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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 3

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 14:00
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Sesso: Maschile
07/10/2007 18:01


RASSEGNA STAMPA PARTE 3


“Così (…) Medardo ritornò uomo intero, né cattivo né buono, un miscuglio di cattiveria e bontà, cioè apparentemente non dissimile da quello ch’era prima di esser dimezzato. Ma aveva l’esperienza dell’una e l’altra metà rifuse insieme, perciò doveva essere ben saggio”. Con queste parole, Italo Calvino si avvia a concludere la fiaba Il Visconte dimezzato, che ben si presta per introdurre e comprendere la tematica profonda del film di David Cronenberg.
Tom Stall (Viggo Mortensen), il protagonista della pellicola, corrisponde alla metà buona del Visconte: uomo tranquillo e pacato, conduce un’esistenza normale, con la moglie (Maria Bello) e i due figli.
Un giorno qualunque, però, un individuo inquietante e minaccioso (Ed Harris) si presenta a lui, chiamandolo con un altro nome e attribuendogli un passato e un’identità da irriducibile criminale. Qual è la Verità? Chi è Tom Stall? Un “figlio di puttana fortunato”, come si definisce lui stesso, o l’uomo più buono del mondo, come crede l’ingenua compagna? Difficile rispondere a questa domanda, anche alla fine del film, quando Tom, dopo aver compiuto una carneficina alla Tarantino, ritorna alla vita di tutti i giorni. La sensazione dello spettatore è che, in lui, le due metà siano ancora scisse e, in quanto tali, irrisolte e pericolose.
Diverso è il discorso per i membri della sua famiglia: la figlioletta, la prima ad aver paura dei “mostri” , non solo non strilla e non scappa più, ma apparecchia la tavola per il padre; il figlio, inizialmente vittima dei compagni ed incapace di reagire, impara la necessità di difendersi; la moglie, che ama far sesso vestita da adolescente, non disdegna, ad un certo punto, di congiungersi con il marito sulle scale di casa.
Insomma, al termine di questo incubo violento, aggravato dall’ordinarietà del contesto, tutti i personaggi non saranno più gli stessi ma saranno, forse, migliori, avendo sofferto sulla propria pelle la duplicità e l’ambivalenza dell’umana natura. L’immagine finale in cui la moglie, faticosamente, si decide a sollevare gli occhi dal piatto e a guardare in faccia il marito “mostro” dice più di tante parole ed indica la pietas e l’amore come uniche risposte possibili alla fatica e al dolore di vivere.
Mariella Cruciani, sncci.it



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Tom Stall ha una bella moglie, un figlio maschio adolescente con dei sani principi morali, una bimba che sembra un angelo e gestisce una tavola calda di provincia. La sua vita procede serena e tranquilla fino al giorno in cui due rapinatori irrompono nel suo locale, minacciando clienti e dipendenti. Per difendere le loro vite, li uccide e diventa un eroe…ma da quel momento le cose non saranno più le stesse. Una visione, un incubo, una metafora della vita? Forse tutte e tre le cose.
