine, la violenza come elemento fondamentale del processo evolutivo darwiniano, per il quale sono gli organismi più forti, o più precisamente i "più adatti" (the fittest) a sopravvivere e a prendere inevitabilmente il posto di quelli più deboli.
Su quest’ultimo assunto di base sembra effettivamente nascere l’ultimo film del canadese David Cronenberg, riflessione sull’origine della violenza e sulla sua essenza, nascosta eppure pronta ad esplodere in ciascun essere umano, quasi un meccanismo di sopravvivenza che scatta di fronte ad una minaccia incombente. A History of Violence è un film del quale è criminale rivelare la trama per chi non lo avesse ancora visto, ma diventa inevitabile se se ne vogliono sviscerare i differenti elementi.
Cerchiamo di raccontarne l’essenziale. In una piccola ed anonima cittadina dell’Indiana, nella provincia americana profonda, la famiglia Stall vive come milioni di altre famiglie. Il padre Tom, prestante e devoto quasi ai limiti dell’ebetismo, lavora in una tavola calda, la madre Edie è un bravo avvocato ed i figli, l’adolescente Jack e la piccola Sarah, come tutti i ragazzi, crescono tra normali difficoltà e momenti felici. I due genitori, giovani e belli, sono attivi nella piccola comunità cittadina, si concedono innocui ma partecipi giochetti erotici e si scambiano dichiarazioni d’amore, come una famiglia da spot di cereali per la prima colazione (una scelta programmatica che è forse uno dei pochi limiti del film). Un giorno Tom si trova nel suo locale due individui armati pronti a fare fuoco sui clienti. Preso da furore istintivo, li stende e li uccide dopo aver loro rubato una pistola, divenendo un eroe per la stampa locale e nazionale. Il seguito è la storia della scoperta non solo del passato nascosto del protagonista da parte della sua famiglia, ma anche della natura violenta che può nascondersi nel profondo di ogni persona.
Annunciato come un film "su commissione" per compensare gli scarsi esiti commerciali del precedente Spider, A History of Violence trae ispirazione dall’omonimo fumetto scritto da John Wagner (autore anche di Judge Dredd, già adattato/ stravolto per il cinema con Stallone nei panni del protagonista) e disegnato da Vince Locke, una delle chine dello splendido comics Sandman.
È facile capire cosa abbia affascinato Cronenberg in questa storia: oltre al tema della violenza sotterranea, c’è anche quello del "doppio". Già affrontato, tra gli altri, in film come Dead Ringers (Inseparabili), M. Butterfly e La Mosca, il tema del doppio è qui svuotato da implicazioni paranormali o fantascientifiche ed analizzato in quanto fenomeno legato alla psiche individuale e alla doppia natura dell’uomo.
Il film può essere letto come un apologo sull’ereditarietà del male, pronto a scatenarsi all’improvviso anche in individui che credono di averne vissuto al riparo, ma che invece accanto ad esso sono cresciuti. Un male che pre-esiste agli individui e che convive, silenzioso, dentro le persone. Così accade per i membri della famiglia Stall, che scoprendo il passato violento del capofamiglia vedono emergere, oltre ad alcune losche vecchie conoscenze del padre, tutte le tensioni accumulate nel profondo.
Il giovane Jack troverà uno sbocco massacrando di botte il bulletto che lo molestava nel suo liceo. La madre Edie invece, in una delle sequenze più sconvolgenti del film, sfogherà la sua rabbia trasformando un litigio cominciato con Tom in un coito selvaggio e quasi liberatorio sulle scale di casa, dal quale si allontanerà sprezzante abbandonando per terra, sdraiato e innocuo, il marito "assassino". Come se la personalità e i desideri dei due potessero essere soddisfatti solo grazie all’ingresso della violenza nella vita familiare.
A History of Violence, superficialmente etichettato da alcuni come un noir sulla provincia americana, è invece un film poco interessante sul piano della trama ma che scava a fondo nella psiche di personaggi comuni e dunque esemplari. Alcuni diranno che Cronenberg è cambiato, che si è ripulito e che ha rinunciato a dar forma ai suoi incubi. Non sanno quello che dicono.
