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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 2

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 13:59
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Sesso: Maschile
07/10/2007 17:42


RASSEGNA STAMPA PARTE 2


Un David Cronenberg senza mostri né mutazioni, che coglie clamorosamente nel segno: A History of Violence è un film notevolissimo che scava nella violenza repressa dell'America moderna. Viggo Mortensen (proprio lui, l'Aragorn del Signore degli Anelli) è Tom Stall, un tranquillo padre di famiglia che gestisce un bar in un paesino dell'Indiana. La sua vita cambia quando diventa un eroe: ammazza due balordi che volevano rapinare il suo bar, la sua faccia finisce sui giornali e una banda di gangster arriva in paese, convinti che Tom sia in realtà Joey Cusack, un pericoloso killer scomparso anni prima. Chi è davvero Tom: un probo cittadino o un ex gangster che ha cambiato identità? Per scoprirlo, dovremo seguirlo a Philadelphia, dove deve recarsi per fare i conti con il proprio passato. Impreziosito da un paio di superbi cammei (Ed Harris e William Hurt), A History of Violence procede come un incubo ad occhi aperti. Per Cronenberg è un'opera quasi minimale, che forse deluderà i fans dei suoi film più visionari; ma che potrebbe segnare una svolta nella sua carriera, il raggiungimento di una più pacata maturità.
Alberto Crespi, L'Unità



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Nel cinema di David Cronenberg si incontra più d’una volta il tema della doppia identità. In Inseparabili, ad esempio, in M. Butterfly e, di recente, in Spider. Oggi quel tema gliel’ha suggerito un romanzo a fumetti riscritto per lui da Josh Oljon, un noto sceneggiatore di film indipendenti. A sostenerlo, però, come il titolo avverte, c’è la violenza, spinta in più momenti quasi agli estremi. Si comincia, come d’uso, con una famiglia tranquilla, nello sfondo di una tranquilla provincia americana. Un padre, Tom Stall, che gestisce un ristorante, una madre, Edie, avvocato di successo, un ragazzetto e una bambina. Un giorno due sbandati irrompono con furia nel ristorante di Tom e minacciano tutti. Lui, pur essendo un uomo pacifico, si difende, spara, uccide e diventa l’«eroe americano» del giorno, con foto sui giornali e interviste in Tv. Da qui, però, nuovi guai perché si fa avanti un tizio, dal volto sfigurato e dai modi bruschi, che chiamando Tom con un altro nome, gli chiede conto del male che gli ha fatto subire. Tom ha dunque un passato che lì nessuno conosce? Altro sangue, sconcerto fra i suoi, uno scontro finale altrettanto sanguinoso con persone improvvisamente emerse dal buio di anni lontani. Con molta difficoltà, adesso, per Tom , di farsi riaccogliere in quella famiglia che, spinta a dubitare, ha sconvolto. Cronenberg ha condotto tutta l’azione con mano sicura. Prima all’insegna di un’ambiguità che lascia diffondersi su tutto; sui personaggi, sui loro reciproci rapporti sulle ragioni di quel protagonista che all’inizio nega, come in innocente preso in una trappola da cui non riesce più a uscire. Poi, appunto, all’insegna di una violenza che via via dilaga su ciascuno, non solo su Tom, da uomo adesso quieto a omicida senza remore come una volta, ma sul figlio che, perseguitato a scuola, trova tutto l’ardire necessario per difendersi e persino sulla moglie che, nel suo risentimento urlato, accetta una pagina di sesso in cui domina più il furore del sentimento. Analizzando i caratteri, alternando ai momenti più duramente espliciti quelli sfumati, con un linguaggio che privilegia, pur in quella provincia rurale e solare, le luci scure e i ritmi incalzanti pronti nei passaggi più incisivi, a far trattenere il respiro. Felicemente coadiuvato da interpreti magnifici: Viggo Mortensen, un protagonista dalle multiple espressioni, Maria Bello, una moglie di una sensualità quasi esasperata, e due «cattivi» di forte segno, Ed Harris, il primo a farsi vivo, William Hurt, che concluderà quella ridda. La firma di Cronenberg.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo



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A History of Violence del maestro canadese David Cronenberg, autore peraltro abituato alle tempestose accoglienze (Inseparabili, Crash), dopo aver diviso la platea di Cannes potrebbe essere consumato come un film di genere qualunque. Sarebbe un vero peccato, però, equivocare sul fatto che questo thrilling serrato e incalzante, cronenberghiano sino in fondo, ma anche ispirato da autori come Boorman e Peckinpah e da titoli come Ore disperate e Il promontorio della paura, non cerca giustifiche intellettualistiche e non risparmia allo spettatore gli effetti più crudi sulla gamma tra il noir e il gangsteristico. Impiantato a cerchi concentrici nel cuore del sogno americano, di cui sa esplorare le più inconfessabili angosce, A History of Violence discioglie i soliti e ovvi fraseggi ideologici nella pura suspense e lavora di stile sulle mutazioni indotte dall'istinto primordiale della violenza. Quando l'anonimo provinciale Tom (un Viggo Mortensen non del tutto all'altezza) uccide per legittima difesa due temibili killer, l'opinione pubblica ne fa un eroe nazionale; ma, a poco a poco, le ombre del passato rimosso si addensano, provocando una catena di cortocircuiti fisici e psicologici. L'imprevedibile «contaminazione» determina, così, un inquietante crescendo drammatico che stringe d'assedio il timorato antieroe e la sua liliale famiglia... Il discorso (sapientemente indiretto) finisce col riguardare la genealogia universale della violenza, un mix di transfert paranoici e minacce reali che esclude qualsiasi compiacimento estetico e corregge la tentazione moralistica con un surplus di tagliente sarcasmo. Attenzione alla straordinaria scena di sesso tra i coniugi che segue i primi shock: dimostrando che la violenza fa parte della natura umana e domina tutti i nostri rapporti e che è assai arduo controllare questa vera e propria «malattia» genetica, il nichilismo di Cronenberg si riafferma nella sua devastante potenza.
Valerio Caprara, Il Mattino



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Chi dice che David Cronenberg è cambiato, ha tradito se stesso? In apparenza ha spiazzato i fedelissimi, perché non è più il “Barone del Sangue”, ma certo continua a essere il Re delle Mutazioni. Solo che, invece delle possibili, infinite diversità fisiche, fatte di intrecci di cellule umane e animali, di carne e metallo, oggi si dedica a esplorare le più profonde trasformazioni della mente. Esattamente questo era Spider, sulla stessa linea è A History of Violence, ultimo film del regista canadese passato al Festival di Cannes 2006. Parte come un banale thriller, una gangster story contemporanea, e pian piano sposta il fuoco dentro l’anima dei protagonisti, pronto a scavare spietatamente, a documentare ogni impercettibile mutamento di personalità. In un attimo, la tranquilla vita di Tom Stall e famiglia diventa una discesa all’inferno: con, forse, un possibile ritorno. «È proprio l’iniziale semplicità della storia che mi ha attratto», racconta David con voce pacata, cortese. «Si parte da un intrigo classico, lineare, che si sviluppa poi pericolosamente, rivelandosi assai complesso, con agganci a molti temi diversi. Non mi piacciono le definizioni, ma ci trovo una suspense drammatica vicina allo spirito di Hitchcock, che era maestro nell’arte di rivelare gli elementi nascosti, le zone d’ombra dei personaggi». Ambientazione alla John Ford, in una tranquilla cittadina rurale dell’Indiana, dove il protagonista, Tom-Viggo Mortensen, conduce un’esistenza tranquilla, quasi noiosa: una moglie, due figli, la conduzione di una tavola