Il film diretto da David Cronenberg è sicuramente più adatto agli estimatori del regista canadese che non ad un pubblico più vasto. Apparentemente, infatti, la storia, per quanto interessante dal punto di vista del thrilling, sembra più un modo per mettere in scena sparatorie, morti violente e sesso sfrenato, che raggiunge l'inverosimile, come se fosse una piatta parodia delle più pure americanate. Volendo cercare però un significato in una pellicola che ai profani può sembrare esagerata e senza ritegno, ci si può vedere la reale consistenza del mito americano: un uomo perfetto, con una moglie perfetta, dei figli perfetti, un lavoro perfetto in una cittadina perfetta… ma cosa si nasconde dietro tanta perfezione? La violenza, sembra ormai un dato di fatto, fa parte della cultura americana, dell'essere americani, e in questo film appare lampante come dietro una facciata idilliaca si possa nascondere il segreto più torbido e crudele. Senza voler fare di un erba un fascio, lo sentiamo tutti i giorni nei telegiornali, fatti di cronaca e straordinaria follia, che generano la violenza più efferata nel cittadino più esemplare, e quasi non ci si stupisce più se, per le strade degli Stati Uniti, una vecchina tira fuori un fucile a canne mozze dal suo cesto della spesa per freddare con un colpo in faccia il boy scout che l'aiuta ad attraversare la strada, forse solo perché non gli piace il suono della sua voce. Visto sotto questa chiave il film di Cronenberg assume un tono diverso, e si nota come le sue esagerazioni facciano il verso ad una realtà che fino a qualche tempo fa veniva mascherata dal mito del mondo nuovo, e che, ora, sempre più difficilmente si riesce a nascondere dietro le casette bianche con il prato sempre rasato. Ciò che delude, comunque, è l'interpretazione di Viggo Mortensen: inespressivo e vuoto anche nei momenti più erotici del film, nonostante gli stia accanto una sensualissima Maria Bello, ottima rappresentazione della madre di famiglia che lavora. Saranno i capelli corti, o sarà forse che Cronenberg non sia riuscito a tirare fuori il meglio da colui che fu Aragorn figlio di Arathorn, erede al trono di Gondor. Certo è che se si voleva levare di dosso i panni del personaggio che gli ha dato la fama, sicuramente dopo A History of Violence, c'è riuscito pienamente. D'effetto anche se a volte troppo caricaturali, forse per volere dello stesso regista, le interpretazioni di Ed Harris e William Hurt, che danno quel tocco d'ironia che serve al film.
La frase: "Ti sforzi tanto di essere un altro uomo che fai pena a vederti"
Monica Cabras, filmup.com



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Complessa e stratificata la carriera di Cronenberg, iniziata con horror splatter che cortocircuitavano sui deliri metamorfici del sangue, della mente e delle tecnologie degli anni ’70-’80 (Il demone sotto la pelle, Scanner, Brood, Videodrome…), e alternata con drammi psico-interiori sempre su tematiche di sdoppiamento, ma molto più serrate dentro al cervello dei personaggi, e lontane da corpi che scoppiano o demoni fallici che si infilano ovunque.
Cronenberg ha abbandonato il fanta-horror e ora fa film d’autore eleganti su figure un po’ marce, il penultimo dei quali, Spider, è molto bello. Questa volta ci prova con un dramma-action, piuttosto lento nei ritmi e calcolato tutto sulla crescita della suspense. La storia, anche se tratta dalla graphic novel di Vince Locke, sembra un ibrido tra I gangsters di Siodmak e il David Lynch di Twin Peaks.
La storia abbastanza simile a quella di Siodmak, dove un personaggio cambia identità e si rifugia in provincia, finché il passato ritorna a ricordargli chi era, da I gangsters Cronenberg attinge anche alla preparazione e all’ambientazione della scena violenta dentro il diner (cuoco compreso). Alcune situazioni sono un po’ lynchiane nei tempi lenti e anonimi di realtà apparentemente normali (ma solo apparentemente) e in tutta la scenografia finale nella casa di William Hurth.
Il punto è che, nonostante il film sia compatto, ben scritto e ben diretto, e che tutti gli attori siano in ruolo (tranne purtroppo il protagonista), A History of Violence non è né un noir classico né un Lynch post-moderno, e soprattutto, nel suo porsi come un’opera che non vuole rinunciare al mercato, è abbastanza stereotipato e prevedibilissimo. Cronenberg si lascia dietro le spalle la sua originalità, anche non splatter, di film come Inseparabili (c’è da dire che le opere migliori erano one-actor-film, cioè i film interpretati da Irons e da Fiennes, e non opere corali e per l’aggiunta deboli proprio sull’attore protagonista) per giungere a una mediazione tra il suo talento registico, il pubblico e i suoi interessi teorici per gli sdoppiamenti di identità. Insomma, da Cronenberg ci si poteva aspettare di più.
Paolo Marocco, cinema.data.net



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Che bello vivere nella profonda provincia americana. Tom Stall (Viggo Mortensen) si trova piuttosto bene, nella cittadina di Millbrook, Indiana. Ha tutto quello che un uomo può desiderare: un lavoro tranquillo come titolare di una tavola calda, una famiglia che lo ama e lo rispetta, e naturalmente una bella moglie, Edie (Maria Bello). Un giorno subisce un tentativo di rapina da parte di due malviventi. Incredibilmente, riesce ad avere la meglio sui criminali, addirittura li uccide. I media lo trasformano in un eroe americano. Ma l'episodio apre uno squarcio sul misterioso passato dell'uomo, che si rivelerà essere assai poco limpido.