Infatti dal gore e dalle ossesioni genetico-tecnologiche degli esordi (Rabid - Sete di sangue, Scanners e Videodrome, per fare qualche esempio) all’algida perfezione stilistica dei recenti Spider e A History of Violence passano forse anni luce di cura estetica ma i temi sono fondamentalmente gli stessi, forse perfino più inquietanti.
Con il passare degli anni e il raffinarsi della tecnica, Cronenberg ha elaborato le sue ossessioni fino a sfiorare la quasi-perfezione stilistica, affidandosi all’analisi psicologica e alla sottile arte di seminare inquietudine piuttosto che alla rappresentazione esplicita e truculenta delle sue ossessioni. Una finezza che si materializza perfettamente nella scena iniziale, con una lentissima carrellata orizzontale che segue il passo lento di due killers usciti da un motel: una scena angosciante ancor prima che sia mostrato un cadavere, una rappresentazione del male insito nella psiche umana che getta quasi automaticamente lo spettatore in un’inquietudine tanto più pervasiva in quanto non se ne comprendono bene le cause.
E a conferma della continuità di un percorso registico, nella sua follia tra i più coerenti di tutto il cinema contemporaneo, c’è la scelta dei collaboratori, gli stessi da una vita: la moglie Denise ai costumi, Peter Suschitzky alla fotografia, il montatore Ronald Sanders e l’autore delle musiche Howard Shore. E’ dal 1988 (alcuni sono con Cronenberg da prima, Sanders addirittura dall’81), dai tempi di Inseparabili che il team è sempre lo stesso. Squadra che vince...
Infine due parole per il curioso e placido finale, con la famiglia che si ritrova intorno al desco e la piccola Sarah che "aggiunge un posto a tavola" riammettendo il padre nell’intimità familiare. Un finale solo all’apparenza conciliatorio ed in realtà logica conseguenza di quanto enunciato nel corso del film. Come a voler dire che, passata la fase in cui è necessario accettare la verità della natura violenta dell’uomo e una volta accettata tale verità, le persone possono riprendere la propria vita come prima, convivendo silenziosamente con la stessa violenza pronta a riesplodere con uguale ferocia se le circostanze lo richiederanno. Quasi una conferma della banalità del male.
Federico Ferrone, drammaturgia.it



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Un tormentato viaggio nell’identità: in ciò che è reale e in ciò che non lo è, nelle pieghe nascoste dell’individuo e nel passato che torna a bussare, implacabile, alla porta con i suoi fantasmi.
Con l’ottimo A History of Violence, il canadese David Cronenberg sembra abbandonare l’elemento prettamente visionario che ha caratterizzato molti dei suoi film precedenti: La Zona Morta, Il Pasto Nudo, La Mosca, Videodrome, Inseparabili e si cimenta con un thriller alla Hitchcock, ispirato dall’omonimo romanzo a fumetti di John Wagner e Vince Locke.
Il risultato è un apprezzabile film secco e asciutto nello stile, ma dietro l’apparente linearità della storia affiora un tema ricorrente nella cinematografia di Cronenberg: l’esplorazione dell’identità, ovvero, siamo tutte creature che possono mutare non solo nel corpo (vedi La Mosca, Crash, Inseparabili, Spider) ma anche nell’anima.
In questo film è la forte contrapposizione tra l’identità presente e quella del passato, che possono non coincidere, a dettare legge con l’inevitabile scia di violenza, di sangue e di dolore che si porta dietro. Niente è come sembra, noi non siamo chi crediamo di essere e quel che appare è solo la superficie. A tutto ciò, Cronenberg unisce la risonanza emotiva di una normale e tranquilla famiglia della provincia americana e mostra cosa succede quando vi si inietta un’alta dose di violenza.
