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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 3

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 20:57
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Sesso: Maschile
09/10/2007 23:01


RASSEGNA STAMPA PARTE 3


Dennis Clegg dopo essere stato dimesso da un ospedale psichiatrico sta cercando di ricostruire la sua vita. Scrivendo un diario cerca di scoprire la verità sul suo passato misterioso e traumatico e sulla causa della morte di sua madre…
Come nel film Scanners il regista David Cronenberg, isola le suo ossessioni sulle metamorfosi corporali, circoscrivendole all’interno dello spazio chiuso della mente umana. Il racconto in prima persona dello schizzofrenico Dennis Clegg è un racconto multiplo, non unitario. La soggettiva della mente malata del protagonista offre al regista la possibilità di analizzare la struttura e le derive del racconto per immagini. Nella pellicola il prologo diventa l’epilogo e il concetto di realtà, vera o apparente, è ucciso (come nel Pasto Nudo Burroughsiano). Lo psicodramma edipico messo in scena con elegante freddezza dall’autore canadese, è anche un agghiacciante viaggio all’interno della mente alla ricerca della definizione del concetto di realtà. L’alterazione, l’illusione e l’allucinazione nel racconto sono sullo stesso piano. La presenza di Clegg adulto, accanto al Clegg bambino nel ricordo allucinatorio, ha un effetto straniante. La rimozione catartica dopo la ricostruzione del trauma che ha generato la follia è impossibile, perché la stessa ricostruzione/rivisitazione è malata dall’interno.
Il virus cronenberghiano dopo il corpo ha intaccato la mente, generando tranelli e buchi neri nel racconto/confessione di Clegg (Cronenberg). Quello del regista canadese è quindi un film sulla malattia della mente e del racconto filmico. Una malattia che ha sconvolto l’ordine delle cose, annullando ogni concetto estetico e manicheo, portando l’immagine sull’orlo di una vertigine ontologica. La fotografia dipinge gli interni con gli stessi colori degli esterni ricercando una piattezza cromatica irreale. La bravissima Miranda Richardson interpreta più personaggi, aiutando con questo espediente la creazione dei falsi mondi paralleli della scrittura di McGrath. La tela del ragno, è la metafora della ricerca di una perfezione impossibile nella realtà.
Complesso e sfaccettato, Spider è un film che nel suo distacco programmatico e apatico, nella sua esasperante lentezza narrativa può disturbare lo spettatore.
Lasciatevi avvolgere dalla sua ipnotica rarefazione, scoverete fra le pieghe una perfetta miscelazione di Becket, Kafka e Freud. Quasi un diario sulla narrazione letteraria novecentesca e sul rapporto tra scrittore e scrittura, personaggio e interprete.
Spider è un opera minimalista, ma non minore all’interno della filmografia di David Cronenberg.
Paolo Bronzetti, centraldocinema.it



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Spider, il ragno, o meglio la mente, nella cui ragnatela ci intrappola il nuovo film di Cronenberg, un gelido e asettico viaggio nella distorta mente di uno psicopatico, interpretato dal bravo Ralph Fiennes. Il regista canadese ci racconta infatti la storia di Spider, schizofrenico che, uscito dal manicomio, si reca in una casa di cura nel paesino in cui è cresciuto. Qui inizia una sorta di indagine-rievocazione del proprio passato e delle radici della propria pazzia, fino all’inquietante, edipica e matricida verità finale. Nei 99 minuti di Spider, Cronenberg immerge lo spettatore nella storia con una singolare focalizzazione interna diretta sul personaggio principale, e costruisce, pertanto, una prospettiva deformante che si snoda lungo un oscuro flashback "al presente", una proiezione mentale tutta diegetica che giustifica anche la presenza "in campo" del pensante nel pensato. Lungo questa prolungata analessi Cronenberg dissemina particolari spaesanti, che trasmettono allo spettatore quella sensazione di "disturbo" che costituisce proprio l’intento principale del regista e oggettiva questo viaggio nel labirinto mentale di uno psicopatico.