Seconda pellicola del «nuovo corso» di David Cronenberg, inaugurato con il precedente Spider. Abbandonate le ossessioni sul rapporto tra uomo e macchina che avevano caratterizzato pellicole come Videodrome, Crash ed eXistenZ, il regista canadese ha spostato la sua attenzione sull'analisi dello strato più profondo e inquietante dell'animo umano.
A History Of Violence pone al centro della vicenda il momento del mutamento della personalità di Tom Stall, che riscopre la violenza sopita nel suo inconscio. Quando quest'ultima inizia a palesarsi, dà il via a un effetto-domino che travolge anche gli altri componenti della famiglia: in primo luogo il figlio maggiore (ma anche la moglie non farà eccezione). La trama ha una struttura circolare: alla fine della vicenda Tom si purificherà simbolicamente dalla violenza, riprendendosi la sua vita «ideale», ma si tratta di un happy ending che lascia una forte impressione di posticcio.
Il film è molto riuscito soprattutto dal punto di vista estetico, forte di uno stile asciutto e piuttosto rigoroso e dell'ottima fotografia del fedelissimo Peter Suschitzky. Rispetto all'omonimo romanzo grafico da cui è tratta la pellicola (edito in Italia da Magic Press con il titolo Una storia violenta), Cronenberg ha compiuto una selezione piuttosto severa, tenendo solo l'antefatto e semplificando in modo estremo il resto dell'opera dello scrittore John Wagner e del cartoonist Vince Locke. Forse addirittura all'eccesso, nonostante si arrivi alla canonica ora e mezza di runtime. La cosa più curiosa rimane poi il fatto che sia stata tagliata proprio la maggior parte della violenza presente nel fumetto, che offriva scene molto più forti delle tre semplici scazzottate - pur con conseguenze letali - di cui è protagonista Tom sul grande schermo.
Da segnalare, infine, l'ottima prova di Viggo Mortensen e di William Hurt, quest'ultimo perfettamente calato in un ruolo per lui inedito, quello del gangster spietato.
Michele Serra, delcinema.it



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E' una storia di inevitabile violenza, a metà strada tra il noir e il western crepuscolare quella che dividerà il pubblico nel giudizio sul nuovo film di David Cronenberg, in concorso al festival di Cannes 2005. Non è affatto improbabile che siano proprio i grandi appassionati del regista canadese a storcere un pò più la bocca di fronte a quello che di fatto è il suo lavoro più mainstream; mentre soddisfatti saranno i detrattori o comunque chi si dimostra solitamente indifferente alle tematiche più estreme e personali del regista di La Mosca, Videodrome, Crash e Inseparabili.
A History of Violence racconta la vita di una tranquilla ed affiatata famiglia di una delle tante middletown americane. Tom Stall (Viggo Mortensen) è un uomo dolce e riflessivo, ha una bella moglie (Maria Bello) e un figlio (Ashton Holmes) un pò preso di mira dai bulli della scuola. Tale normalità sarà sconvolta da una rapina al fast food gestito da Tom; lui riuscirà a cavarsela con uno sparo sul piede, non si salveranno invece gli spietati rapinatori dal tempismo e della reazione di Tom. L'evento lo trasformerà in un piccolo eroe mediatico americano, cambiando la sua vita e quella della sua famiglia, fino ad una sconvolgente rivelazione.
Mettendo insieme un cast decisamente interessante, che annovera oltre agli interpreti sopra citati, Ed Harris e William Hurt, Cronenberg si libera dalla restrizioni dell'opera su commissione e fa centro con un film essenziale, anche ironico in alcuni aspetti, duro in altri, ma soprattutto, questa è la novità per un suo film, leggero nell'impianto, quanto profondo nella sostanza. La riflessione portante non è certamente nuova al cinema: A History of Violence, parla appunto dell'impossibilità di uscire dal circolo della violenza, quando questa per anni è stata l'unico elemento di riconoscimento e legittimazione sia sociale (il punto di vista più intrinsecamente noir del film) che individuale (il punto di vista più legato al western o anche ad un certo individualismo filosofico tipico del regista).