calda. Tutto cambia quando una sera, nel locale, entrano due criminali: in un secondo lui tira fuori con destrezza da vendicatore solitario una pistola e spara ai due, diventando un eroe per i media e la comunità. Dovrà anche tornare a fare i conti con un altro sé, con una vita che pensava seppellita, lasciata alle spalle e invece riaffiora, invadendo subdolamente il suo universo. «Ho trovato interessante porre questa famiglia media in una situazione estrema, e mostrare come riusciva a uscirne. In generale è una riflessione sulla natura umana e la violenza, ma al tempo stesso una storia con elementi tipici della mitologia americana, come l’uomo solo che protegge la sua famiglia con un fucile in mano. C’è un detto nell’arte: per essere universale, devi essere specifico. E anche se il film non è apertamente politico, si pone domande di carattere esistenziale: è inevitabile vivere in questo modo? Non c’è via d’uscita da un circolo di violenza? C’è anche, sottintesa, una possibile lettura più attuale, e riguarda una nazione che ha una storia di violenza, oggi rinverdita dall’amministrazione Bush. Quanta violenza? Quanto potere militare è richiesto per difendere quella piccola città, i suoi graziosi steccati?». Quello di Cronenberg continua a essere uno sguardo critico esterno, il che rende tutto più lucido, inquietante: «I miei film sono psichicamente, fisicamente canadesi », dice con orgoglio. Può sembrare stra-no ma non ha mai girato una scena sul suolo americano, né in passato nè oggi, l’Indiana o Philadelphia sono stati ricreati nell’Ontario. Eppure questo progetto non nasce da un’idea originale sua, è un lavoro su commissione della New Line. «Spider era stato molto difficile da finanziare, per finirlo rinunciai al mio cachet. Non potevo continuare in quel modo. Ero alla ricerca di un progetto che avesse un budget confortevole e un buon distributore, che mi lasciasse però libertà d’azione. Ho letto molti soggetti ma pochi hanno attirato la mia attenzione. Anzi nessuno fuori di questo. Ho chiesto allo sceneggiatore Josh Olson di sviluppare alcuni punti, riscriverli insieme: ci siamo subito intesi. Non mi dispiace lavorare con altri, anzi mi eccita. Posso annoiarmi molto in fretta di me stesso, invece trovo interessante fondere la mia sensibilità con quella di altri. Possiamo formare una terza entità che non esisteva prima, creare esperimenti ibridi». Il regista ha voluto aggiungere due scene di sesso tra Tom e la moglie, interpretata da Maria Bello: «Non c’erano nel romanzo, e neppure nella prima stesura del film, ma per me sono importantissime, riflettono la loro trasformazione. La prima, più dolce e romantica, ha a che fare con la tipizzazione, ciò che le persone sognano di essere: la coppia si cala in personaggi codificati, la cheerleader, il giocatore di football. L’America in fondo è adolescente perpetuo. La seconda è più cruda, più vicina alla realtà: Edie vede qualcosa di spaventoso e insieme attraente in Tom, e allo stesso tempo le repelle questa sua reazione. Tutto ruota intorno al fatto che la famiglia diventa reale solo quando la violenza entra nelle loro vite. Prima erano imprigionati in una sorta di Disneyworld, una fantasia così perfetta da essere sinistra».
Il film pone molte domande, lasciando le risposte in sospeso, aperte alle interpretazioni dello spettatore. Ma Cronenberg non esita a dichiarare il proprio punto di vista: «Penso che tutti, o quasi, possiamo diventare violenti, se obbligati da certe condizioni. Ma accetto anche l’idea che la nostra identità non ci venga data geneticamente, come il colore degli occhi. È qualcosa di creato, in cui è coinvolta anche la volontà. Quindi c’è sempre la possibilità di cambiarla, una specie di rinascita. Penso che ogni mattina ti svegli e devi reinventare te stesso, ricordarti chi sei, riassemblare quella persona o diventare qualcun altro».