Si va, quindi, da volute incongruenze narrative a visioni, dall’utilizzo della stessa attrice (Mirando Richardson) per più ruoli a continui salti dal presente ad un passato pensato nel presente. Il film, pertanto, si snoda come un intricato e funzionante meccanismo narrativo che gioca con l’immedesimazione e l’aderenza dello spettatore, riuscendoci molto bene, ma risultando, inevitabilmente, limitato. Decisamente presente, infatti, l’impressione che si tratti semplicemente di un esercizio di bella calligrafia, un esercizio cinematografico un po’ fine a se stesso. Questa impressione è accentuata da alcuni momenti di indecisione stilistica, in cui lo spettatore è lasciato in bilico tra due modalità di fruizione: da un lato il congegno elaborato da Cronenberg invita nella mente labirintica del suo personaggio e colpisce allo stomaco, dall’altro la rarefazione emotiva e l’asetticità tipiche del regista canadese costringono ad uscire dal meccanismo e ad osservarlo freddamente dall’esterno, trasmettendo un sensazione di parziale incompiutezza. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Patrick McGrath, il quale ha personalmente curato il trattamento e la sceneggiatura.
Simone Spoladori, centraldocinema.it



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Arrivato in una sorta di laido rifugio per malati di mente o persone sole, Dennis Clegg – soprannominato fin da piccolo Spider dalla madre per la sua capacità di costruire raffinate ragnatele di corda nella sua stanza/casa – rievoca la sua infanzia vissuta malamente tra devastanti complessi pseudo-edipici e un padre ubriacone, donnaiolo e violento. Dall’acclamato romanzo di Patrick McGrath (che si basò su esperienze e conoscenze anche autobiografiche: è figlio di uno psichiatra), che insieme a Cronenberg sceneggia e modifica il suo stesso testo, un film sulla schizofrenia che non riesce mai a essere veramente dolente e irrazionale come la sporca e anonima ambientazione inglese o la recitazione sottotono di Fiennes: il regista lascia a casa tutte le sue ossessioni e la sua primaria tematica del corpo per interiorizzare (troppo) il dramma personale di Spider e concentrarsi più sul dolore del ricordo che sul protagonista.
Ma tutto, dalla rappresentazione stereotipata di un padre inesistente e nocivo alla ripugnanza anche fisica della sosia della madre fino alla presenza costante ma tutto sommato immotivata di Spider nelle scene del passato, è vecchio e già visto e il fondamentale binomio letterario donna angelicata/donna vampira non regala mai riflessioni né emozioni. Da Cronenberg è possibile aspettarsi anche forti delusioni, ma raramente un film piatto e fatuo come questo: praticamente non sfruttata la metafora delle tele costruite da Spider, che in realtà è una mosca all’interno di esse e non un ragno, come simbolo del suo essere prigioniero della sua mente, vera e unica gabbia del proprio corpo. Musica di Howard Shore, fotografia "grigio-britannico" di Peter Suschitzky.
Roberto Donati, centraldocinema.it



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Spider è un genietto di otto anni che costruisce ragnatele per fermare l’attimo fuggente e difendersi dall’ineluttabile "panta rei". Spider è un uomo di circa quarant’anni che, dimesso dall’ospedale psichiatrico, cerca e ritrova il proprio passato in un quartiere periferico di Londra. Spider è un bambino che, in preda al complesso edipico, non riesce ad accettare che la madre ami lui ma anche il padre, e in maniera piuttosto diversa e "perversa". Spider è un adulto disturbato che annota tutto il proprio passato su un blocknotes in un linguaggio che è a noi indecifrabile. Spider ha, da bambino, paura e timore del padre.
Spider rivede la madre nell’anziana istitutrice che dovrebbe aiutarlo a reinserirsi nella vita normale. Spider si sdraia in posizione fetale nella vasca, immerso nell’acqua, alla ricerca dell’utero materno. Spider detesta la "meretrice" che sottrarrà al padre e a lui stesso il caldo abbraccio della madre. Spider sa che il padre ha ucciso la madre in un momento di animalesco abbandono. Spider è consapevole che il gas, in tutta la faccenda, ha giocato un ruolo "primario"...
Spider è uno psicopatico che ci racconta le tragedie che hanno costellato la sua esistenza, snocciolandole a morsichi e bocconi, tra un’apertura e l’altra della preziosa valigetta che conserva il "tesoro". Spider ha poche certezze: quattro camice indossate una sopra all’altra, un giro di spago che blocca un pezzo di cartone, le immancabili sigarette... E poi solo i ricordi. La bellezza e l’intelligenza della madre, andate sprecate fra le braccia del padre, il degrado etico di quest’ultimo, la decadenza morale delle quattro mura domestiche. Fino alla catarsi, al momento della vendetta che diventa espiazione purificatrice.