Un film fortemente diverso rispetto ai suoi titoli più noti (lasciamo l'ozioso esercizio della ricerca della perfetta aderenza allo stile e ai temi che hanno reso celebre il regista canadese ai più usi a voli pindarici interpretativi). Ma contemporaneamente di una densità contenutistica sorprendente. A History of Violence racconta in altre parole un Cronenberg più concentrato sulla calibratura narrativa e l'asciuttezza contenutistica, piuttosto che una nuovo capitolo della sua morbosa ed affascinante filosofia della mutazione. Un importante film di transizione quindi, che non rinuncia a sprazzi di straordinaria intensità, o l'apertura ad una nuova strada? Sarà il successivo Painkillers, già in lavorazione a chiarirci molti di questi dubbi.
Adriano Aiello, castlerock.it



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La vita di Tom Stall (Viggo Mortensen) è assolutamente felice: vive nella bella e placida Millbrook con la moglie Edie (Maria Bello) ed i suoi due bambini. Gestisce un piccolo ristorantino, e le cose gli vanno decisamente bene. Almeno finché una sera entrano nel locale due rapinatori, e Tom è costretto a reagire con la violenza per salvare la propria vita. Divenuto una sorta di “local hero” dopo aver ucciso i due, Tom inizia ad attirare su di sé l’attenzione dei media, ed anche di persone molto meno “appariscenti”. Nella sua vita entra infatti Carl Fogarty (Ed Harris), un malavitoso che sostiene di averlo conosciuto in passato e che Tom non è il suo vero nome. A questo punto tutte le certezze dell’uomo, e soprattutto di sua moglie Edie, iniziano a vacillare. Essere nuovamente forzato a difendere la propria famiglia e soprattutto la vita che si è costruito, costringerà l’uomo dentro un vortice di sangue che porta alla resa dei conti, prima di tutto con se stesso…
Chiunque abbia visto in questa pellicola una “deviazione” di Cronenberg rispetto al suo cinema solito ha preso senza dubbio un grosso abbaglio: A History of Violence è un’opera assolutamente cronenberghiana nell’atmosfera e nei sottotesti che il film nasconde, intenti come al solito ad indagare con estrema raffinatezza l’inquietudine che si nasconde dietro l’apparenza dei normali rapporti interpersonali: anche qui dunque sotto la coperta della realtà si cela la mostruosità, l’alterità che pian piano viene allo scoperto. Semplicemente, stavolta il grande autore non sceglie la soluzione del fantastico per raccontare la propria idea, ma preferisce adoperare una storia che, dietro la propria semplice funzionalità, sembra scritta apposta per lui; ne è venuto fuori un film di affascinante complessità, che gioca proprio con questo suo essere al tempo stesso “normale” ed insieme pienamente angoscioso.
Molto merito della sua riuscita va al regista, ovviamente, ma anche alla livida ed intensa fotografia del fido Peter Suschitzky, abilissimo nell’espandere inquietudine e tensione sotterranea attraverso un illuminazione quasi naturale. Notevole spessore al lungometraggio è poi dato dall’interpretazione di attori di carisma come Ed Harris, William Hurt e Viggo Mortensen: la migliore in scena è comunque la sempre più brava Maria Bello, che speriamo assurga definitivamente a ruolo di star.
Opera densa nelle significazioni ed elegante sotto il punto di vista puramente estetico, A History of Violence ha forse il suo unico difetto nella lieve sensazione di auto-compiacimento che suscita negli spettatori, soprattutto in quelli che conoscono bene il cinema di Cronenberg. Già la sua opera precedente, il sopravvalutato Spider (id., 2002) lasciava presagire una certa “estetizzazione” del suo lavoro, ed in alcuni momenti anche quest’ultimo sembra confermarlo: soprattutto un finale che sembra scivolare di tono verso la commedia nera scopre in un certo senso l’atteggiamento disincantato dell’autore nei confronti della sua opera. Che rimane comunque di fattura eccelsa.
