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RECENSIONI - Rassegna Stampa / 1

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 13:58
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Sesso: Maschile
07/10/2007 17:40


RASSEGNA STAMPA PARTE 1


Nella cittadina di Millbrook (Indiana) Tom Stall vive da vent'anni in una quiete idilliaca con la moglie Edie, avvocato, e due figli finché, per sventare una rapina nella sua piccola caffetteria, uccide due banditi assassini e diventa un eroe nazionale nel circo dei mass media. L'improvvisa celebrità scoperchia il suo remoto passato a Filadelfia quando, col vero nome di Joey Cusack, faceva parte di una banda criminale. La violenza – in lui rimossa o camuffata – affiora e contagia la sua famiglia. È il 1° film che D. Cronenberg ha diretto su una sceneggiatura altrui – ma da lui ritoccata – offertagli dalla New Line Cinema, quella di Josh Olson, cavata dall'omonimo racconto a fumetti (1999) di John Wagner e Vince Locke. È anche, a livello stilistico-narrativo, il suo film più classico e lineare, una macchina perfetta nella sua semplicità che pur cela ricchezza di temi, sfumature, toni, comprese una concretezza realistica e una quasi impercettibile ironia. Si può interpretarlo come una parabola sugli Stati Uniti, paese contaminato dal suo violento passato, fondato sullo sterminio del popolo pellerossa e sullo schiavismo degli africani oppure leggerlo come un'altra metafora sulla normalità della violenza da parte di un regista pessimista che racconta da sempre storie su esseri in cui l'umanità coabita con l'animalità e le sue appendici patologiche. Basta riflettere sui tanti modi con cui si può leggere la quieta, familiare sequenza conclusiva. La violenza è abominevole, ma è parte integrante dell'esistenza umana: chi può dire che non è mai giustificata? I personaggi? Scritti con perizia. Gli interpreti? Scelti e diretti con talento. Girato interamente in Canada, a Toronto, città natale del regista che ha trovato Millbrook nell'Ontario e si è circondato dei suoi abituali collaboratori: Peter Suschitzky (fotografia), Carol Spier (scene), Ronald Sanders (montaggio), Howard Shore (musiche), la sorella Denise Cronenberg (costumi).
Il Morandini 2007 (Zanichelli)



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Un film tutto di regia. La dimostrazione che anche una storia banale e zeppa di ovvietà può trasformarsi, nelle mani di un autore maiuscolo come Cronenberg, in un’opera straziante e capace di colpire a fondo lo spettatore. Una direzione del cast strepitosa (non sarà facile vedere Viggo Mortensen o Maria Bello recitare altrettanto bene), uno scavo profondo dei personaggi, l’utilizzo perfetto di due mostri sacri come Ed Harris (l’uomo senza un occhio) e William Hurt (il fratello Ritchie). L’esplosione di inusitata violenza, sottolineata da particolari splatter come i volti scarnificati dalle pallottole, non sembra mai fuori luogo, si rende necessaria per la descrizione dell’ambiguo Tom (Mortensen, doppiato da Pino Insegno) e si riallaccia sia al passato di Cronenberg che alle caratteristiche del genere al quale il film pare volersi rifare (il noir, il gangster movie). Dialoghi e sguardi si sposano impeccabilmente, mentre la regia rallenta il ritmo laddove deve farlo per non confondersi con la massa informe di prodotti americani senz’arte né parte. E a questo punto si riesce anche a chiudere un occhio – non tutti e due, perché sarebbe troppo – di fronte alle tante fasi superflue (gli amplessi della coppia, le scaramucce scolastiche del figlio…), ai difetti di una sceneggiatura nata da un fumetto che – per fortuna – Cronenberg giura di non aver mai preso come riferimento per il film (e di non aver mai nemmeno letto). Cinema d’alta scuola, che colpisce per lo spessore e rivaluta un’idea mediocre.
davinotti.com



