Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Stampa | Notifica email    
Autore

RECENSIONI - Rassegna Stampa / 4

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 14:00
OFFLINE
Post: 529
Sesso: Maschile
07/10/2007 18:23


RASSEGNA STAMPA PARTE 4


Esistono i mostri? Si, esistono e sono nascosti dentro a ognuno di noi. O meglio, ognuno di noi è un po’ mostro alle volte. David Cronenberg rimane fedele al suo viaggio (ormai lungo 30 anni) attraverso la complessa e schizoide psicologia umana con il turbolento A History Of Violence. C’è un evidente ponte che collega questa ultima pellicola ai tormenti omozigoti dei gemelli Mantle di Inseparabili e alle ragnatele cerebrali di Spider. La lotta intersoggettiva che strazia l’uomo e che lo disorienta in vertiginosi abissi neri è materia privilegiata e trasversale di molti capitoli dell'indagine filosofico-esistenziale del regista canadese.
A History Of Violence è un film che può essere virtualmente e comodamente diviso in due atti: il primo è la presentazione di personaggi, luoghi e scenari in una febbrile attesa verso la violenza pompata dal titolo. C’è una famiglia americana per bene, c’è una casa nella campagna della Louisiana, c’è Tom (Viggo Mortensen), papà buono, umile e proprietario di una caffetteria, c'è una moglie dolce e bionda (Maria Bello), due figli belli ed affettuosi ed una cittadina pacifica, una middletown, che fa della normalità geloso stendardo. Nel primo atto, dunque, a dominare la scena è l’ambiguità di una fotografia (Peter Suschitzky) tanto normale quanto onirica. La regia di Cronenberg qui strizza l’occhio a Lynch e non ci si stupirebbe, infatti, se lo strano e messaggero cowboy di Mulholland Drive possa, da un momento all’altro, attraversare le strade della cittadina. Si avverte, dunque, una catastrofe in arrivo (Velluto Blu?), si tasta una tensione narrativa di cui il grande Cronenberg è un assoluto maestro e si inala passivamente una drammaticità che accumula il suo flusso come gas in una stanza. Il seme della violenza sboccia improvvisamente quando Tom massacra con una rabbia inaspettata due banditi all’interno della sua caffetteria, scuotendo dal sonno la piccola cittadina.
Al secondo atto, invece, è riservato l'onere di presentare le spiazzanti rivelazioni e dare in mano alla violenza il ruolo centrale. Tom si scopre Joey ed il passato torbido e spietato del buon cameriere di provincia s’insinua sullo sfondo. La sua vita da tranquillo cittadino medio viene deformata dal conflitto tra le due sue anime e la visita che farà al grottesco e lynchiano fratello Richie (William Hurt), collante col passato, assumerà le tinte di un sanguinolento western urbano o di quegli scontri epici, marchio di fabbrica dell’ultimo Tarantino. E’ in queste fasi che riconosciamo un’anima di Cronenberg nascosta da qualche annetto: il gusto per lo splatter. Il sangue, le carni strapazzate ed il contatto fisico più cruento vanno a stordire lo spettatore in impennate improvvise.
Dopo l’insuccesso ai botteghini di un capolavoro del cinema psicotico qual è Spider, David Cronenberg, forse a corto di quattrini, torna con questa storia americana pirotecnica dal sicuro successo commerciale e dal certo impatto emotivo. Le sequenze della pellicola sono intriganti e la storia, anche se non originalissima, vanta una direzione impeccabile. Unico neo potrebbe essere considerato la conclusione parziale: Tom/Joey viene riaccolto dalla famiglia, nonostante la sua falsa identità e il suo passato da killer, in una scena e in un finale forse un tantino insipido. Come se al regista canadese fossero terminate le idee proprio all’ultimo scatto. Ma forse, riflettendoci, cosa sono gli Stati Uniti se non la costante convivenza con la violenza?
Viggo Mortensen convince. Il suo volto di plastica sa ben adattasi alla schizofrenia del suo personaggio, lui è l’americano medio che gestisce la sua violenza e il suo rammarico verso un mondo anestetizzato. Quella di Tom è una delle tantissime storie di ordinaria follia americana, quando l’odore asfissiante del piombo e quello acre del sangue spezzano l’incantesimo della quotidianità.
Nota: tratto dal romanzo a fumetti Una storia violenta di John Wagner, con disegni di Vincent Locke.
a cura di Riccardo Marra, ilcibicida.com