Adriano Ercolani, film.it



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E quando meno te l’aspetti arriva il Cronenberg che non credevi esistesse. Un Cronenberg che lascia (o quantomeno mette da parte) il suo modo “classico” di fare cinema per reinventarsi in questo thriller del tutto atipico, che rompe le solite convezioni “stilistiche” per diventare molto più di un thriller ma quasi un film “kafkiano” con concessioni all’Antonioni di Professione reporter (The Passenger).
Un film che vive di momenti, va a strappi, alterna lunghe pause di riflessione a momenti di azione che rendono il film unico: al di fuori degli schemi e dei generi. Una storia che vede protagonista Tom Stall, sposato con due figli. Un uomo che vive la più tranquilla delle vite possibili in una cittadina dell’Indiana gestendo un bar nel centro città. Ma questa quiete apparente, che respiriamo per un buon venti minuti di film, è destinata a sparire… Un giorno, due balordi tentano una rapina nel suo locale. Costretto a difendersi, li uccide entrambi e balza agli onori della cronaca. Tutti i giornali ne parlano, anche i nazionali. È così che nel paesino arriva il misterioso Fogarty, convinto che Tom si chiami in realtà Joey e che abbia con lui un conto in sospeso. Per l’uomo e la sua famiglia Stall è l’inizio di un incubo inspiegabile!
Un incubo che sembra non terminare mai, e qui esce, forse, il Cronenberg classico, quello che tende continuamente a mischiare le carte e confutare continuamente ciò che si vede sullo schermo. Non tutto è reale, ma anzi esiste un doppio che noi non sappiamo come non lo sa la famiglia Stall. Due anime che convivono nello stesso uomo. Le classiche due facce di una stessa medaglia. Lo Yin e lo Yang. Cronenberg basa tutto il film su questo concetto, su come possa esistere il cambiamento radicale di una persona e al tempo stesso esistere ancora l’altra personalità, che è solo dormiente, pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Un rapporto schizofrenico con se stessi che Cronenberg illustra in modo molto netto e chiaro, senza tralasciare nessun dettaglio, creando, però, di tanto, delle sovrastrutture tese a mischiare ancora di più le carte. Una metamorfosi, quella di Tom, che va di pari passo con l’incedere della storia. Una metamorfosi che lo rende irriconoscibile ai suoi familiari e ai suoi concittadini, ma che altri conoscono bene. Una metamorfosi affatto ottimista nella visione globale del mondo e dell’esistenza dell’essere umano. Ognuno nasconde sempre qualcosa, e la metamorfosi è solo un mezzo per far si che esca la vera natura… Una natura che l’autore mostra ma che contesta, tutto è possibile come il contrario di tutto. Ma soprattutto si sofferma in modo minuzioso, viviseziona il rapporto parentale della famiglia Stall. Quello con i figli, con la moglie, ma anche quella della moglie con i figli. Insomma tutto viene messo in discussione, tutto viene analizzato e segmentato per essere preso in esame a se. Un’analisi spietata e senza via di scampo, che Cronenberg conduce come se stesse operando su una tragedia Greca (il film si basa nei tempi e nella struttura ai grandi drammaturghi ateniesi). Un’analisi che porta ad una sola conclusione: la famiglia è la cosa più importante che si può avere.
Maida Cuselli, zabriskiepoint.net



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La sopraffina corrente del fantastico e dell'orrorifico (quella assolutamente visionaria), l'apoteosi dell'Oscuro, appartiene alla ristretta e privilegiata cerchia di coloro che sono riusciti a distinguersi, con impeccabile autorità, dalla "ferocia" dello splatter-punk e dell'immaginario "gore", in virtù della più essenziale concettualizzazione delle estetiche horror e dell’eleganza intellettuale delle loro fantasie. David Cronenberg è riuscito ad usare il mezzo cinematografico sfruttandone a pieno le (classiche) caratteristiche speculative ed illuminando la sua professione di cineasta che lo obbliga a fare i conti, in prima persona, con quell'immagine "parassita" che diviene centralità della comunicazione visuale (contemporanea). Fra villaggi globali, sfere cibernetiche (come fossero binari invisibili) e universi virtuali, Cronenberg suggerisce un itinerario interpretativo nel caotico universo del cinema "mercantile" e devastantemente omologante; il suo cinema è un vero e proprio saggio sui mutamenti antropologici determinati dai media (e non solo), un cinema che anticipa la comunicazione visuale i cui risultati finali sono del tutto aperti. Con i suoi film la comunicazione visuale, nel suo significato più "persuasivo", penetra letteralmente dentro i nostri corpi. Insomma, una finzione che fa cultura.