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Tom Stall è un uomo tranquillo, che vive e lavora in una piccola città e trascorre sereno la vita con la moglie Edie e i due figli. Un giorno, però, due rapinatori assassini entrano nel suo ristorante; per difendere sé e i suoi amici Tom interviene e, con insospettabile efficienza, uccide i due aggressori. Il suo gesto, amplificato dai giornali, lo fa diventare un eroe nazionale, ma porta in città altri individui misteriosi che sembrano sapere qualcosa del passato di Tom. Tra dubbi e nuove violenze Tom e i suoi sono costretti a fare i conti con una verità sepolta. Nel passato di David Cronenberg ci sono molte storie di individui tormentati (e spesso disturbati), la cui quotidianità è squassata dall’esplodere della violenza (all’interno o all’esterno del proprio corpo o della propria mente) che travolge e muta la normalità fino a manifestarsi come elemento radicalmente connaturato all’esistenza umana.
I vari La Mosca, Inseparabili, Crash, Spider, si delineano come visioni estreme e spesso distorte dell’umano, costretto a mutazioni anche fisiche che ne rendono visibile tutto il tormento interiore.
In quest’ultima pellicola non accade nulla di così radicale; il volto sofferto ed espressivo di Viggo Mortensen (che il grande pubblico ricorda come Aragorn nel ciclo de Il Signore degli Anelli) resta quello di un essere umano, ma ciò che accade (e, più importante, quello che è accaduto in un lontano passato) nel suo cuore di uomo comune con l’abilità di un sicario, quello è dominio delle ossessioni cronenbergiane, che in questo caso si rifanno alle vicende dure di un graphic novel d’autore.
Da questa forma di racconto sempre più popolare oltreoceano (stessa matrice aveva Era mio padre con Tom Hanks) la pellicola sembra mutuare una certa forzatura nella caratterizzazione dei personaggi, le cui psicologie e i cui drammi interiori non vengono in realtà mai veramente raccontati.
Il passaggio dalla famiglia perfetta raccontata nella primissima parte del film al successivo inarrestabile mutamento portato dall’esplodere della violenza e dall’incombere della verità del passato di Tom (un racconto in realtà molto povero di eventi, che fatica a reggere i 90 minuti del film) avviene senza che lo spettatore possa davvero cogliere il peso dei dilemmi che agitano il protagonista.
Forse perché questi dilemmi (come quelli che nel passato lo hanno condotto a una scelta radicale quanto poco chiara) non esistono affatto. La violenza, sembra postulare Cronenberg, è parte dell’essere umano (di tutti, non solo di Tom; anche il mansueto figliolo dalla parlantina veloce è rapido a convertirsi a maniere meno signorili) e non può essere negata se non provvisoriamente.
E infatti Tom ci mette pochissimo a ritornare la macchina di morte che immaginiamo sia stato in passato (anche se ciò che è stato si riduce a una vicenda che dobbiamo immaginarci nei canoni un po’ esausti della malavita da fumetto, incarnata in modo efficace seppur arido dal bravo Ed Harris e in modo più grottesco da William Hurt) e con lui, in qualche modo, anche la sua famiglia.
Cronenberg costruisce un racconto che appare in definitiva superficiale (e per questo molto poco coinvolgente), immobilizzato dalla sua visione limitata e limitante dell’essere umano, destinato a veder svanire la «favola» di una vita famigliare normale (da notare come sia dipinto in modo quasi troppo naïf il rapporto di Edie e Tom prima dell’arrivo dei rapinatori, al punto da suggerire l’idea di un equilibrio «naturalmente» instabile) per l’esplodere delle sua vera natura di predatore/killer.
Che ciò funzioni da «afrodisiaco» (come suggerisce il regista)
o che, compiuto il massacro, Tom sia pronto a ritornare nei ranghi a occhi bassi, non fa che sottolineare in modo ancora più chiaro l’assunto di base, che il regista sembra suggerire come «morale» al suo Paese (l’America dove secondo alcuni tutti dovrebbero avere diritto a un’arma) e al mondo: il sogno (americano o d’altra natura) è sempre e comunque una menzogna, destinata a svanire di fronte alla realtà costringendo l’individuo (ma anche la famiglia e la comunità) a fare i conti con la sua natura radicalmente segnata dal male e dalla violenza.
Di fronte a ciò gli affetti familiari appaiono ben poca cosa, appena un palliativo, una patina di vernice pronta a creparsi all’apparire di una minaccia.
Armando Funagalli, Luisa Cotta Ramosino, Scegliere un film 2006 (Edizioni Ares)