Tutto sembra crollare precipitosamente, il dubbio si insinua e si rafforza: Tom, il protagonista, deve guardare dentro di sé; ed i membri della sua famiglia, interrogarsi su chi sia veramente quel marito e quel padre.
La violenza del film è realistica, brutale ma molto sottile: esplode improvvisa tra le mura domestiche, nei luoghi più rassicuranti ed è spesso inevitabile, ne chiama altra in una spirale all’apparenza inarrestabile.
Un film che assume maggiore valenza anche per la scelta del cast davvero azzeccata. A cominciare da Viggo Mortensen che, smessi i panni dell’epico Aragorn de Il Signore degli Anelli, conferisce al suo personaggio la giusta dose di freddezza ed impenetrabilità dietro l’apparente maschera di normalità. Lo affianca Maria Bello, forse più conosciuta per la serie televisiva E.R., che qui è un po’ una rivelazione. Impeccabile come sempre Ed Harris, nel ruolo del gangster con un occhio solo. Caricaturale la breve, incisiva, apparizione del “redivivo” William Hurt.
Un’ultima segnalazione a conferma di quanto detto: la carica di desolazione e disperazione della scena finale intorno al desco familiare, in cui però si accende un barlume di speranza. Davvero grande cinema. Ci risulta però incomprensibile la logica di mercato che impone ad un film del genere un’uscita in periodo natalizio in cui l’opera di Cronenberg rischia di non avere l’attenzione dovuta. E sarebbe un vero peccato.
Cristina Giovannini, cinespettacolo.it



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Gli Stati Uniti d’America sono un grande paese, nato a seguito di un atto di violenza, la Rivoluzione, giusto o sbagliato che fosse, e che, a duecentotrent’anni di distanza, continuano a fondare la loro esistenza sulla violenza. Anzi, è quasi impossibile pensare alla storia di questo paese senza riandare con la mente a qualche episodio sanguinoso. La guerra del 1812, le lotte con i pellirosse, la guerra civile, la guerra ispanoamericana, gli assassinii dei presidenti, il Vietnam, la Corea, le guerre mondiali, le Torri gemelle, e via via, a caso, si può scandire la vita degli Stati Uniti attraverso una serie interminabile di guerre, ammazzamenti, massacri.
Si può certo fare lo stesso per qualsiasi altro paese, volendo. Ma mai come per gli Stati Uniti, questo legame con la violenza è tanto evidente. Pensiamo solo alla loro ossessione per le armi e alla loro inumana perseveranza nel comminare ed eseguire la pena di morte (che tocca quasi sempre alle fasce più deboli della società, se si è ricchi si può star sicuri che si finisce liberi). Non si sa mai chi potrebbe dar fuori di matto e regalarci qualche bel proiettile…
Come proclama lo stesso titolo, A History of Violence di David Cronenberg non è uno studio sociologico sull’America e la sua violenza, è solo un racconto. Una storia di violenza per l'appunto. Una come un’altra. Tra le milioni possibili nel Grande paese. Piuttosto è un’analisi della doppiezza degli esseri umani, cosa che interessa da sempre al regista canadese: cosa si nasconde nel lato oscuro della nostra mente…quella parte che raramente viene allo scoperto e che cerchiamo di far trasparire il meno possibile.
Cronenberg è sempre stato interessato a cosa si nasconde all’interno dell’essere umano anche in senso fisico, pensiamo a Il demone sotto la pelle, a Rabid – Sete di sangue, a Scanners. Poi, da Videodrome a La Zona Morta, da Inseparabili a Il Pasto Nudo per giungere sino a Spider, si è occupato di quella zona oscura del cervello di cui dicevamo. Quella zona che resta quieta sino a quando qualcosa non la faccia riaffiorare.
Tom Stall (Viggo Mortensen) è una persona tranquilla. Bravo padre di famiglia, bravo cittadino. Noioso sino all’inverosimile, quasi quanto il suo menage familiare, ove tutti sono bravi e buoni e, ça va sans dire, belli. Peccato che un certo giorno sia costretto a fare l’eroe, uccidere due assassini che intendevano fare del male a lui ed amici. Da quel momento, la sua vita diventa un vero e proprio inferno. Il suo eroismo, invece di fargli vivere una vita più tranquilla e beata, è latore di sfortune.