Il suo prossimo impegno avrà di nuovo i colori del giallo, almeno in superficie. l’adattamento del romanzo London Fields di Martin Amis. Il regista ci sta già lavorando, in coppia con lo stesso autore. La storia, scurissima, pare perfetta per lui, ma lo allontanerà per l’ennesima volta dal progetto tante volte annunciato, Painkillers, su un body-artist che si esprime attraverso tagli, operazioni sul proprio corpo. «Non mi sento pronto, non sono soddisfatto dello script: c’è ancora molto lavoro da fare. Inconsciamente, come ogni scrittore cerco ogni scusa per evitarlo. È un soggetto che mi affascina, ma è molto difficile. E a volte mi sembra che si rivolti contro di me».
Liana Messina, D di Repubblica



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La scena di sesso sulle scale di casa pare abbia provocato lividi veri alla schiena di Maria Bello, ovvero Edie la moglie perfetta, Edie la madre di due figli altrettanto perfetti (e all’occasione Edie la ragazza pon pon). Per la prima volta un regista ha pensato che era il caso di ricorrere a qualche cuscinetto per attutire i colpi e smussare gli spigoli, come si fa sul ring. Comunque, ne viene fuori una sequenza da antologia (quanto a danni collaterali, se l’è passata molto peggio Gorge Clooney, che per una sediata in testa durante la lavorazione di Syriana si è ritrovato smemorato). David Cronenberg racconta che avrebbe voluto intitolare il film “Scene da un matrimonio”. Ma i fan abituati a spaccare il capello in quattro e a decifrare i significati nascosti dietro le immagini sarebbero rimasti delusi. Con questo titolo, possono aprire il dibattito sull’America di Bush, sull’America in generale, sulla violenza che è in noi, sui danni degli omicidi visti da un quindicenne medio alla televisione, sul passato che ritorna (nell’individuo e nella specie), sulla violenza al cinema comparata alla violenza del fumetto (con excursus su John Wagner e Vince Locke, gli stessi di Road to perdition - Era mio padre girato da Sam Mendes). Magari anche sul potenziale della caffettiera piena come arma d’offesa e di difesa, e sulla pericolosità della staccionata in una cittadina dell’Indiana. Ebbene sì: esiste gente che, pur di non guardare un film, di passare due ore senza aggiustare i mali del mondo, farebbe qualsiasi cosa. Gli altri si divertono di più. Possono ammirare senza distrarsi la bravura di Cronenberg, qui insolitamente mainstream, pronto per girare o una puntata dei “Soprano” o una delle “Casalinghe disperate”. La famiglia è un capolavoro di composizione: bambina ricciuta che ha paura del buio, adolescente pacifista in guerra aperta con il padre Tom. Viggo Mortensen lascia senza parole per bellezza, bravura, ambiguità. La caffetteria dove sembra non possa succedere niente di male fa da sfondo a una reazione di legittima difesa fin troppo da manuale. In città cominciano a girare tipi minacciosi, e in famiglia qualche dubbio viene. L’unico fuori posto è William Hurt, gigione e sopra le righe.
Mariarosa Mancuso, Il Foglio



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David Cronenberg è stato chiaro: «Il mio film ha un rapporto minimo con la graphic novel di John Wagner». Eppure, è proprio confrontando il romanzo a fumetti di Wagner e Vince Locke, che la prima versione della sceneggiatura seguiva quasi fedelmente, con il film voluto dal regista, che si apprezza ancora di più lo splendido lavoro compiuto da Cronenberg. Del fumetto resta l’incipit: un uomo tranquillo (Viggo Mortensen), che vive in una piccola città con moglie (Maria Bello) e due figli, diventa un eroe dei media quando elimina due sbandati entrati minacciosamente nel suo locale. Ma l’improvvisa popolarità porta nella sua vita altre minacce e altra violenza. Cronenberg cancella invece tanto i personaggi secondari quanto il lungo flashback che racconta l’adolescenza del protagonista (e ne giustifica le scelte). In questo modo, oltre a prendere le distanze dall’ambiguità politica di Wagner, riafferma i suoi interessi di autore: una riflessione sardonica sull’identità (già in Inseparabili, M. Butterfly, Spider) e un’analisi entomologica dell’universo familiare, che diventa il centro stesso del film, aggiungendo anche scene assenti nel fumetto, come i due momenti erotici fra loro speculari, il dialogo padre/figlio e la notevole sequenza finale intorno al tavolo di casa, carica di cinismo e disperazione.