***

Coerenza. Ciò che più stupisce in Cronenberg è la coerenza. Da più di vent’anni non c’è un film nella filmografia del regista canadese che esuli dalla sua visione del mondo e del cinema. Dai tempi di Rabid, passando attraverso La Mosca, Inseparabili, M. Butterfly, Crash Cronenberg ha mantenuto una coerenza poetica invidiabile. E se negli anni Settanta/Ottanta l’ambientazione era quella orrorifica, dagli anni Novanta ha inizialmente cambiato la dimensione quotidiana, trovando appunto nella realtà un orrore peggiore di quello scaturito dalla fantasia. In seguito ha evoluto le sue teorie, passando dallo studio della Nuova Carne a quello della Nuova Psiche (e ringrazio Davide Ticchi per la splendida illuminante definizione). Da eXistenZ in poi Cronenberg esamina con l’accuratezza di un freddo chirurgo i meandri della mente umana, con tutti i suoi pericolosi riflessi. Sotto questo profilo A History of Violence rappresenta la perfetta continuazione del lavoro svolto per eXistenZ e Spider, in particolare per quel che riguarda la duplicità, scaturita da un’inevitabile frattura fra l’Apparente e l’Essenza, il Falso e il Vero. Raccontando la storia (inversa) di questo novello Mattia Pascal, Cronenberg fornisce una visione quanto mai contemporanea e reale della dimensione violenta della nostra società e della nostra vita, macchiata indelebilmente da questo connotato. La violenza come elemento intrinseco del nostro essere, celato ma presente (il figlio è come il padre), inizialmente rifiutato dalla famiglia, che evita il padre come fosse appestato. Infine tutti comprendono che Joe/Tom non è che la stessa, persona, nel senso che in entrambi i casi il connotato violento della sua esistenza non cambia. Semmai cambiano gli atteggiamenti, l’approccio comportamentale: marito e moglie ad inizio film fanno l’amore con dolcezza, dopo con violenza. Che ritorna costantemente, sempre, incessantemente. Un po’ come il cinema cronenberghiano. Con A History of Violence il sogno americano non è distrutto. Semplicemente si dimostra la sua infondatezza.
VOTO: 7/8
Andrea Fontana, centraldocinema.it



***

A History of Violence espone le tensioni, gli inganni, e le complicazioni che sorgono a conseguenza del potere della violenza.
La vita del proprietario di un ristorante in una piccolo citta', Tom Stall (Viggo Mortensen), cambia improvvisamente quando spara e uccide due criminali pericolosi che tentano di rapinare il suo ristorante e ferire i suoi clienti.
Le notizie sulla attentata rapina del Ristorante Stall rende Tom immediatamente l'eroe della città. La notorieta' di Tom attira pure l'attenzione del gangster, Carl Fogaty (Ed Harris) e del temuto Mafioso di Filadelfia, Richie Cusack (William Hurt). Fogaty, un uomo spaventoso, vestito in scuro, con un occhio cieco, ed una grande cicatrice sopra la sua guancia, si presenta con i suoi uomini al Ristorante Stall.
Malgrado l'intervento e l'avvertimento dello Sceriffo e amico di famiglia, Sam Carney (Peter MacNeill), Fogaty insegue Tom, un felice padre di due bambini, Jack (Ashton Holmes) e Sarah (Heidi Hayes), ed il marito della bellissima avvocata, Edie Stall (Maria Bello). Dubbi sull'identita del silenzioso e tranquillo Tom sorgono presto e interferiscono con la sua felicità e sicurezza della sua famiglia.
A History of Violence è basato sui fumetti di John Wagner e Vince Locke ed è stato adattato allo schermo da Josh Olson.
Con particolare attenzione ai dettagli, il direttore Canadese Cronenberg rappresenta dei caratteri ordinari reali, e li trasporta dalla tranquillita' di una piccola citta' alla massima violenza ed al suspense.
Le prestazioni degli attori William Hurt e Ed Harris, sono superbi e aggiungono nel mezzo di questo atipico giallo un certo rilievo comico. La musica originale di Howard Shore intensifica il drama, la tensione, e la violenza sullo chermo.
Malgrado alcuni clichés nelle prestazioni, la storia è piena di sorprese e di suspense.
Ester Molayeme, centraldocinema.it



