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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 1

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2010 20:55
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Sesso: Maschile
09/10/2007 17:53


RASSEGNA STAMPA PARTE 1


Dal romanzo (1990) di Patrick McGrath che l'ha adattato col regista. Anni '80. Dimesso dopo molti anni da un ospedale psichiatrico, Dennis Cleg, detto “Spider”, è ospitato in una struttura di reinserimento, sita nel quartiere dove aveva trascorso l'infanzia e diretta dalla signora Wilkinson. La familiarità del luogo fa riaffiorare in lui ricordi del passato che in frasi sconnesse appunta su un taccuino e che nel film si condensano in flashback menzogneri, frutto della sua immaginazione psicotica. In essi il padre si era portato in casa Yvonne, una prostituta, dopo avere soppresso la moglie. Nella realtà era stato Spider bambino a uccidere la madre col gas. Spider adulto identifica nella signora Wilkinson una Yvonne rediviva e tenta di ammazzarla. A quel punto, presa coscienza di essere un matricida, si lascia ricondurre nell'ospedale psichiatrico. Il 16° lungometraggio del canadese D. Cronenberg esplora gli anfratti umidi e vischiosi di una mente sconvolta, quella di un bambino che, dopo aver sviluppato un affetto morboso per la madre – parallelo alla ripugnanza per la figura paterna – è sprofondato in un infantile senso di colpa rimosso o trasfigurato. La sagacia registica è evidente: memorabile l'interpretazione “ragnesca” di R. Fiennes (da pronunciare all'irlandese come vuole l'attore: reif fains) e notevole nella triplice parte M. Richardson; la cupa e claustrofobica ambientazione in interni (i muri, i fili) e in esterni (il gasometro, lo squallore periferico); gli agganci ai film precedenti e i rimandi letterari; l'allucinazione dello scrivere, anzi dell'essere scritti. Qualcosa, però, non funziona e frena l'empatia della spettatore. Non è soltanto il primario canovaccio edipico da manuale di psicanalisi, cioè l'incompatibilità tra sfera sessuale e sfera materna. È qualcosa che sta nei rapporti soltanto in parte risolti tra letteratura e cinema, e forse nello stesso romanzo di McGrath.
Il Morandini 2007 (Zanichelli)



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Sommergendolo sempre più di elogi gli hanno fatto credere di poter fare qualsiasi cosa. Non è così: Cronenberg è un eccellente regista, uno dei pochissimi autori ancora esistenti, ma il confrontarsi con un tema così “normale” come la follia di matrice edipica non gli ha giovato; ha finito per girare il prodotto più scialbo della sua carriera partendo da un soggetto esilissimo e cercando di sostanziarlo attraverso l’ossessionante paranoia del protagonista: per l’intera (breve, per fortuna) durata del film, Ralph Fiennes si aggira per il set bisbigliando mozziconi di frasi, appuntando parole scritte in maniera incomprensibile su un diario che nasconde accuratamente, ritornando mentalmente sulla scena della sua infanzia rivedendosi bambino vessato dal padre (Gabriel Byrne) e coccolato dalla madre. Tornando ai suoi lavori più ambigui come il meraviglioso Pasto Nudo e l’interessante Crash, Cronenberg si focalizza sulla distorsione mentale senza però caratterizzarla con qualcosa di originale e incanalandosi così in un filone quasi “mainstream” che non gli appartiene. È vero, c’è una forza innegabile nella messa in scena scarna, nello squallore ricercato delle scenografie in disfacimento e Fiennes regge bene quella che però è una parte troppo facile, una parte sognata dai più grandi attori; fare il pazzo dà lustro, ma farlo così non dice molto: ci si astrae e il gioco è fatto. Spider manderà forse in visibilio la critica pronta a gridare al miracolo di fronte a tanta ambizione autoriale, a tanta estenuante lentezza da far morire d’invidia Wenders o Anghelopulos, ma Cronenberg non ha la stessa profondità dei due maestri citati, e rischia di far la figura del montato. Diciamocelo: l’avesse girato un giovane regista italiano sarebbero tutti usciti dal cinema semidisgustati. Resta impresso, sì, certo…
davinotti.com