Solido, rapido ed essenziale nello stile . per certi versi “diritto” come Una storia vera di Lynch - sottile e complesso nei contenuti, il film conferma anche la capacità di Cronenberg di ottenere il meglio dai suoi attori, che viaggiano per coppie contrapposte: tutti tensioni sotterranee ed esplosioni improvvise Mortensen (perfetto) e Bello (di rara sensualità); disturbanti, eccessivi e caricaturali i magnifici cattivi Ed Harris e William Hurt. Nomination in arrivo? Ce lo auguriamo.
Stefano Lusardi, Ciak



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Un uomo tranquillo, Tom Stall. Buon padre di famiglia, ottimo marito, gran lavoratore. Pare di vederlo un po’ più giovane con il giubbotto da baseball modello Richie Cunningham... Quando sventa una rapina, ammazzando alla velocità della luce i due banditi, la sua immagine cambia, sbiadisce, si dissolve in quella di un eroe. Oppure di un killer. Una banda di feroci criminali lo perseguita, la moglie non lo guarda più con gli occhi di prima, persino il figlio ha una brutta sensazione. E il mondo crolla. Nuovo film di David Cronenberg, liberamente tratto da una graphic novel di John Wagner e Vince Locke. Se dell’opera precedente il regista canadese flaubertianamente diceva «Spider sono io!», questa volta fa un passo indietro per guardare il mondo da un oblò, quello della macchina da presa. La sua finestra si apre sul cortile al di là della frontiera: gli Stati Uniti. Che nell’ambito di un’unica matrice anglofona tra cultura canadese e statunitense ci sia un abisso lo ricordava Michael Moore in Bowling a Colombine, quindi i “distinguo” sono più che pertinenti. Cronenberg fa i conti prima di tutto con generi non suoi ma “loro”: il western, esplicitamente citato nella scena della rapina al saloon; e il noir, con i fantasmi di un passato che ritorna e che imprigiona inesorabile alle catene della colpa. Il collante fra western e nero è cronenberghiano al centomila per cento, dato che A History of Violence, in seconda lettura, è l’ennesimo mélo, un Inseparabili in un corpo solo dove si agitano mostri rimossi e demoni sotto la pelle. A sbattersi come una orrenda creatura lovecraftiana nell’inconscio di una nazione che ancora parla di destino manifesto quando esporta la democrazia con le bombe al fosforo, è l’oggetto” del desiderio del film: la violenza. Tom si illude di costruire intorno a sé il mondo perfetto, impermeabile a qualunque contaminazione dell’altro (i banditi, i gangster, la minaccia che viene da fuori) e Cronenberg fa quello che ha sempre fatto. Distrugge da dentro. La mutazione di Tom non lo protegge dalla violenza, la quale, anche se inevitabile come nel suo caso, ti si ritorce contro. La violenza fa già parte del suo (del “loro”, forse del “nostro”) DNA, quindi che ci si cambi i connotati come in Dark Passage o si scappi su Marte, non c’è niente da fare. In questo senso il film fa i conti soprattutto con la cultura Usa, quella espansiva e pionieristica, quella delle “hands that built America” di Gangs of New York. Cronenberg si toglie un altro sassolino, perché A History of Violence, anche in virtù dell’umorismo nero che lo pervade, è un film post-pulp. La rappresentazione così estrema della brutalità è esplicitamente anti-tarantiniana (non è un mistero che il regista detesti il cinema di Quentin) perché mai estetizzante” o cartoonistica, e invece rozza e feroce fino al parossismo. La violenza è disturbante e come tale va descritta. Poi è chiaro che dietro ai film di Tarantino ci sia dell’altro, ma è altresì evidente che Cronenberg prenda le distanze dai meccanismi di spettacolarizzazione così tipici della Hollywood degli ultimi quindici anni, nelle sue pratiche “alte” o “basse”. Densissimo di significati, A History of Violence è soprattutto molto divertente, come se il gioco con i generi avesse addirittura arricchito la poetica del nostro. Bravissimi tutti gli attori, da Viggo Mortensen (il diavolo, probabilmente) a Maria Bello (una sorpresa, per chi non è assiduo di E.R.), con una menzione speciale per lo sfregiatissimo e sublime Ed Harris.