L’ambientazione è cupa e ossessiva, gli interni squallidi e maleodoranti, la luce diventa accecante solo quando tenta di rendere il delirio della follia. Si fa spesso uso dei contrasti cromatici, si utilizzano ad arte le zone di luce ed ombra. Indimenticabile la prima carrellata in piano sequenza che ci presenta il protagonista che scende confuso dal treno. Inquietante la compresenza di Spider adulto alla propria vita infantile. Splendida Miranda Richardson che ben sa rendere la duplicità intrinseca al ruolo materno. Irriconoscibile e sorprendente Ralph Fiennes (protagonista de Il paziente inglese). Chi è, insomma, Spider? Certamente uno di noi.
Mariella Minna, centraldocinema.it



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Dimesso dall’ospedale psichiatrico che lo ha ospitato sin da quando aveva dodici anni, Dennis Clegg torna nel quartiere in cui è nato per stabilirsi provvisoriamente in una clinica di riabilitazione. L’atmosfera in cui si trova immerso costringe Spider, così soprannominato per la sua abilità nell’intrecciare tele con lo spago, a rievocare gli eventi che sono stati causa della sua follia e dell’allontanamento dalla famiglia. La tragica scomparsa della madre, l’arrivo di una prostituta che le somiglia sinistramente e l’ostilità del padre diverranno i dettagli più importanti di un inchiesta che Spider svolgerà su se stesso, addentrandosi nel rischioso labirinto della sua memoria.
Non è la prima volta che David Cronenberg abbandona il territorio delle metamorfosi morfologiche per isolare la sua distintiva parafrasi della realtà negli spazi della mente. Di questa ricerca quasi si potrebbe tracciare un percorso, da Scanners (1981), attraverso La Zona Morta (1983), ove già la ragione devia per soluzioni indistinte, fino a compiere un lungo salto verso il radicalismo di Spider: poiché il disperato Dennis Clegg, a ben guardare, non è diverso dagli altri personaggi dell’autore la cui follia è già scritta nel destino - pur se, nell’ordine tematico, Cronenberg sostituisce il prologo all’epilogo, contravvenendo ad una sua prefissata regola narrativa. Si tratta, piuttosto, di percorrere stavolta un sentiero a ritroso lungo un film in prima persona; circolare ed incompiuto nonostante, con il talento che gli appartiene per la mistificazione del reale, il modello cronenberghiano offra l’illusione di una catarsi, d’annettere ai tranelli impliciti in un racconto che si struttura nella lunga soggettiva di una mente schizofrenica, quindi molteplice per costituzione ed incapace di offrire una prospettiva unitaria. Dei tragici eventi che conducono ad un delitto, noi vediamo esclusivamente ciò che Spider rivela nella sua flagellante confessione e ciò che ostinatamente “vuole” ricostruire attraverso un frammentato procedimento letterario (diventando, in tal modo, quasi metafora del travagliato vincolo intellettuale che circoscrive il rapporto tra scrittura, autore e personaggi), indagine coatta davanti a cui il regista mette in guardia, ricorrendo alle straordinarie trasmutazioni periodiche di Miranda Richardson, alla coesistenza di passato e presente e alle metafore - come la natura fittizia della ragnatela a cui il suo mondo rivolge lo sguardo, in cerca d’armonia - che ne smascherano la struttura logica.
Grazie anche ad un Ralph Fiennes che non lascia dubbi sulla sua bravura d’interprete, e ad un’opaca raffigurazione cromatica, che stabilisce un principio d’omogeneità tra gli ambienti interni ed esterni rimarcando il solipsismo del romanzo di McGrath, Spider ricompone in una vertiginosa spirale gli elementi estetici e figurativi cari al cinema di Cronenberg, di nuovo assorto in una specifica comprensione del tempo e dello spazio, con un rigore che costituisce tuttora il suo miglior biglietto da visita.