***

L’ambiguità e il “doppio” dell’identità, temi ricorrenti nel cinema di Cronenberg, ritornano in questo suo thriller, che risulta essere ben interpretato, con qualche sorpresa ben assestata, anche se una volta che si comprende la realtà del passato di Tom, tutto il resto risulta relativamente più scontato.
La chiave di lettura del film è l’intima precarietà di una vita soddisfacente e piena d’amore quando ci sono peccati non espiati e non si è chiuso il conto con la giustizia.
Il lungo braccio della violenza ti afferra quando ci sono troppe situazioni sospese, quando basta un “riflettore” per riaprire piaghe antiche, in questo caso dovuto alla notorietà causata dal gesto eroico del buon padre di famiglia. Chi è stato un killer e vuole cambiare sarà sempre un uomo fragile se ha lasciato dietro di sé situazioni criminose ed irrisolte con la giustizia, con la vita e con altri malviventi.
Tom è un uomo nuovo, ma le ombre del passato si riappropriano della sua vita, ne condizionano il presente, ne orientano le scelte. E il finale si apre alla consapevolezza di una nuova situazione dalla quale è difficile sfuggire e che non si può eludere.
Il cinema di Hitchcock influenza apertamente A History of Violence; certamente sarebbe stato un soggetto che il Maestro avrebbe apprezzato.
Bravi gli attori, eccellente William Hurt in un piccolo, ma non marginale, ruolo.
Viggo Mortensen interpreta il suo personaggio più importante dopo Il Signore degli Anelli.
Gino Pitaro, centraldocinema.it



***

Piccolo grande film. Cronenberg ripete ciò che Lynch aveva fatto con Una storia vera, restare ancorato a ciò che ha caratterizzato il proprio modo di fare cinema ma tornando alla semplicità e alla linearità delle storie. Meno paranoie ma senza conciliazione. Continua l’esplorazione del lato oscuro annidato in ogni essere umano, il ritorno prepotente del passato che si era cercato di seppellire, l’eterna lotta tra gli opposti. A History of Violence è concepito come una sorta di moderno western. E’ anche un thriller alla Hitchock. Una parabola sulla genesi della violenza e sulla natura doppia delle persone, della famiglia e della società americana. Cronenberg riesce anche ad arricchire il film con una buona dose di humor nero, e con l’ottima performance di tutti gli attori. Viggo Mortensen è il controverso protagonista, Maria Bello è molto sexy, ad Ed Harris e William Hurt và la palma dei migliori per la performance più breve ma anche più intensa e caricaturale. Tratto da una storia a fumetti, il film narra le vicende del mite Tom Stall, divenuto eroe del paese per aver sventato una rapina uccidendo a sangue freddo i malviventi. Il cattivo Fogerty (Ed Harris) si mette sulle sue tracce ricordandogli che forse, in una precedente vita, ha lasciato dei conti aperti con la delinquenza organizzata. Ma chi è Tom Stall? Un padre di famiglia giustiziere per caso o uno spietato killer a riposo?
Anche se girato “su commissione” e quindi non proprio frutto dell’immaginazione del regista canadese, A History of Violence risulta ispirato e come nella tradizione cronenberghiana scopre i nervi dello spettatore. Apparentemente dallo svolgimento lineare, la storia del film diviene cupa e si vive come un incubo.
La violenza che scoppia quasi per caso pervade tutti i membri della famiglia del protagonista. Persino gli amplessi amorosi di Tom e sua moglie subiscono una metamorfosi così come la vita e la natura del figlio, dapprima remissiva poi inesorabilmente violenta.
Voto 7
Francesco Sapone, centraldocinema.it