Mauro Gervasini, Film TV



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Il titolo é un’arma a doppio taglio. A History of Violence infatti, si può intendere alla lettera e allora rimanda alla “storia” della violenza, quella di ampio respiro e con la “s” maiuscola. Ma l’espressione “to have a history of violence” significa avere un passato violento. Era, quest’ultimo, il senso della frase scelto dall’inventore della graphic novel che fa da background all’omonimo film di David Cronenberg, John Wagner. Il quale Wagner, per descrivere l’avventura di un uomo qualunque trasformato dai media in un eroe e da qualcun altro in un criminale, si era poi affidato alle formidabili chine di Vince Locke. Tutto questo per dovere di cronaca. Perché è necessario mettere un paio di paletti, presentando A History of Violence il film, e lasciamo che sia lo stesso Cronenberg a farlo. «Non ho minimamente rispettato il fumetto. Anzi, non l’ho neppure preso in considerazione. Questo è stato un progetto non nato da me, sono stato chiamato in una fase successiva, a pre-produzione avviata, e ho accettato solo dopo avere letto la sceneggiatura di Josh Olson. Che era bellissima, sostanzialmente fedele al testo di Wagner e che io invece mi sono divertito a terremotare qua e là. I primi cambiamenti li ho voluti fare nella definizione dei cattivi. Il fatto che fossero “dagos” (termine non proprio lusinghiero con il quale si indicano gli italoamericani, ndr) faceva piombare il tutto nel classico mafia-movie. E siccome non volevo rinunciare alla sottile ironia già presente nello script di Olson, si rischiava “l’effetto-Soprano”, cosa che volevo evitare a tutti i costi. Così la criminalità organizzata è diventata irlandese». Velocemente, la storia. Tom Stall (Viggo Mortensen), sposato con Edie (felicemente, dato che la interpreta Maria Bello) e con un figlio del quale andare fieri, sventa in modo rocambolesco una rapina e uccide i banditi con inattesa e micidiale velocità, per essere un ordinary man del Midwest. La sua vita si trasforma in un incubo un istante dopo. Prima perché i mass media lo trattano suo malgrado come un “eroe americano”, poi perché un mafioso di città, Ed Harris, piomba in paese con intenti poco chiari, ma certo non rassicuranti. Epilogo a sorpresa. Cast stellare (tutti davvero bravissimi, compreso William Hurt nel finale) per una black comedy anomala. Sul fatto che il film sia poco cronenberghiano risponde, sempre più divertito, il regista. «A chi crede che A History of Violence non sia un film personale rispondo che è più personale di altri. Ho lavorato con i miei collaboratori abituali e ho come al solito messo tutto me stesso nella realizzazione. Il fatto che non fosse un progetto mio non significa niente, dato che poi lo è diventato». Ed è naturalmente il tema principale, quello della violenza, a passare sotto il tritacarne della sua poetica. «In questo film - sostiene il cineasta canadese -volevo che la violenza fosse realista e brutale, così come potrebbe essere quella di una rissa per strada. Tutto fuorché “coreograflca”, perché se uno combatte cerca di essere efficace, non “bello”. Insomma, l’opposto della rappresentazione estetizzante della violenza al cinema, oggi. La violenza che esercita Tom sui due rapinatori è inevitabile e giustificata. Fa quello che fa perché non ha alternativa Ma le conseguenze di quel gesto che ci sembra comprensibile sono terribili. Con A History of Violence volevo far passare l’idea che la violenza fosse sempre e comunque esecrabile