A History of Violence, nel suo fulcro, mostra le radici di questa "prepotenza visiva": la griglia produttiva richiama i tempi della Zona Morta. Il regista canadese firma un storia violenta, un thriller atipico, la cui identità sarà trasformata, plasmata e ritornerà alla primordiale violenza come il protagonista. Come in tutto il resto della sua storia artistica, Cronenberg analizza la mutazione del singolo individuo, questa volta alla luce di eventi tanto casuali quanto definitivi. Il peccato originale consacra l’assurda poetica.
Presentato in concorso a Cannes 2005.
2 nomination ai Golden Globe 2006.
a cura di Andrea Olivieri, cinemadelsilenzio.it



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A History of Violence potrebbe essere il titolo di un libro sull'opera di David Cronenberg. E' il titolo, invece, di un film (il suo ultimo) che parrebbe allontanarsi dai suoi temi e dalle sue ispirazioni. Una graphic novel (di John Wagner e Vince Locke che Cronenberg giura di non aver letto se non nella sua forma di sceneggiatura affidatagli dall'autore John Olson) ed un lavoro su commissione. A History of Violence, tuttavia, è un lavoro tipicamente cronenberghiano: in fondo il protagonista, Tom Stall, scopre un'inseparabilità con un alter ego che si erge ad inseparabilità innata tra essere umano e violenza. Ecco perché una "story of violence" diventa universalmente "history of violence". Perché, quasi scorsesianamente, il furbo David va alle radici di una nazione che sulla violenza getta le fondamenta anche delle sue comunità più tranquille, va nel profondo di una psiche (umana) che nella violenza trova motivo indiscutibile di eccitazione (vedi l'esemplare scena di sesso tra i coniugi Stall sulle scale, specie se paragonata a quella da discalia di kamasutra della prima parte). Ed allora non c'è spazio per ellissi e fuori campo: gli effetti della violenza vanno mostrati in tutta la propria crudezza (e non è splatter fine a sé stesso) seppur mitigati dall'ironia (la morte di Richie Cusack mentre cerca le chiavi con la pistola messa sotto l'ascella). Incipit (un piano sequenza di 4 minuti) ed epilogo da lezione di cinema.
Rosario Gallone, pigrecoemme.it



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Tom Stall è il proprietario di un piccolo ristorante a Millbrook, un'insignificante cittadina americana; è un uomo che ama il suo lavoro ed è il capo migliore che voi possiate immaginare. Tom Stall è un marito innamorato e un amante passionale, un padre dolce e comprensivo per la sua piccola Sarah ed un esempio di vita per suo figlio maggiore, Jack. Tom Stall è amato dai suoi concittadini, è un uomo rispettato ed inserito nella sua comunità.
Un giorno d'autunno, Tom ammazza a colpi d'arma da fuoco due criminali nel suo piccolo ristorante; lo fa solo perché è stato provocato, per difendere la sua vita e quella dei suoi dipendenti, e diventa un eroe. Da quel giorno, entreranno nella sua vita alcuni loschi figuri, e Tom e la sua famiglia non saranno più gli stessi.
La metamorfosi ancora e sempre alla base del più recente film di David Cronenberg, A History of Violence, liberamente tratto dall'omonima graphic novel di John Wagner e Vince Locke. Possiamo dire che è molto liberamente tratto dal testo di partenza, in quanto lo sceneggiatore Josh Olson, di concerto con il regista, ha profondamente stravolto il testo, restandogli fedele solo in alcuni tratti, che non sono peraltro quelli fondamentali della narrazione.