***

La sceneggiatura di John Olson doveva pedissequamente trasporre l’albo illustrato di John-Dredd-Wagner e Vince Locke (un La pistola sepolta in noir/gangster-movie con vendetta): subentrato Cronenberg, il progetto viene stravolto (purtroppo non del tutto) da banale Racconto di Violenza a Storia della Violenza. Quella che una volta messa in atto, non importa quanto legittima, ammorba chiunque. Quella che attrae (ogni esplosione di brutalità è qui seducente) e respinge (certi raccapriccianti dettagli). Quella che può essere anche gratuita. Quella che fa parte, si voglia o no, dell’esperienza umana: il prologo quasi straniato, dove opera l’espressione serafica di due spietati assassini, è mostrato con un carrello laterale in piano sequenza che si raccorda, in un moto a luogo, all’idillio (tanto perfetto e noioso da sembrare finto) della famiglia felice. Per il Prima e Dopo, le due sequenze erotiche sono emblematiche: nella prima, i coniugi giocano sulla propria identità fingendosi liceali. Nella seconda, la scoperta delle due identità, Inseparabili, chiama un sesso violento d’amore ed odio. C’è un Prima di menzogne e impossibile auto-controllo (il padre che dice alla figlia che i mostri non esistono; il figlio che evita lo scontro con il bullo di scuola), poi i mostri si incontrano: il bullo di scuola che, in un sottile dettaglio, incrocia lo sguardo dell’assassino e pare riconoscere/si; il sornione, orbo Ed Harris; il personaggio di William Hurt, buffo/minaccioso seppur da fumetto, come tutta la dinamica violenta che lo riguarda. Fra loro tutti, Joy Cusack, l’alter-ego, La Mosca, il carattere di una follia che Cronenberg, purtroppo, da Spider, non ha più desiderio di sondare dall’interno, in soggettiva visionaria. Non più incubi nella mente, ma solo incubi della mente, attraverso racconti piani e “puliti”, rispetto ai suoi standard. Alla fine nega pure che sia follia, sposando la tesi dell’eroe positivo senza troppe ambiguità. Anche la bellissima, in parte sospesa sequenza finale, dove il deviante attende un invito al desco familiare, è molto (ri)conciliante.
Niccolò Rangoni Machiavelli, spietati.it



***

Avvicinarsi alla visione di questo film senza prendere in considerazione il nome del suo regista è operazione improbabile, e forse improponibile, dato che David Cronenberg ha dimostrato ampiamente nel corso della sua carriera di cineasta, di saper piazzare al momento giusto delle vere e proprie perle all’interno della sua produzione (in verità non sempre all’altezza della fama che lo circonda). Nella sua ultima fatica, ispirata dai fumetti di John Wagner e Vince Locke e sceneggiata da John Olson, l’ambientazione scelta è quella della tranquilla provincia americana, in cui la vita di una famiglia perfetta va avanti sempre uguale a se stessa: il padre e la madre sono dei grandi lavoratori, hanno due splendidi figli e la casetta in campagna. Tutto sembra scorrere liscio fino al momento in cui, per vie traverse, la violenza non fa capolino alla loro porta, facendo riaffiorare il passato con tutto il suo terribile bagaglio di ricordi e di morte. Le passate gesta del “buon” padre di famiglia Tom, sconvolgeranno in maniera irreversibile la sua vita e quella delle persone che gli sono care; la violenza, vista come pulsione primaria che s’impossessa delle persone risvegliando ancestrali azioni, diventa l’unico mezzo per proteggere il presente, per preservare l’habitat naturale che si è costruito con tanta fatica, per distruggere per sempre la vita passata che si vuole dimenticare ad ogni costo. La narrazione procede in maniera lineare, evitando ogni tipo di sconti allo spettatore, che si trova di fronte a delle sequenze veramente forti e dirette, assolutamente non edulcorate come il cinema di oggi ci ha abituati a vedere; al contrario, Cronenberg, adotta con decisione la linea del realismo, mostrando con occhio cinico è tremendamente concreto gli effetti delle terribili azioni che gli uomini compiono ai loro simili (siano esse banali risse tra liceali o efferate sparatorie tra assassini), non lesinando sul sangue mostrato e sui corpi martoriati. L’intima natura umana che si muove spinta da una violenza primaria e inarrestabile, trova il suo manifestarsi in quest’opera, e lo fa in maniera sconcertante e diretta, con una potenza visuale che non ricordavamo da tempo, con una matrice stilistica fatta di improvvise esplosioni visuali, con la macchina da presa posizionata dentro la scena, a marcare da vicino l’interazione tra gli attori, mostrando senza pudore ciò che accade. A History of Violence è una produzione scomoda, che potrebbe apparire come un qualcosa di già visto (perché in realtà tocca dei temi spesso affrontati in altre pellicole), ma trova nel suo stile la sua ragion d’essere, nella mano sapiente e spietata del regista la sua chiave di lettura, nella bravura degli attori la sua credibilità, risultando un film imprescindibile per chi cerca nel cinema qualcosa che esuli dalla normale fruizione; una visione in grado di sconvolgere, infastidire e, perché no, far riflettere lo spettatore, oramai ammansito dal suo quieto vedere, segnale inconfondibile di un retaggio culturale votato alla superficialità che sistematicamente molto cinema contemporaneo adotta. Per fortuna Cronenberg sa ancora sconvolgere.
Matteo Catoni, spietati.it