ma che purtroppo fa parte dell’esperienza umana. Tuttavia saremmo immorali se la descrivessimo come un fattore seducente di questa esperienza». In seconda lettura, questo è anche il film più americano (nel senso di “statunitense”) del regista, che tuttavia non si è voluto allontanare troppo da casa per girano. «Il fatto che le produzioni hollywoodiane si siano spostate in Canada per convenienza economica ha creato delle condizioni ottime. A History of Violence è stato girato a Millbrook nell’Ontario e a Toronto, così ho potuto sfruttare tecnici e maestranze che abitualmente lavorano con me». Molti i progetti di Cronenberg all’orizzonte, tra i quali, ma è solo un “si dice”, la trasposizione di Io uccido di Giorgio Faletti. E se fino al 23 dicembre prosegue a Torino “Fotogrammi genericamente modificati”, la retrospettiva completa organizzata dal Museo nazionale del cinema, dalla Cineteca di Bologna e dal Centro sperimentale di cinematografia di Roma - è stata spostata a primavera la mostra, prevista sempre a Torino, legata a Red Cars, il suo bellissimo libro (pubblicato dalla casa editrice italiana Volumina) dedicato alla Ferrari, all’automobilismo e al progetto di un film mai realizzato.
Mauro Gervasini, Film TV



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A un cineasta che ha fatto della “mutazione” il cuore pulsante dei suoi film, si può rimproverare distare trasformando sensibilmente il suo cinema? Sottile paradosso, eppure molti critici presenti all’ultima edizione del Festival di Cannes, dove A History of Violence è stato presentato in Concorso, hanno messo l’accento proprio su questo aspetto: è un Cronenberg più “convenzionale”. Eppure, il regista canadese non ha diretto solo horror dai corpi esplosivi e cangianti come Rabid, Scanners o La Mosca, ma anche pellicole più raffinate e “psicologiche” come Inseparabili o M. Butterfly, dove la “mutazione” avveniva lungo binari al confine tra il corpo e la mente. Questo film è del tutto dentro le dinamiche del “doppio” cronenberghiano e se non si presenta palesemente come il Cronenberg più estremo - quello de Il Pasto Nudo e Crash per capirsi - sono però presenti residui del suo cinema che agiscono in maniera sotterranea pronti a esplodere, come i volti dei criminali uccisi in cui c’è quella disgregazione epidermica e quella sporcizia splatter di Rabid - Sete di sangue, o i segni/cicatrici sul corpo di Edie (Maria Bello) che sembrano prefigurare le metamorfosi di La Mosca. A History of Violence racconta gli sconvolgimenti portati all’interno di un nucleo familiare in conseguenza di un gesto di autodifesa estremo compiuto da Tom Stall (Viggo Mortensen) nei confronti di. un rapinatore, che rimane ucciso. A quel punto, le televisioni e i giornali parlano di lui e il suo volto diventa noto. Qualche giorno dopo giungono nella località tre misteriosi criminali per regolare con Tom alcuni conti in sospeso. E, improvvisamente, scopriamo che il tranquillo cittadino per bene ha alle spalle storie piuttosto “nere”... Fotografato da Peter Suschitzky, scritto da Josh Olson (Infested) e tratto da una graphic novel di Vince Locke (già creatore del personaggio Judge Dredd), l’ultimo Cronenberg è un viaggio all’interno delle metamorfosi della normalità, questa volta inserite all’interno di un genere, il noir, storicamente luogo privilegiato delle ambiguità narrative. Ma è anche l’occasione per vedere Viggo Mortensen in un ruolo molto diverso dall’eroe integerrimo che lo ha reso famoso nel ciclo de Il Signore degli Anelli.