Francesco Russo, tempimoderni.it



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Spider è la storia di Dennis, un uomo (da bambino soprannominato Spider da sua madre) che esce da un manicomio (ma la sua salute mentale è tutt’altro che ristabilita) e va a vivere in una casa che ospita altre persone che hanno avuto (e tutto sommato ancora hanno) problemi psichici. In un opprimente clima kafkiano Spider/Dennis cerca di ricostruire il suo passato e forse si prepara a completare ciò che non è riuscito a fare da bambino… ma forse è tutta una sua fantasia malata…
Il nuovo film di Cronenberg non offre appigli sicuri allo spettatore, anzi lo spiazza su più livelli. In primo luogo il regista canadese fa un film che non somiglia né al Croneneberg consueto (quello, per intenderci, di Rabid, Brood, Scanners…), né a quello un po’ più inconsueto (Crash, M. Butterfly, Il Pasto Nudo). Spider è infatti diverso, sia perché rinuncia all’orrore più sanguigno dei primi film, sia alle deviazioni mentali, ma comunque più corporee degli altri titoli. Questa volta l’horror risiede solo e soltanto nell’anima, nella mente di Dennis e il film propone allo spettatore il mondo oscuro così come lo vede-ricorda-immagina o forse inventa il protagonista. Per questo non è possibile appoggiarsi ad un trama sicura, perché la storia è un insieme confuso di dati che Spider offre a noi come ricordi, e questo anche quando è evidente che non può averli vissuti o visti in prima persona (per esempio l’omicidio della madre: nel flashback non è presente il piccolo Dennis, eppure l’adulto Dennis lo ricorda…).
Insomma, il film è un rompicapo, com’è un rompicapo la mente dell’uomo, disturbata da eventi probabilmente da ricondurre a brutte esperienze negli anni d’infanzia, ma di fatto difficilmente interpretabili. Negli occhi di Dennis le persone si confondo e quindi, forse, anche gli eventi, indipendentemente dal fatto che essi siano in parte veri e in parte no, del tutto reali o completamente inventati come reazione ad un’altra sconosciuta verità. Tutto questa confusione rende il film ambiguo, ma, proprio per questo, molto affascinate. Spider è infatti una lugubre esperienza unica, a cui però la maggior parte del pubblico non è purtroppo preparata (quanti i mugugni in sala!).
Chi scrive ama tutto il cinema di Cronenberg, ma predilige soprattutto i corpi estranei, come questo Spider. Una volta di più David Cronenebrg dimostra di essere due registi, con due approcci diversi nei confronti della realtà, dove la visione più interiore (qual è appunto quella di Spider e del secondo gruppo di film citati all’inizio) non significa il tradimento delle sue qualità più carnali. Basterebbe vedere il misconosciuto Crimes of the Future (1970) per capire che fin dagli inizi Cronenberg non è mai stato solo il regista delle "mutazioni", ma anche un autore legato ad atmosfere più interiori e oniriche. Spider è, appunto, soprattutto interiore ed onirico, raggelato in un clima da incubo, nel quale le case e le strade prive di persone sovrastano il protagonista, lo rendono una impotente apparizione all’interno di un quadro metafisico, un individuo che si trova circondato (come nel sogno iniziale di Il posto delle fragole di Bergman, in qualche modo citato da Cronenberg) dalla frastornante materia di cui sono fatti gli incubi.
Sergio Gatti, centraldocinema.it



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Affetto da un grave disturbo mentale, 'Spider' (Ralph Fiennes), appena uscito da un manicomio ed ospitato in una casa d'accoglienza gestita dalla signora Wilkinson (Miranda Richardson), tenta di ricostruire il proprio passato attraverso l'utilizzo della memoria recandosi, fisicamente o meno, nei luoghi a lui familiari e riportando tutto in un piccolo diario scritto in un linguaggio indecifrabile e con un apparente caos che rispecchia il suo stato psichico. Inizia così un viaggio complesso ed intricato dentro i ricordi, che hanno come scenografia i sobborghi dell'Est di Londra, che lo portano alla scoperta di una realtà angosciante intrisa di disperazione per la perdita della madre e di odio per la donna che ha sedotto suo padre (Gabriel Byrne), e che lo fanno immergere sempre di più dentro un nuovo stato mentale deviato che lo ricondurrà alla follia.