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C’è una vecchia cisterna del gas che incombe sul paesaggio della Londra industriale e squallida che accoglie Spider all’uscita dal manicomio: una città affogata in strade e stanze antiquate, con la tappezzeria
lisa e una patina grigiastra e polverosa che ricopre ogni cosa. L’ultimo film di David Cronenberg avrebbe potuto essere girato in bianco e nero, e l’autore e lo scenografo Andrew Sanders hanno raccontato di aver sottratto gamme cromatiche alla pellicola, per ricreare un’atmosfera astratta e la monotonia desolata che caratterizzava certi reportage londinesi del dopoguerra. Spider, il protagonista, vive infatti fuori dal tempo reale, o meglio vive in un tempo tutto suo, dove passato e presente, vero e falso, quello che lui crede sia successo e quello che invece si è davvero verificato, si sovrappongono incessantemente. Spider è schizofrenico e la sua vita fuori dalla casa di cura spazia in un disordine indefinito. Spider cerca le immagini giuste, il bandolo della matassa che gli si è tessuta intorno come una tela, la faccia di sua madre nei volti di tutte le donne che incontra. Cerca la sessualità e il calore di sua madre: Kafka incontra Freud (ma anche i paradossi crudeli di Beckett e Pinter) in un sobborgo di Londra. E su tutto aleggia un gran puzzo di gas. Sarebbe stato impossibile trovare un regista più adatto di Cronenberg per raccontare il solitario viaggio nell’incubo di Spider, per riuscire a rendere gli impercettibili confini tra i suoi mondi, per fargli rivivere da spettatore quello che ha già vissuto da bambino (o forse no). Il regista canadese è un maestro nella materializzazione di un’atmosfera che si fa racconto, sperdimento interiore, e nella frantumazione concentrica dei punti di vista, tanto da affogarci nella stessa incertezza di prospettiva del protagonista, nella sua memoria e nella sua coscienza frantumate. Spider è un film di “percezione” più che di “narrazione”, non un plot ma una trama che pare modellata da Escher. Sentire quello che Spider borbotta, intuire quello che scarabocchia, annusare l’aria che lui annusa. Nulla ha senso se non l’odore di gas, la mamma, un’infanzia devastata.
Emanuela Martini, Film TV