Federico Chiacchiari, Nick



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Ogni film di David Cronenberg, anche quello meno riuscito, evade dal suo contenitore: pur toccando generi che apparentemente sono ben codificabili (fantascienza, noir, thriller) il regista canadese ha sempre aperto la porta a inquietudini che restano disturbanti e parecchio originali. Possono essere l’ossessione di due gemelli per la ginecologia e le donne (Inseparabili), la mutazione degli esseri umani in macchine o in qualcosa di organicamente indefinibile (un vero leit motiv, che tocca Crash, Il Pasto Nudo, Shivers...) o ancora considerazioni sulla tecnologia che mettono assieme George Orwell e Philip K. Dick (su tutti, l’innarivabile Videodrome).
Nel recente Spider (dal romanzo omonimo di Patrick McGrath) andava in scena il ribaltamento del punto di vista, la follia dei personaggio principale che era vissuta - e condivisa - dallo spettatore in soggettiva. Per A Histoty Of Violence il fuoco sta nella rimozione del passato, nel suo ritorno inesorabile e nella violenza da cui non ci si può mai del tutto redimere. La storia è quella di una graphic novel di John Wagner e Vince Locke: Tom Stall vive una esistenza pacifica nell’indiana, con moglie, figlio adolescente (e un po’ vessato dai suoi compagni di classe) e una figlioletta sorridente che sembra un giocattolo di Natale. Gestisce un drugstore e un giorno subisce l’aggressione di due delinquenti che scorrazzano per la provincia rubando e uccidendo gente come lui. Subisce non è però la parola giusta: Tom reagisce all’aggressione ammazzando entrambi i malcapitati come fosse una macchina da guerra. Da quel momento deve fare i conti con un passato che non vuole ricordare: si faranno avanti parecchi personaggi con conti da saldare con Joey (così viene chiamato dalle vecchie conoscenze) e il tentativo di mettere assieme i pezzi di un’altra vita rischierà di far saltare la pax domestica a cui lui e i suoi cari sembravano destinati.
La pellicola procede fra sequenze d’azione mozzafiato e inquadrature serrate e asciutte, che non si fanno problemi a mostrare fino in fondo la violenza nelle sue connotazioni più fisiche. Movimenti di macchina stringenti e fortepiano della colonna sonora di Howard Shore che incorniciano assai efficacemente una delle opere più profondamente americane del regista. Siamo di fronte a una narrazione di frontiera rovesciata, dove i moduli della suspense vengono utilizzati per stringere lo spettatore in una tensione, anche affabulatoria, insostenibile. Nel Nuovo Mondo hanno tutti qualcosa da nascondere oppure, come nel caso del figlio del protagonista, qualcosa da tirare fuori, e si tratta quasi sempre della propria natura più feroce e imperdonabile. Così i motivi che stanno dietro alla “perdita di memoria” di Tom e lo svelamento del suo segreto sono meno importanti del clima che si respira in tutto A History Of Violence: un’atmosfera che ricorda proprio Videodrome, nel suo togliere progressivamente spazio alla ragionevolezza degli interpreti principali.
Se il tema che la pellicola affronta non è nuovo nella filmografia cronenbergiana, l’essenzialità con cui prendono corpo le scene più drammatiche (come quelle erotiche, che hanno una forza visiva a cui di questi tempi non siamo più abituati) e la bravura degli attori la rendono una delle sue produzioni maggiori. Viggo Mortensen è tutt’altro che inespressivo, come qualcuno Oltreoceano ha sostenuto: nella sua faccia desolata che si illumina solo nel momento in cui si inferocisce sta una parte convincente dell’incubo americano. Ed Harris, poi, ricorda i cattivi di Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock, mentre il cammeo di William Hurt è da antologia del cinema. Senza perdere mai ritmo e sostanza, il film coniuga cosi intrattenimento - perché anche di questo si tratta - con questioni tutt’altro che vacue: per esempio, il diritto alla normalità in un mondo impazzito. Una normalità che viene acquisita solo a costo di rimozioni immense, e che non ha nessun tipo di possibilità di trionfare, nella vita reale quanto in quella immaginata.
Claudia Canziani, Il Mucchio Selvaggio
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 13:59]
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