Lucidissima e profonda riflessione sulla condizione mentale affrontata da un impeccabile David Cronenberg, che abbandona effetti speciali, sangue e carne per dedicarsi alla materia celebrale e quanto ne concerne. Una complessa struttura narrativa, splendidamente districata dal regista, che si immerge direttamente nei meandri della memoria, giocando a più livelli e sfruttando tutti i suoi aspetti, poiché ciò che ricordiamo non è la realtà ma la nostra percezione della realtà a distanza di tempo. Nel caso di un malato mentale questa caratteristica viene amplificata e il ricordo, deturpato dalla malattia, è scisso dal regista in tre strati evidenti e allo stesso tempo impercettibili: quello dei ricordi certi, in cui è presente il protagonista da bambino, quello dei ricordi ipotetici a cui il bambino non ha assistito e quello dei ricordi deformati dallo stato mentale deviato. Il risultato è un disorientamento dello spettatore costretto a vedere sia la realtà attraverso la mente del protagonista, che attraverso l'occhio di un regista che plasma luci e colori (splendida la fotografia) in funzione della storia. Prima di accorgercene ci troviamo così invischiati in quella tela di ragno che Spider costruisce per difendersi e attaccare allo stesso tempo, e non siamo più capaci di allontanarci dalla vera realtà che alla fine ci investe in pieno.
La sceneggiatura è tratta dal romanzo di Patrick McGrath, che ne ha curato anche l'adattamento cinematografico, sconvolgendo non poco la struttura del libro. Gli interpreti sono straordinari, grandioso Ralph Fiennes col suo isterico farfugliare, il cui sguardo dice più di mille parole (da candidare all'Oscar), mitica la Richardson che interpreta in un sol colpo tre personaggi e bravo anche Gabriel Byrne. Belli i titoli di testa. Musiche, non invadenti, del premio Oscar Howard Shore.
Francesco Puglisi, cinefile.biz



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Cronenberg tesse la tela di Spider e vi rimane impigliato: sembra far di tutto per rendere suo questo film fortissimamente voluto da Ralph Fiennes, ma debole è l'assunto, debole l'idea e debole (presumo, non l'ho letto ma ho letto altro dello stesso sopravvalutato scrittore) il romanzo di quel Patrick McGrath che, elevato alla notorietà italiana grazie a due mediocri opere (Follia e Il Morbo di Haggard), incensate molto, mette soggetto e sceneggiatura a disposizione del regista canadese. Il tormento del protagonista, figura ferita dentro e biascicante dall'inizio alla fine, viene a galla per flashback mentre questi ricostruisce il suo passato scrivendo incomprensibili geroglifici nel suo taccuino: si capirà ben presto che quello che stiamo vedendo è solo il risultato del distorcente filtrare operato dalla mente malata di Dennis. La storia è quella banalotta e convenzionalissima di un complesso d'Edipo non superato: il bimbo, soprannominato Spider (ha l'abitudine di costruire complicate tele fatte di spago nella sua cameretta), scopre che alla mamma piace far l'amore col papà e il disturbo e la gelosia sono perturbanti al punto da fargli immaginare l'assassinio dell'angelica figura materna da parte del padre in combutta con la matrigna-puttana che prenderà il posto della genitrice virtuosa e amorevole. A quel punto il ragazzino decide di togliere di mezzo quella che si rivelerà (?) essere solo una sua immagine mentale laddove la sua schizofrenia lo conduce, invece, a un effettivo matricidio. Il meccanismo traspositivo si mette in moto anche a distanza di tempo quando, uscito dal manicomio e albergato in un ricovero per disadattati, Spider un bel giorno scopre che anche l'istitutrice non ha più la faccia di Lynn Redgrave ma quella dell'onnipresente (e molto brava) madre\matrigna Miranda Richardson: apriti cielo, è ora di far fuori anche lei...