Poco a poco, è costretto a mostrare una parte segreta che aveva tentato di celare, di far sparire. Di più, una parte che aveva ucciso dentro di sé. Peccato che ci siano cose che non si possano uccidere e che si debba sempre lottare con quello che abbiamo dentro di noi. Il suo doppio, Joe Cusack, infatti non è morto…
Cosa succede quando riaffiora la nostra parte nascosta? Tutto quello che abbiamo tentato di costruire va a distruggersi. Così il menage di Tom va a pezzi, la violenza prende il posto di quella pace, ai limiti della noia, che prima regnava indiscussa. Tutto è violenza, tutto si fa violenza. Qualsiasi atto, qualsiasi relazione, viene dominata e segnata da questa violenza.
Persino sua moglie e il suo primogenito perdono il controllo e vengono profondamente toccati. Mangiare, parlare, fare l’amore: tutto subisce una trasformazione di segno negativo. Tutto quello che nella prima parte del film avveniva tranquillamente e pacificamente, nella seconda parte è mediato. Filtrato da questa nuova presenza…
È il lato animalesco degli uomini che prende il sopravvento. La ragione si perde. Contano solo gli atti istintivi. Primari.
Cronenberg ci presenta un mondo terribile. Un mondo nel quale non viene voglia di vivere. Un mondo dal quale si può solo voler scappare. Per non doversi confrontare con il sangue, la morte…
Un film che ci parla di un grande paese dal quale dovremmo apprendere a mantenere le distanze, per non ritrovarci un giorno nelle stesse tragiche condizioni. Speriamo davvero di mantenere celata per sempre la nostra zona morta, il nostro lato oscuro…
Gian Lorenzo Masedu, ilcinemante.com



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Un convincente Viggo Mortensen, abbandonata la maschera di Aragorn de Il Signore degli Anelli, interpreta qui il ruolo di un tranquillo padre di famiglia che è costretto, per difendersi, ad uccidere due rapinatori. Diventerà un eroe, ma una serie di eventi drammatici e imprevedibili sconvolgeranno la sua esistenza. Nelle prime scene, il nuovo film di David Cronenberg (regista canadese noto per una serie di film cupi e “sgradevoli”, quali La Mosca e il più recente Spider), sembra voler fare il verso ad alcuni classici del passato, come il sempre verde Cane di paglia di Sam Peckinpah, per citarne uno, dove una persona apparentemente tranquilla e mansueta, e per certi versi anche debole e fragile, nel momento in cui vede minacciata da estranei la propria famiglia si trasforma in un infallibile genio del massacro. In realtà, soprattutto nella seconda parte, il film prende una piega decisamente più noir, e l’intreccio si fa molto più giallistico e complicato, oscillando tra misteriosi personaggi vestiti di nero che tornano da un passato scomodo e violento (straordinario Ed Harris nel ruolo del gangster), e identità nascoste, o addirittura cancellate, per non rivelare agli altri chi si è veramente. E se il film, da una parte, è in grado di far riflettere lo spettatore su alcuni temi interessanti legati soprattutto alla violenza intesa come risoluzione dei problemi o come un seme indelebile che nessuno può cancellare dal proprio Io (oltre che alla “trasmissione” di questo seme, che sembra essere preso come esempio positivo dal figlio del protagonista), dall’altra non rinuncia a tutti i meccanismi tipici, anzi classici del genere thriller-noir: colpi di scena, atmosfere torbide, sesso audace ed esplosioni di violenza che a tratti sono al limite della sopportabilità. Nello scenario di un piccolo paesino dell’Indiana si consuma quindi un dramma feroce e imprevedibile, sorretto da una sceneggiatura forte e robusta, che Cronenberg, pur lavorando su commissione, dimostra di saper tenere bene sotto controllo dirigendo con stile tutti gli attori (anche quelli di contorno, come Maria Bello e il sorprendente William Hurt che appare nel finale), e rifilando allo spettatore un deciso, e molto efficace, pugno nello stomaco. Un film secco e diretto, decisamente da non consigliare ai deboli di stomaco.