***

"Questo è stato un progetto non nato da me, sono stato chiamato in una fase successiva, a pre-produzione avviata, e ho accettato solo dopo aver letto la sceneggiatura di Josh Olson. Che era bellissima, sostanzialmente fedele al testo di Wagner e che io invece mi sono divertito a terremotare qua e là."
Leggere queste dichiarazioni di Cronenberg prima e dopo il film fa un effetto davvero strano. Se prima della visione possono infatti sembrare abbastanza innocenti e ragionevolmente attendibili, a visione avvenuta cambiano radicalmente di segno, lasciando emergere una componente sarcastica suscettibile di capovolgerne completamente il senso. Già, perché se Cronenberg si è divertito a “terremotare” - verbo strepitoso, per inciso - qua e là la “bellissima” sceneggiatura di Josh Olson, l’evento sismico non pare aver causato gravi danni, non avendo intaccato più di tanto una struttura narrativa di pedestre linearità (sull’intero racconto campeggia l’insegna post hoc ergo propter hoc) e una caratterizzazione dei personaggi alquanto grossolana (il vilain nerovestito, occhialuto e sfregiato, il poliziotto protettivo quanto imbelle, il fratello incorreggibile, mefistofelico e smargiasso, solo per citarne alcuni).
Esattamente a metà del film, una sequenza – quella della carneficina nel giardino della famiglia Stoll – ci dice ciò che A History of Violence vorrebbe essere: un thriller mentale, un leggero incubo tragico, una ballata macabra nel cuore della serenità pacificata. Ma la sceneggiatura è così rozza, didascalica e unidimensionale da impedire alla materia filmica di sviluppare significati immateriali, psichici, condannandola ad un continuo gioco di sponda tra grevi sottolineature (il raccordo tra il colpo di pistola e l’intollerabile grido della piccola Sarah), pletorici simbolismi (la riparazione del potente pick-up in corrispondenza del riaffiorare di Joy: sullo sfondo un cavallo immobile nel recinto!) e stridenti parallelismi (l’esplosione di violenza nel padre provoca, reazione a catena, un’analoga detonazione nel figlio). Nella speranza che dall’accumulo scaturisca una forma simbolica, dalla giustapposizione fiorisca un’organizzazione semantica di secondo grado.
E allora perché non scorgere nel film, avventurosamente certo, una tensione tra la personalità del cineasta canadese e il materiale a sua disposizione? Perché non leggere un conflitto estetico tra la poetica di Cronenberg e il progetto al quale egli ha aderito a pre-produzione avviata? Prima del film, a fianco del film scaturisce un altro testo, discreto e sfacciato al tempo stesso. Un testo delicatamente violento. Il piano sequenza iniziale, vero e proprio film nel film, è emblematico: 3’ e 45” di cinema sospeso, tutto giocato sulla sottrazione, i silenzi, il non detto, saturo di un malessere torrido che ti si appiccica addosso. Il passaggio dalla prima alla seconda sequenza segnala il ritorno all’ordine della logica narrativa, dei raccordi visivi “regolari”: frattura stilistica sottolineata dall’urlo di cui sopra. Ma è nel corso dell’intero film che Cronenberg, spalleggiato da quel prodigioso talento visivo che va sotto il nome di Peter Suschitzky, ostacola la rigida convenzionalità del racconto rendendo doloroso ogni taglio di montaggio, immergendo la diegesi in una luce densa e riluttante ad ogni stacco, irrorando ogni inquadratura delle note dilatate di Howard Shore (il cui commento musicale è tuttavia tanto invasivo da ingenerare fonofobia). L’epilogo porta infine alle estreme conseguenze la tensione estetica: qui si scontrano frontalmente le due istanze stilistiche. Annullandosi.
A History of Violence è quella, aurorale e inevitabile, del farsi del film.
Alessandro Baratti, spietati.it