Delude l'esiguo spessore e la superficialità nella trattazione di temi che, al di là dello script, sembravano avere in potenza spunti interessanti: il rigore della messinscena, per niente effettata e molto essenziale e che ingloba in sé sapientemente realtà e fantasia paranoica, non basta a dissipare la sensazione di un impressionante vuoto meramente illustrativo, per quanto velatamente allucinato, che accompagna la visione di un film che si affida ciecamente e quasi esclusivamente all'esilissima idea centrale. È chiaro l'intento di un approccio minimalista da parte del regista e raffinate sono alcune soluzioni da lui adottate per rendere credibile la fragile psiche del protagonista, soprattutto nella confusione dei piani effettivi e mentali, ma il tentativo di renderne la schizofrenia abbassando il tono visionario, costringendolo nell'ambito di una quotidianità grigia e opprimente e senza sottolinearlo pedissequamente, per quanto lodevole, non riesce a fare della storia di questa ossessione imprigionante un film realmente ossessivo, trattenendosi a stento alle larghe maglie di una sceneggiatura dilatata a dismisura e con nessun appeal, affidandosi a un tono sospeso che, lungi dall'inquietare, ha un curioso effetto ottundente. Come ormai gli capita sempre più spesso Cronenberg varia rispetto alle costanti del corpus (in verità piuttosto compatto) della sua opera: rinuncia alle sue visioni terrificanti (nel romanzo ce ne sono ed il regista ha voluto farne a meno per evitare l'horror e insistere in maniera più pregnante sul tema dell'identità perduta) in favore di un registro austero ma pedante ben lontano dalla sublime ambiguità di un M. Butterfly o dagli effetti devastanti di un Crash: manca a Spider il coraggio dell'indefinito, confondendo l'autore le piste ma risultando troppo sollecito e puntuale nel ricomporle e decrittarle. Rimangono i bei titoli di testa, che spesso Cronenberg concepisce come affascinante oggetto a parte, e che qui esplorano le macchie di Rorschach, e le splendide, efficaci musiche di Howard Shore, fedele collaboratore del regista.
Luca Pacilio, spietati.it



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Ci si sprofonda nella poltrona fissando lo schermo bianco, poi le luci si spengono, la realtà sfuma in un bagliore nero e prende il sopravvento una storia dai confini rettangolari. Gradualmente i colori, le voci, i suoni formano un tutt'uno che, pur nell'immobilità del viaggio, permette allo spettatore di camminare in un sottile e quanto mai precario limbo, dove emozioni e pulsioni hanno la possibilità di uscire allo scoperto. Il tragitto di Spider di David Cronenberg, però, non esce dal perimetro dello schermo. Si è testimoni di un delirio senza riuscire a penetrarlo.
L'idea di una follia non giustificata in modo esplicito dal solito mattone in testa in età pre-puberale è molto interessante, perché siamo abituati ad un rapporto causa-effetto in grado di risolvere meccanicamente qualsiasi alienazione. Ma un soggetto così complesso avrebbe avuto bisogno di un approccio molto più visionario, in grado di trasmettere quello che l'oggettività dei fatti nasconde. David Cronenberg sceglie invece una messa in scena essenziale e cupa ma tutto sommato piatta, conferendo al racconto una lentezza che non diventa mai comunicativa. Il vagare di un dolente Ralph Fiennes, tutto occhi sgranati e biascichii, aggiunge poco ai moti del suo inconscio e l'idea di rendere il protagonista testimone del suo delirio è, all'inizio accattivante, poi semplicemente ripetitiva. Come la tela di ragno entro cui Spider si rifugia coltivando la sua insana follia. Gli unici guizzi sono nei dettagli, molto cari al regista canadese e ammantati della consueta morbosità (una viscida anguilla per cena, i denti neri della "nuova" madre, lo sperma gettato in faccia allo spettatore), non sufficienti, però, ad approfondire un disagio e a renderlo toccante. Molto brava la camaleontica Miranda Richardson, meno convincente il volenteroso Ralph Fiennes: si ha costantemente la sensazione che l'attore prevalga sul personaggio.