Francesco Tremolada, sentieridelcinema.it



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Tom Stall, sposato con due figli, vive la più tranquilla delle vite possibili in una cittadina dell’Indiana. Un giorno, due balordi tentano una rapina nel suo locale. Costretto a difendersi, li uccide entrambi e balza agli onori della cronaca; col risultato di richiamare al paesino il misterioso Fogarty, convinto che Tom si chiami in realtà Joey e che abbia con lui un conto in sospeso. Per la famiglia Stall è l’inizio di un incubo inspiegabile… fino a un certo punto.
David Cronenberg, da eXistenZ in poi solo regista dei suoi film, sembra quasi voler razionalizzare il Lynch di Strade perdute, proprio come ha fatto Haneke nel recente Caché; ma non di meno lascia senza fiato. Ad attirarlo dev’essere stata la sfida di una sceneggiatura (di Josh Olson) che parla di massimi sistemi, bene e male, scissi in una dicotomia la cui assurdità è affermata solo in un secondo tempo. Questo può lasciare interdetti: per venti minuti, gelida sequenza iniziale a parte, non succede davvero niente in termine di eventi o conflitti. Ma lo spettatore è destinato a essere spiazzato e tradito nelle certezze più profonde: lo stesso Cronenberg agisce in modo inverso, e la metamorfosi di Tom Stall è in realtà una re-cognizione, a se stesso e agli altri, della metà oscura presente in ciascuno di noi; il che permette al regista di individuare nella piccola comunità di provincia, che rifugge il male insito nell’individuo in modo tanto conscio quanto innaturale, la vera “metamorfosi” mostruosa. Un messaggio profondo e pessimista, amplificato dal tipico approccio entomologico alla regia di Cronenberg; il quale dirige gli attori in modo eccezionale (grande Ed Harris) e gioca con i manicheismi (veri o presunti) dei personaggi, sovrapponendoli in modo agghiacciante. Peccato per l’epilogo, denso di humour nero ma inevitabilmente inferiore alle aspettative, con un William Hurt improbabile e sopra le righe; ma lo stupendo finale, solo apparentemente consolatorio, e due o tre scene da antologia (su tutte il violento amplesso consumato sulle scale di casa da Maria Bello e un Viggo Mortensen ormai “doppio” di se stesso) indicano che la strada è quella giusta. I fans di Videodrome si mettano il cuore in pace: anche se Cronenberg continua a non nascondere nulla (e i segni della violenza sono più che mai espliciti), il suo punto di vista è decisamente legato alle anormalità del mondo reale, figlie delle illusioni di chi lo abita. Proprio come in Spider e soprattutto M. Butterfly, forse il miglior film del regista canadese a tutt’oggi.
Gianluigi Ceccarelli, zabriskiepoint.net



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In una cittadina tranquilla del Nord America, vive Tom, uomo altrettanto tranquillo. Ha una moglie amorevole e un figlio irriso dai bulletti della scuola per la sua beffarda impassibilità di fronte ad angherie ed insulti subiti. Lavora in un piccolo locale che serve un buon caffè. Ma chi è realmente Tom? Quando fa fuori due pericolosi malviventi venuti ad invadere la sua quotidianità, la domanda sorge lecita. Si rafforza ulteriormente quando la popolarità acquisita per “l’atto eroico” porta nel suo locale veri e propri gangster che ne mettono in dubbio la reale identità. Tutto cambia: egli è continuamente perseguitato da loschi figuri, ed il figlio sviluppa un’inattesa aggressività. Ucciderà anche loro e sempre per autodifesa, coinvolgendo anche il figlio nella carneficina. A questo punto, è evidente ad ogni componente del “fu tranquillo” nucleo familiare, che l’unità identitaria di Tom è più fragile che mai, che è risorto dalle ceneri del passato un cruento e sanguinoso altro da sé. Chi è, dunque, Tom? È un uomo cui il destino ha inscritto irrimediabilmente una storia violenta che non accetta redenzione.