Cronenberg sceglie, per il suo quindicesimo lungometraggio, di raccontare una vicenda tutto sommato classica, cosa che non accade spesso, ma anche all'interno di una storia di non grande originalità inserisce tutti gli elementi classici del suo cinema: la mutazione, il rapporto tra normalità e anormalità, il dolore dei sentimenti, la carne, la violenza. Ecco, la violenza, come celebra sin dall'inizio il titolo del film, è la principale protagonista della pellicola, ben nascosta ma decisamente presente in tutti i personaggi sin dall'inizio della vicenda. Tom che ci mette un secondo a decidere di diventare un assassino, Edie - la moglie - che diventa una leonessa solo all'idea che qualcuno si avvicini alla sua famiglia, Jack che scopre in sé la voglia e la capacità di reagire a tutto ciò che fino ad allora ha tollerato... e non vi raccontiamo altro, per non guastarvi la narrazione, che comprende un buon numero di colpi di scena che non è il caso di svelare, cosa che tra l'altro era stata chiesta anche alla stampa in sede di Festival a Cannes.
Un accenno però meritano alcuni dettagli inseriti nel film, che saranno motivo di soddisfazione per gli spettatori più abituati al "registro" di Cronenberg: tutta la scenografia, perfetta per rappresentare - senza eccedere - la mentalità e la cultura di Millbrook; i cartelli di benvenuto che accolgono tutti con i loro "Welcome" qua e là. Pubblicità di birra che inneggiano all'amicizia secolare. Pick-up che "stanno tornando alla vita"... tutto questo per dire che la violenza, lo si voglia o no, appartiene a tutti noi, e chi più chi meno siamo disposti a tirarla fuori quando serve.
Notevoli le performance del cast che, senza avere "grandi" personaggi da rappresentare, dà prova di ottimo lavoro. Mortensen - sul quale a dir la verità avevo discreti dubbi - riesce a trasmettere allo spettatore la metamorfosi che lo costringe a portare fuori il suo vero se stesso; Maria Bello credibile nella parte di mogliettina innamorata, ma allo stesso tempo di donna sensuale e di madre; anche il giovane Ashton Holmes è ben calato nella parte di adolescente alle prese con una rivelazione troppo grande per lui. Discorso a parte meritano Ed Harris nella parte di Carl Fogarty e soprattutto William Hurt che, in un cameo di pochi minuti, riesce a dipingere un personaggio complesso che racchiude tutto il passato di Tom, e che ne forgerà tutto il futuro.
Interessante, dal punto di vista tecnico, la fotografia, che "muta" tra la prima e la seconda parte concettuale di film, incupendosi e sgranandosi, quasi che volesse dire che tutta Millbrook ha subito una metamorfosi cupa ed irreversibile. Quasi inesistente la colonna sonora, che interviene solo a sottolineare i momenti di maggior tensione. Ottime la scene di azione, che sottolineano la scelta, complessa, del ritmo che Cronenberg ha voluto imporre al film: se inizialmente il ritmo è lentissimo - quasi fin troppo - e le esplosioni di violenza rarissime, con il passare del tempo l'equilibrio si inverte, senza che lo spettatore avverta alcuno strappo, per passare alla violenza in toto.
Dal punto di vista della scrittura segnaliamo la totale assenza del flashback, strategia sulla quale era invece interamente basato il testo di partenza; Cronenberg non ha bisogno di far vedere molto del passato per raccontare il presente: sono le azioni dei protagonista che ce lo mostrano.
Cronenberg costruisce un film apparentemente tra i suoi più "innocui", ma l'effetto sullo spettatore è a scoppio ritardato, è strisciante e infido come il percorso di un virus che, poco a poco, si insinua nel suo sistema immunitario, e quando ci se ne accorge è troppo tardi, ormai si è stati colpiti. A History of Violence è la dimostrazione che la frase "non è la storia, ma chi la racconta" ha davvero un senso. Una vicenda come quella narrata nel film avrebbe potuto diventare un classico polpettone hollywoodiano; quello che ne esce invece è un film d'autore che fa riflettere lo spettatore, che lo costringe a chiedersi, quasi senza rendersene conto. "E io che cosa farei al suo posto?", e a decidere, almeno per quanto mi riguarda, che forse la scelta di Tom era l'unica possibile.
Paola Cavallini, cinefile.biz
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 14:00]
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