Luca Baroncini, spietati.it



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La recensione che visse due volte

Il ragno nel buco
Da un mediocre romanzo di Patrick McGrath, anche sceneggiatore di Spider, Cronenberg deriva un film debolissimo che neanche i suoi fans più accaniti, credo, riusciranno a difendere a cuor leggero e onestà intellettuale intatta. La cosa più preoccupante, quella che davvero inquieta stavolta di Cronenberg, è che non dà l’impressione di aver girato un film interlocutorio né di aver fatto un passo falso comunque foriero di un qualche “prospettivo” spunto/spiraglio di sviluppo futuro; David Cronenberg, con Spider, si è semplicemente ripiegato su se stesso e ha girato un film cronenberghiano ma epurato dei cronenberghianesimi più tipici, quelli che da sempre lo caratterizzano e ne hanno decretato la sostanziale sopravvalutazione. D’altra parte, già eXistenZ era stato un bel campanello d’allarme: summa riepilogativa del suo cinema, il film-gioco metteva in scena, fondendoli, i due Leitmotiv del p(r)o(f)eta della Nuova Carne: le mutazioni biologico-corporee indotte dalla tecnologia e la stratificazione/confusione dei livelli di realtà, immediata conseguenza del “nuovo” apparato percettivo dell’homo tecnologicus. La grossa delusione di eXistenZ era costituita dal fatto di presentarsi come ovvio (e “ottuso”) remake di Videodrome giunto abbondantemente fuori tempo massimo e risibilmente aggiornato all’epoca multimediale videoludica; la cosa interessante, di eXistenZ, era l’(auto)ironia con cui, per la prima volta, Cronenberg sembrava maneggiare i temi portanti del suo cinema. Come se volesse chiudere un (IL) capitolo e, “scherzandoci su”, prenderne le distanze (si veda la sequenza dell’assemblaggio della pistola organica, evidente citazione parodica della “serissima” mano da fuoco sfoggiata da Max Renn in Videodrome). Probabilmente stanco di scoperchiare infinite scatole cinesi (la ormai prevedibilissima e stravista costruzione in abisso di eXistenZ) e di elucubrare da 30 anni su argomenti nati vecchi (Ballard ha scritto Crash nel 1973...), Cronenberg ha tentato con Spider una normalizzazione non snaturante del suo cinema che fosse in grado di far piazza pulita di una pesante eredità “parafilosofica” ormai sclerotizzata ed obsoleta (già oggetto di ironica abiura, ripeto, in eXistenZ). Niente Nuova Carne al fuoco, dunque, ma spazio - come già in Dead Ringers e soprattutto in M. Butterfly - a un rispettabilissimo, umanissimo dramma psicologico interiore, esplorazione filmica dei complicati meccanismi di funzionamento della mente (di un pazzo) –ergo- stop al Cronenberg più pacchiano e mutante, via libera al Cronenberg della labilità dei confini tra realtà vera e realtà percepita. Esemplare dell’intenzionalità/ostentazione di tale atteggiamento purificatore e “classicista” è il trattamento riservato al romanzo di McGrath, curiosamente mutilato delle pagine che sembravano davvero scritte apposta per il regista Canadese, pagine piene di viscide larve e di corpi muta(n)ti (“... il retto mi attraversa il cranio e l’ano si trova in cima alla testa, dove tra le ossa che si uniscono alla sommità si è formata un’apertura, che io tocco continuamente con orrore e sorpresa, una sorta di matura fontanella escretoria...”) e al contempo fedelmente trasposto nella struttura bipartita in cui passato/presente e verità/ricostruzione schizofrenica si compenetrano, si confondono (veri cronenberg-ish) per poi chiarirsi e concludersi in maniera perfettamente coerente e intelligibile. E banale. Sì, perché l’architettura di Spider (libro e film) è assolutamente banale e prevedibile (“classica”), essendo chiaro fin da subito che la realtà non è quella che il personaggio Spider ricostruisce e racconta. Di questo Cronenberg riappacificato e fruibile sono rimasti, in Spider, molti marchi di fabbrica: l’elegante fotografia di Suschitzky (qui meno fredda che in passato), i lenti e sinuosi movimenti di macchina, le belle musiche di Howard Shore (più minimaliste del solito) e la recitazione straniata, con un Fiennes che però non fa molto di più che bofonchiare e caracollare tutto il tempo; davvero poco per risollevare le sorti di un film privo di motivi di reale interesse, lento ai limiti del catatonico, vuoto di contenuti e sostanzialmente, semplicemente noioso.