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"Sei pronto a tornare tra noi?". Così, seduto in auto, domanda il direttore del manicomio a Dennis "Spider" Cleg (Ralph Fiennes). Siamo alle ultime immagini di Spider (Canada, Gran Bretagna e Francia, 2002, 98’). La ragnatela in cui David Cronenberg ci ha impaniato sembra aprirsi. Il protagonista ha rivissuto il trauma che lo ha portato alla follia. In platea lo abbiamo sorpreso - egli stesso si è sorpreso - nel tentativo d’uccidere Mrs. Wilkinson (Lynn Redgrave), che l’ha accolto nella sua pensione inquietante. Wilkinson (Miranda Richardson) si chiamava anche l’amante del padre (Gabriel Byrne), quella stessa che Spider ragazzino (Bradley Hall) s’era poi ritrovato come madre, e che aveva ucciso.
Tutto si direbbe chiaro. La follia di Spider ha a che vedere con il matricidio. E ora, arrivati al centro della tela di ragno della malattia, una luce pare vinca il buio. Non a caso, alle parole del direttore, il volto di Spider adulto si rasserena. Poi, seduto nella stessa auto, scopriamo Spider ragazzino "sorridente". Insomma, si direbbe proprio che le tenebre si siano diradate. D’altra parte, si può pensare che Cronenberg abbia scelto di mettere in scena questo romanzo di Patrick McGrath - che è anche suo cosceneggiatore -, come se fosse niente più d’un caso clinico? E se davvero il trauma è stato isolato e risolto, perché Spider deve tornare "tra loro", in manicomio?
C’è, in Spider, un gesto ricorrente del protagonista, un gesto che non si lascia ridurre a puro sintomo di follia. Spider riempie un suo certo libretto con segni ossessivi, con una grafia continua, non suddivisa in "parole". Lo fa con serietà disperata, come se in quelle pagine fitte di niente si potesse dipanare una cronaca, una cronologia ricostruita. Questo sembra mancargli, infatti: il senso della sua esperienza, la narrazione congruente di se stesso.
E se quello che Cronenberg ci mostra, se le immagini del suo film solo questo fossero? Se fossero solo una tela di ragno che Spider tesse per catturarci dentro un senso, per impaniarci una cronologia e una storia con cui dar forma alla sua sofferenza? In questo caso, dovremmo prendere per vero non quel che vediamo e sentiamo, ma solo il fatto che il film ne intesse la storia. Non è vero, in primo luogo, che il padre e l’amante abbiano ucciso la madre di Spider. È vero però che Spider lo racconta. Non è vero, ancora, che l’amante del padre sia una prostituta, ma è vero che Spider lo racconta.
Forse, nella sua (e di Cronenberg) tela di ragno resta catturato un significato di copertura d’una verità interiore più profonda. Innamorato della madre, ma escluso dal suo amore a causa del padre, il ragazzino prima la trasforma in una prostituta da odiare, e poi la incolpa della morte della madre amata, e con lei ne incolpa il padre. Alla fine, uccidendola, uccide il suo rifiuto e il suo abbandono. Morendo, infatti, la donna torna ad avere il volto d’un tempo, dolce e solare.
O forse no, forse la tela di ragno è ancor più sottile, più insidiosa. Entrando nella pensione di Mrs. Wilkinson, Spider entra in una dimensione materna, in una ragnatela che insieme accoglie, cattura e anche "abbandona" (stando a quello che egli racconta di un certo racconto della madre, a proposito del ragno che prima tesse la tela e poi, deposte le uova e rimasto senza "seta", se ne allontana: proprio come una madre ormai vuota di latte). E lì, in quella dimensione chiusa e inquietante, per così dire in una "situazione materna", Spider si avvolge da se stesso dentro una storia che riproduce fedelmente un caso clinico edipico. Si "inventa" su quel suo libretto una madre-prostituta, volgare e repellente (ha denti radi e neri, malati). Si "inventa" lo stratagemma narrativo per cui si tratterebbe di un’altra donna, e non della sua madre vera. E si "inventa" anche il disvelamento dell’inganno, con la scoperta del trauma e la soluzione finale del "nodo" psichico.
Insomma, Spider si comporta con un’astuzia sorprendente, come se conoscesse per filo e per segno le storie intessute dalla psicoanalisi per venir a capo delle malattie dell’anima. Risultato? Ridottosi da sé a caso clinico, ha finalmente catturato un senso e una storia. La sua sofferenza ora non lo esclude più, ma al contrario gli consente di "tornare tra noi", nella normalità della sofferenza. Così ha sempre fatto il cinema di Cronenberg. Ha inventato storie marginali, plausibili proprio in quanto marginali. Ha steso tele di ragno in cui è caduta la nostra propensione a trovar significati, cronologie, congruenze. Ci ha ingannato, talvolta magnificamente. E chissà che nell’immagine finale di Spider ragazzino non sia proprio lui, David Cronenberg, a sorridere.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore



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Farfuglia, traccia segni indecifrabili su un quadernetto che tiene accuratamente nascosto, confonde di continuo il reale con le sue fantasie malate: è un povero alienato il protagonista di Spider, di David Cronenberg. Per interpretarlo, Ralph Fiennes dimentica di essere bello e aitante: si ingobbisce, getta lo sguardo nel vuoto, si rinchiude in un dolore inestirpabile, che proviene da lontananze sconosciute.
Tutto, come sovente accade, ha avuto origine nell’infanzia. Bambino dall’intelligenza molto viva, incline alla solitudine e alla malinconia, Spider ("ragno", così lo soprannominava la dolcissima mamma) si è immerso sempre più in mondi di sogno, anzi, in incubi angoscianti. Il padre vissuto come un orco, chiuso e taciturno, pronto a menare le mani, morbosamente interessato alle altre donne; la madre fragilissima, trascurata, bisognosa di attenzioni e affetto. E lui, bambino immaturo e insieme troppo cresciuto, ha creduto di essere il suo paladino, il vendicatore dei torti, reali o immaginari che fossero.
Ora, quando il film inizia, sono passati molti anni. Il ragazzo è diventato un uomo, ha trascorso la gioventù in manicomio e, finalmente, è stato inviato in una sorta di "casa aperta", dove il controllo medico è meno assillante. Ma la tela di ragno del passato non è stata ancora sciolta. E il regista avvolge anche lo spettatore nel labirinto dei segni, mescolando ciò che si presume realmente avvenuto alle elucubrazioni alienate di una mente perduta. Mondi che si intrecciano, universo da interpretare, significati da riconoscere in un virtuosistico gioco di specchi: Cronenberg, maestro dell’ambiguità, ci cattura ancora una volta.
Luigi Paini, Il Sole 24 Ore



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Per una singolare coincidenza due fra i più attesi titoli in concorso, Spider e Sweet Sixteen, raccontano entrambi storie d'amore impossibili tra un figlio e una madre. Arcano e perturbante fino dai titoli, dove le macchie di Rorschach, usate dagli psichiatri per suscitare le associazioni dei pazienti, compaiono in forma di pitture scrostate su un muro, il film di David Cronenberg mette in scena un delitto di famiglia attraverso la mente sconvolta di uno psicopatico, un "ragnetto" di mamma che compare in doppia versione, da bambino e con i tratti adulti di Ralph Fiennes. Come da manuale di psicanalisi, la madre morta è due donne contemporaneamente: l'angelo protettivo e vittima del padre da una parte, dall'altra la puttana che fornica col genitore maschio. Mettendo in immagini la sceneggiatura che Patrick McGrath ha tratto dal suo romanzo omonimo, il regista canadese varia sul tema che predilige - l'"orrore delle personalità" - con indubbio virtuosismo: fa convivere nella stessa inquadratura passato e presente; provoca sussulti nello spettatore suggerendogli efferatezze senza bisogno di mostrargliele; dipinge una periferia londinese gravida di squallore poetico. Per molti cinefili Cronenberg è una fede, di cui è vietato discutere. Ciò non toglie che Spider resti al disotto delle premesse, mentre l'ossessiva inchiesta condotta dall'uomoragno va a parare in una rivelazione piuttosto prevedibile.[…]
Roberto Nepoti, La Repubblica