Nuovo allucinante viaggio del canadese Cronenberg negli abissi dell’animo umano, A History of Violence è una pellicola che prende spunto da un fumetto di John Wagner, per costruire su un’apparenza di genere, un discorso ontologico sulla violenza. Per farlo, sceglie – rispetto alla sua consuetudine - un diverso registro visivo che esteriorizza, comunque, le sue proverbiali visione metamorfiche. E i mutamenti qui evidenziati si avvertono non più nei corpi, ma nella psiche (anima), regalando inquietudini esistenziali che crescono con lo scorrere della pellicola. È una storia di violenza e sulla violenza che, pur celata, assopita, rielaborata, è sempre pronta ad esplodere laddove vi sia il giusto innesco. E la violenza contagia, si estende a macchia d’olio e si insinua, anche in coloro che sembrano esserne immuni - vedere ciò che accade al figlio di Tom. E quando arriva così virulenta, non può non sorprendere. Com’è possibile non accorgersi di aver vissuto accanto ad un efferato carnefice? – si chiede la moglie di Tom. Questo è il quesito che Cronenberg estende alla “tranquilla classe media americana” - nonché a tutti coloro che osservano -, talmente a suo agio con le armi in casa (vedere anche Dear Wendy dell’ex “dogmatico” Vinterberg, che, comunque, gettava uno sguardo su una realtà proletaria e alienata) da non accorgersi che la tragedia potenziale è sempre dietro l’angolo. Il regista canadese ci invita a riflettere su un’evidenza conclamata, che oltretutto è in forte espansione, rielabora le sue ossessioni per far luce su un’ossessione tutta americana che è incautamente diventata norma e modus vivendi: quella di vedere nemici ovunque, anche tra le mura domestiche. E, pertanto, il nemico tra le mura amiche ce lo mette davvero: uno uomo mite che è in realtà una perfetta macchina di morte. Un Viggo Mortensen mai così in parte, che è la perfetta trasfigurazione della quiete che si fa violenza - da notare il mutamento dell’intimità con la moglie: dalla dolcezza alla violenza. Una moglie interpretata dalla bravissima Maria Bello, che contribuisce ad esaltare il contrasto crescente che Cronenberg costruisce sui (e tra i) due personaggi. Riuscitissimo anche l’epilogo della parabola di Tom, con un eccentrico William Hurt beffardamente agghiacciante. L’ultima scena del film è esemplificativa della metamorfosi che vive ognuno dei componenti del nucleo familiare - forse è realmente ignara solo la figlia piccolina -, tra silenzio, rimorso, dolore e ossessioni che resteranno nell’anima - attraverso primi piani che parlano più delle parole. Per sempre.
Dopo Spider - prova minore e non linea col genio del regista canadese - Cronenberg torna al film di qualità superiore cui ci aveva - bontà sua – abituato, con modalità che era difficile attendersi. Un noir (genere cui non si era ancora misurato a meno che non si voglia considerare noir Il Pasto Nudo tratto da Burroughs. Cosa che, a mio modo di vedere, non è) che raccontato a voce non sortirebbe grande curiosità ma che attraverso le immagini è assai suggestivo e capace di coinvolgere e far riflettere: inquietando lo spettatore come solo lui sa fare. In definitiva, un Cronenberg al suo meglio, che non scontenta i suoi estimatori, e che potrebbe attrarre improvvise simpatie in chi da anni ha pregiudizi cristallizzati (dovuti all’eccesso di visività disturbante, qui veramente minima) sul suo modo di far cinema - vedi Irene Bignardi di Repubblica, ad esempio. Perchè il suo è grande cinema.
Léon, lankelot.eu
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 14:03]
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