Strategia del ragno
Da un mediocre romanzo di Patrick McGrath, anche sceneggiatore di Spider, Cronenberg deriva un film splendido che non solo affascinerà i suoi più accaniti fans, ma che non mancherà di procurargliene di nuovi anche tra gli scettici. Spider, infatti, è sì un film pienamente cronenberghiano ma è anche, insieme a Dead Ringers e M. Butterfly, il suo film più “tradizionale” e fruibile. Spider è (già) un Classico: dopo il film-gioco eXistenZ, magistrale capolavoro riepilogativo di tutta l’estetica-poetica del geniale regista canadese, Cronenberg ha deciso di sottrarre dal suo Cinema del corpo, delle mutazioni “tecnologizzate” e del depistaggio percettivo dei sensi “infetti” dell’homo tecnologicus, gli elementi più scomodi e disturbanti (ma mai gratuiti) per indagare, senza effett(acc)i e mostruose contaminazioni biomeccaniche, i segreti meandri della psiche. Questa sottrazione è ovviamente motivata: una volta portata a compimento in eXistenZ l’epopea della Nuova Carne proiettata in un futuro-presente che ormai ci appartiene, Cronenberg considera lo spettatore come compiuta Nuova Carne al lavoro, pronto a dubitare “naturalmente” dello statuto di Verità dell’Immagine (tele-visiva in Videodrome, video-ludica in eXistenZ, cinematografica in Spider); dunque, dato che il futuro è ora, non c’è più bisogno di insistere “didatticamente” sul perché dell’esserCi hic et nunc della Nuova Era né sulle cause dell’abbattimento dei confini tra realtà/immaginazione, verità/sogno, oggettività/soggettività, tutto è già dato, già accaduto all’interno e all’esterno delle profetiche visioni del cinema di Cronenberg. Siamo (ormai) pronti. E Spider è forse il primo Dramma Psicologico del nuovo millennio, dell’epoca cinematografica post-DavidCronenberg. In effetti la naturalezza, la apparente “banalità” della complicata struttura di Spider, in cui passato, presente, immaginazione e realtà si intersecano e si (con)fondono, non fanno che mettere ancora più in risalto la sostanziale perfezione raggiunta dal cinema del regista, che si presenta come una macchina autosufficiente e autoreferenziale, pronta sì ad affascinare gli “iniziati” ma ormai talmente (neo)classica da risultare riconoscibile, fruibile e intellegibile, nella sua grandezza, anche a chi superficialmente ha sempre snobbato David Cronenberg bollandolo come un sopravvalutato regista di horror filosofeggianti, sostanzialmente incapace di crescere, di rinnovarsi e di staccarsi definitivamente da un’infantile ricerca del turbamento dalla grana grossa e del disgusto fine a se stesso. Così stavolta basta un vetro rotto e uno spago intrecciato a rappresentare la metaforica trasformazione uomo-ragno, è sufficiente l’alternarsi di due attrici per fotografare la vertigine schizofrenica di una mente in the mouth of madness, ci si affida allo sguardo e alle movenze di uno splendido Fiennes per evocare deliranti visioni paranoiche... Ma basta leggersi uno dei tanti esempi di prosa “cronenberghiana” del romanzo di McGrath per capire quanto David Cronenberg abbia (inaspettatamente) purificato la fonte letteraria a favore di una sua “cinematografizzazione” pulita, limpida, adulta, assolutamente (di nuovo) Classica: “... il retto mi attraversa il cranio e l’ano si trova in cima alla testa, dove tra le ossa che si uniscono alla sommità si è formata un’apertura, che io tocco continuamente con orrore e sorpresa, una sorta di matura fontanella escretoria ...”; questa e molte altre sono le immagini che sembravano “invitare a nozze” Cronenberg con le sue caratteristiche derive mutanti e visionarie, questa e molte altre sono invece le dimostrazioni (se mai ce ne fosse ancora bisogno) che Cronenberg è ormai un Autore tout court e che non ha più (ma non ha mai avuto, in realtà) bisogno di “effetti” di sorta per catturarci con le sue splendide ossessioni. Le sue vere armi sono (sempre state) altre, “puramente” cinematografiche; tra queste tornano in Spider, perfettamente cristallizzate, molte tra le più tipiche e inconfondibili: le vertiginose strategie narrative, l’elegante fotografia del fido Suchitzky, i lenti e sinuosi movimenti di macchina, le belle musiche di Howard Shore e la recitazione straniata funzionalissima al suo cinema gelido, lucido e (ora più che mai) tetragono. Qualcuno ha ancora dei dubbi?
Gianluca Pelleschi, spietati.it
[Modificato da |Painter| 10/06/2010 20:57]
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