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Arcano e perturbante fino dai titoli (dove le macchie di Rorschach, usate dagli psichiatri per suscitare le associazioni mentali del paziente, compaiono in forma di pitture scrostate su un muro), il nuovo film di David Cronenberg mette in scena una tragedia famigliare attraverso la mente sconvolta di uno psicopatico, un «ragnetto» di mamma che compare in doppia versione: da bambino e con i tratti adulti di Ralph Fiennes. Appena uscito dall'ospedale psichiatrico, un uomo dallo sguardo febbricitante giunge nello squallido e fatiscente quartiere londinese dove ha vissuto da piccolo; quando, morta sua madre, il padre (Gabriel Byrne) la sostituì con una donna sconcia e volgare (Miranda Richardson sostiene entrambe le parti). Come da manuale di psicanalisi, la madre è due donne contemporaneamente: l'angelo protettivo e vittima del padre da una parte, dall'altra la puttana che fornica col genitore maschio. Nel mettere in immagini la sceneggiatura che Patrick McGrath ha tratto dal proprio romanzo Spider, Cronenberg varia sull'ossessione che predilige in assoluto - l'«orrore delle personalità» - guidando lo spettatore in un viaggio allucinante per i meandri della follia: lo introduce in una temporalità astratta e sospesa; gli provoca sussulti suggerendogli efferatezze senza bisogno di mostrargliele; dipinge la periferia londinese come un universo mentale. Una volta scelto di raccontare gli eventi attraverso il punto di vista schizofrenico del protagonista, il regista canadese si attiene rigorosamente al proposito, rifiuta ogni tentazione spettacolare e adotta una freddezza clinica che raggela la rappresentazione. Perfino le metafore sono rigorosamente «mediche»: a partire dalla finta tela di ragno tessuta da Spider ragazzino, iperbolica rappresentazione del caso freudiano in cui il fanciullo cerca di controllare attraverso un filo la lontananza della madre. Per molti cinefili Cronenberg è una fede, quindi è vietato discuterne. Ciò non toglie che Spider sia un film che lascia sconcertati. Mentre l'ossessiva inchiesta condotta dall'uomo-ragno procede (prima di andare a parare in una rivelazione che sarebbe duro definire imprevedibile), la messa in scena controllata e cerebrale innesca una poco confortevole sensazione di distanza tra lo schermo e chi lo guarda. Ma nello stesso tempo lo spettatore si sente preso in una specie di ragnatela ipnotica, che lo avvolge poco a poco e non lo lascia più andare.
Roberto Nepoti, La Repubblica



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Bisogna attrezzarsi per reggere un pò la noia. All'inizio, con i titoli di testa, comincia la curiosità per il nuovo incubo di Cronenberg; poi, di fronte a quel grumo di personaggio ripiegato su se stesso, sul proprio passato, interpretato da Ralph Fiennes (peccato il doppiaggio), si accende il fascino; poi gocciola la noia, che resiste il giusto prima di cedere e lasciare nuovamente il campo al fascino di una vicenda che è un lago di dolore, solitudine, follia. Un uomo, dopo trent'anni di ospedale psichiatrico, ritorna la dov'è rimasto bambino, là dove la psicosi lo ha impietrito fra il padre e la madre. Trova ospitalità in una specie di casa di accoglienza. La sua è una vita disabitata. Una città disabitata è quella in cui passeggia. Soltanto i ricordi spuntano qua e là dietro l'angolo, come viandanti. Così l'uomo può rivivere ciò che lo ha fatto diventare quello che è. A te che lo guardi, tocca scoprire tutto con i suoi occhi. Film glaciale e impeccabile che soffre di un eccesso formale nella messa in scena.
Gian Luca Favetto, La Repubblica



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Diario di uno schizofrenico. Fin dalle prime inquadrature, senza ricorrere a effetti speciali, Cronenberg immerge lo spettatore in un'atmosfera fantastica «interiore», un autentico viaggio all'interno del protagonista. Attraverso la sua mente disturbata, osserviamo gli eventi che lo hanno traumatizzato da ragazzo: i maltrattamenti e la morte della madre, la sua sostituzione con un'altra donna da parte del padre indegno. Ma qual è il rapporto tra la «realtà» e il reale oggettivo? Pieno di simboli e riferimenti psicanalitici, un film refrattario a ogni espediente spettacolare, scarno come un referto medico; eppure il regista non ha perduto un'oncia della sua capacità d'introdurci a mondi diversi, avvolgendoci nel film come in una ragnatela.
R.N., La Repubblica