***

Era dai tempi di Crash che Cronenberg non ci offriva un film così rigoroso e crudo, senza cedimenti e senza compiacimenti; una storia fatta di immagini asciutte che coprono un’architettura solidissima; la rappresentazione, zeppa di segni, di una realtà codificata attraverso l’uso della fiction (la stessa, nuova, esistenza – eXiztenZ? - del protagonista si fonda su una finzione: il sogno americano). La violenza ivi rappresentata “non è coreografata” (ipse dixit) ma è scabra, aspra, disturbante, reale; è, soprattutto, un malessere strisciante che si annuncia (i mostri del sogno della bambina: una minaccia in germe) e che, giunto in casa, dilaga epidemico (il figlio che picchia il compagno e ammazza il nemico trova in sé l’energia di un male atavico, la moglie che schiaffeggia il marito, l’amplesso come una lotta mostruosa), è un morbo astratto ma contagioso che contamina un microcosmo apparentemente sterile che solo la scena finale sembra ricomporre (il gesto con cui la figlioletta mette il piatto in tavola restaura, tra mille perplessità – poiché nulla potrà più essere come prima – il devastato quadro iniziale). Ed è molto interessante (più di quanto lo sarebbe stato l’ennesimo, programmatico progetto originale) il modo in cui Cronenberg piega la materia fumettistica di partenza, di un film che è un continuo procedere verso non si sa mai cosa (è un western? E’ un thriller? È un film psicologico? Una favola malata?), alla sua poetica: la malattia che corrompe l’ambiente e le persone (i segni della violenza sulla schiena di Edie), la mutazione (anche se ad essere mutante, in questo caso, non è il corpo del personaggio ma la sua identità, un processo interiore che coinvolge la stessa struttura dell’opera – il lungo, notturno viaggio in macchina di Tom conduce a un altro film), le realtà multiple e le personalità scisse, l’umorismo nichilista.
E nulla sbaglia l’autore da un punto di vista formale: inquadrature taglienti che dicono più di qualsiasi effetto speciale; un piano sequenza iniziale (un lynchiano ingresso nel malefico strange world) superlativo per sospensione, tempi, tensione e che sfocia nell’ordinary world di Tom (la chirurgica direzione della fotografia è del fedele Peter Sushitzky); superbe scelte attoriali (tutto il cast, nessuno escluso, e un redivivo William Hurt, gigione da applauso); le gravi, strategiche musiche di Howard Shore.
Un colpo secco che ci ha stesi.
Luca Pacilio, spietati.it



***

Quant’è vasta la zona d’ombra della personalità di ciascuno di noi? Assai, se diamo retta all’ultima nerissima favola di David Cronenberg. E quanta resistenza offre, all’emergere di questa natura ctonia, la nostra patina di civiltà e buone maniere, sentimenti e ideali? Ben poca, anche se di tale patina torniamo a vestirci quando vien comodo. Piuttosto che l’approfondimento vertiginoso di Spider (direzione qui suggerita, ma lasciata subito cadere, dalla duplice personalità del protagonista), il regista segue uno svolgimento orizzontale e illustrativo (simile a quello adottato in eXistenZ); geografico, potremmo dire, attraverso i luoghi della violenza intesa come fattore ineliminabile, anche se rimosso o negato, delle relazioni umane; nella famiglia amorevole e perfetta immersa nel sogno americano, solo la bambina – non ancora completamente educata – ammette, attraverso l’incubo che angoscia le sue notti, l’esistenza di tale fattore oscuro; il fratello ritiene di essere perfettamente civilizzato e dunque lo ripudia in modo ideologico di fronte alle soperchierie dei compagni, mentre i genitori si fanno uno scudo della sublimazione che la società ne offre attraverso gli strumenti della legalità. Una minaccia sfuggente e temibile fungerà da catalizzatore, rivelando ciascuno di loro per qualcun altro con meccanica – e discutibile, seppure efficace – consequenzialità: un’opera stranamente unidimensionale e dimostrativa nel rappresentare il contraddittorio volto dell’uomo. Per questo, i momenti migliori del film sono il virtuosistico piano sequenza iniziale, esempio di espressività puramente grafica; l’incontro sessuale dei protagonisti finalmente libero da moine e infingimenti, che si manifesta quale forma erotica della violenza; e la scena conclusiva, formidabile nel recuperare tutta l’ambiguità del Cronenberg maggiore e la sensuale pericolosità del suo sguardo perturbante.
Hans Ranalli, spietati.it
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 14:00]
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Cerca nel forum

Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 06:21. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com