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L'uomo ragno è lui, David Cronenberg. Pallido, elegante, i capelli d'argento, gli occhi d'acciaio. Sorriso timido e cuore di tenebra, come s'addice a un maestro dell'horror interiore esperto nel tessere fili invisibili e vischiosi, perfetti per catturare lo sguardo dello spettatore, ipnotizzarlo e non lasciarlo più. «Spider sono io» dichiara, come Flaubert per Bovary, il 59enne regista canadese, già autore di opere perturbanti e scandalose quali Inseparabili, Crash, eXistenZ. Confessione compromettente. Spider, ieri in concorso, molto applaudito e molto dibattuto per la perfida ambiguità sparsa nell'intreccio prima dallo scrittore Patrick McGrath, anche sceneggiatore, e poi da Cronenberg stesso, è una di quelle storie in cui nessuno vorrebbe riconoscersi, intrisa com'è di sangue e straordinaria follia. «Straordinaria, ma anche ordinaria - corregge lui. Il fantasma che terrorizza il piccolo Spider è la scoperta della sessualità dei suoi genitori. Alla soglia della pubertà, la perdita dell'innocenza. Un trauma vissuto da tutti, ma per lui fatale. La madre, dolce e delicata, che lui adora, si trasforma di colpo in una volgare prostituta. Una creatura odiosa che, in combutta con quel mascalzone di suo padre, ha ucciso l'adorata mammina. Naturalmente non è andata così. Per rimettere insieme il terribile puzzle deve attingere alla memoria, in parte vera, in parte infetta, in parte immaginaria. Ma se Spider nel libro di McGrath è un caso clinico, nel mio film è il protagonista di un dramma familiare, un essere solo, malato, melanconico, disperato. Alla Beckett. Non a caso Ralph Fiennes gli somiglia: lungo, allampanato, capelli dritti». Un po' come lei... «Certo, Spider sono io. Mi riconosco nella sua fragile identità, nel suo essere un "artista" della memoria. Simpatizzante di Freud, ma non troppo lontano da Proust». Una vicenda tutta interiore, riferita da ricordi frammentari e ingannatori. Come tradurre questo in immagini? «Abolendo il più possibile la voce vera. Fiennes quasi non parla, balbetta suoni incomprensibili. Così come indecifrabili sono quei geroglifici che traccia nel suo diario. Tutto è affidato agli occhi, ai gesti, alle allucinazioni. Il film è quasi una pantomima, un atto senza parole, per dirla con Beckett». Non dev'esser stato facile per gli attori. «Gabriel Byrne, che fa il padre, mi ha detto che questo è stato il ruolo più difficile della sua carriera. Miranda Richardson è addirittura tre donne, un meraviglioso "mélange a trois". Quanto a Fiennes, all'inizio aveva deciso di andare per manicomi a osservare gli schizofrenici. Fai pure gli ho detto, ma non stiamo facendo né un documentario, né un film realistico. Cerca la follia dentro di te. Gli è riuscito così bene che una signora, madre di uno schizofrenico, visto il film, è rimasta impressionata dall'assoluta verità dei suoi atteggiamenti». Perché ha scelto Londra come sfondo? «Il Canada è stato a lungo una colonia inglese, mio padre era bibliofilo e anglofilo e io sento molto "feeling" con la Gran Bretagna. Un' isola metafora dell'isolamento di Spider. Come le strade di questa Londra senza tempo, né auto né persone». Spider-ragno, prima ci son state La Mosca e la farfalla di M. Butterfly». «Gli insetti sono la mia passione. Così terribilmente simili a noi, Kafka aveva visto bene. Mi chiedo com' è il mondo visto da loro. C' è gente affascinata dall'idea di una vita in altri pianeti. A me niente sembra più sorprendente che scrutare in un prato». Spider piacerà a Lynch? Quando lei fu in giuria qui, nel ' 99, lui non ebbe nessun premio per Una storia vera. «Chissà. Capita spesso che si amino film molto lontani dal proprio mondo. Comunque vada solo felice di essere in gara». Le è piaciuto A Beautiful Mind? «No, un modo di raccontare la schizofrenia enfatico e spettacolare. Made in Hollywood, appunto». Il suo prossimo film? «Si chiama Painkillers, la storia di un body-artista che si esprime attraverso il dolore, facendosi tagliare e operare. Il corpo resta per me il primo oggetto d'indagine. La nostra visione del mondo passa attraverso lui: se lui cambia, cambia anche la nostra percezione».
Giuseppina Manin, Corriere della Sera
[Modificato da |Painter| 10/06/2010 20:55]
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