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Nella reception di un motel un uomo punta la sua pistola contro una bambina. Sbucata da una porta, la piccola lo guarda muta. Per terra, davanti a lei, ci sono due cadaveri. Lui si abbassa, le parla con dolcezza. Intanto, prende la pistola che tiene dietro la schiena: I gesti sono tranquilli. Pochi minuti prima, uscendo da una camera del motel, con la stessa indifferenza ha rimesso a posto una sedia. Poi s’è infilato in auto, in attesa che il complice facesse il suo lavoro. Solo per caso — per prendere un po’ d’acqua — è entrato anche lui nella reception. Ora sorride, e punta la pistola. Con le immagini “quiete” di questa folle normalità inizia A History of Violence (Usa, 2005, 96’). E subito, con un improvviso taglio di montaggio, senza attendere il rumore dello sparo, David Cronenberg mostra il primo piano di un’altra bambina, che balza sul letto urlando. Si tratta di Sarah (Heidi Hayes), figlia di Edie (Maria Bello) e Tom Stail (Viggo Mortensen). L’ha svegliata un incubo, e ancora ha paura. Il padre la rincuora e il fratello maggiore Jack (Ashton Holmes) le suggerisce come mettere in fuga i mostri notturni: basta accendere la luce, e scompaiono.
Così, tanto tempo prima, ha fatto anche Tom con i suoi propri. È stato solo con la sua coscienza - «nel deserto», gli fa dire la sceneggiatura che Josh Olson ha tratto da un racconto di John Wagner e Vince Locke —, ed è uscito dal buio della sua vita. In questo senso, prima d’ allora la sua è stata una “storia di violenza”, come quelle degli assassini su cui il film si apre. Ora, invece, c’è solo luce in lui e attorno a lui. Così, per qualche minuto, ce lo racconta Cronenberg: come un tranquillo piccolo uomo della provincia americana, in pace con il mondo.
D’altra parte, sono troppo perfette per esser vere, quella luce e quella pace. Sulla loro normalità, poi, incombe l’altra, mostruosa, su cui si apre A History of Violence. Non ci sono indizi di brutalità, nei giorni e nelle notti di Tom, se non è quest’eccesso di serenità e, insieme, quell’eccesso di follia. La regia di Cronenberg non ricorre a ritmi o a fatti esasperati, per creare tensione. Al contrario, si limita a contrapporre i due ‘eccessi”, e 1ascia che siamo noi in platea a sospettare e temere paure nel buio.
Quando poi la violenza irrompe, quando Tom torna a essere quello che è stato, allora tutto avviene all’improvviso. L’esplosione che lo porta a uccidere non ha niente di psicologico”. Non è crudeltà, e non è paura. Si direbbe una questione chimica, una questione che si decide da sé nella profondità del corpo. E infatti la regia la racconta senza lasciarci il tempo di vederla davvero, e nemmeno di spaventarcene. È solo qualcosa che accade, con la brutalità trasparente e assoluta di un puro fatto (e lo stesso accade, appunto, anche a Jack, che si ribella a due suoi compagni che lo tormentano).
Così è, in quel motel e poi nel piccolo ristorante di Tom, anche la violenza dei due assassini: brutale, trasparente, assoluta. La differenza sta nell’atteggiamento, nel giudizio. I primi non ne hanno e non ne formulano. Aderiscono senza emozioni a quella chimica. Tom invece la teme, la condanna, cerca di affrancarsene, e persino di dimenticarsene. Insomma, tenta di far di sé un uomo morale, ossia un individuo della luce e della pace, un individuo della superficie.
C’è qui molto della poetica di Cronenberg, che nel corpo vede le radici profonde e invincibili dell’essere uomini e donne. Non si tratta solo di violenza distruttiva e omicida, ma di una “verità” più ampia e decisiva. E la stessa verità che esplode fra Tom ed Edie, fra i loro corpi. Proprio mentre si affrontano e si fanno del male, all’improvviso l’aggressione reciproca diventa reciproco desiderio e piacere. Allora, niente più possono e soprattutto niente più possono volere per sottrarsi a quel che accade. Si annullano in esso insieme, lo subiscono insieme, e però in esso non si incontrano.
Dal buio, dalla cieca sovranità del corpo, per Tom non c’è altra via d’uscita che un paradosso. Dovrà cedere a quel buio e a quella sovranità, dovrà uccidere senza emozioni. Solo così tornerà ad affrancarsi dalla sua storia di violenza. D’altra parte, in lui è ben viva anche la ricerca di un giudizio morale. Tom sceglie la signoria della sua coscienza, ma la raggiunge solo attraverso il buio di una brutale, trasparente, assoluta violenza. Quello che così riconquista — i suoi giorni tranquilli, in superficie —, è dunque “esposto” alla possibilità che, d’improvviso il buio torni a vincere.
Mentre il film si chiude, lo vediamo riflesso negli sguardi disperati di Tom ed Edie, questo paradosso fatto di muscoli e di carne, pronto a esplodere come un colpo di pistola.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore



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Cerchi di nasconderla, ma è sempre in agguato. E quando pensi di averla vinta, eccola che riappare, come un drago che nessun San Giorgio sarà mai in grado di sconfiggere definitivamente. È la parte selvaggia del nostro Io, la vera protagonista del film di David Cronenberg A History of Violence. Un film che inizia con un’immersione nell’orrore: un lungo piano sequenza accompagnato solo da pochi rumori e dialoghi scarni, mentre, fuori campo accade un’orribile strage. E l’opera di due lupi mascherati da uomini, che girano l’America seminando morte.
Ma non è su di loro che si concentra l’attenzione. Siamo solo al prologo, al piccolo detonatore che sta per fare scoppiare la bomba atomica della vicenda centrale. Una piccola famiglia tranquilla, padre, madre e due figli, uno adolescente, l’altra ancora molto piccola. America felice, che tira avanti lavorando sodo.
Lei fa l’avvocato, lui gestisce una tavola calda. Proprio il locale dove piombano i due loschi liguri incontrati all’inizio. E una rapina, attuata con estrema, selvaggia violenza. Ma come in Cane di paglia, di Sam Peckinpah, l’uomo tranquillo si trasforma, diventa una macchina di morte, stendendo i due assalitori.
Ora è un eroe, tutti guardano a lui come a un modello. Perfino il timido figlio trova il coraggio di ribellarsi alle angherie di due bulletti della scuola, scoprendo in se stesso un’insospettata dose di ferocia. Ma le cose si complicano: com’è possibile che una persona cosi comune sia stata capace di neutralizzare quei due killer assetati di sangue pronti a tutto? C’è forse qualcosa di sconosciuto nel suo passato?
Cronenberg scava, semina gli indizi, ritorna sui suoi temi più amati: l’angoscia di fronte all’altro. Il peso della colpa, la dialettica eterna, e di per sé tragica, tra essere e apparire.
Luigi Paini, Il Sole 24 Ore



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Per l'ennesima volta David Cronenberg, maestro di un cinema angoscioso e disturbante, risponde alla domanda sulla violenza contenuta nei suoi film e sull'eventualità che essa influenzi il comportamento degli spettatori: «Non credo proprio che la gente vada al cinema, veda scene di omicidi e poi esca fuori ad uccidere. Se questo fosse vero, nel mondo non ci sarebbe più nessuno». La verità, dice l'autore, è invece «che la violenza pervade tutti i nostri rapporti, fa parte della nostra natura, si mescola con tutto, a iniziare dal sesso. Credo che la violenza venga fuori dall'impossibilità di vivere la realtà che vorremmo. Nonostante tutti i nostri tentativi di evolverci, anche attaverso la tecnologia, la violenza continua ad essere una malattia universale. Coltiviamo tutti il sogno di dominarla, così come quello di raggiungere la pace nel mondo, ma per ora tutto questo resta un sogno». Ispirato alla «graphic novel» di John Wagner e Vince Locke, A History of Violence mette in scena «una vicenda tipicamente americana, è un po’come un moderno western, in cui un uomo normale è costretto a ricorrere alle armi per difendere la sua famiglia». La sua semplicità, il suo essere, almeno in apparenza, un padre di famiglia come tanti che non vuole diventare un eroe, provoca «nel pubblico un processo immediato di identificazione, aprendo, di conseguenza, degli interrogativi sulla necessità della violenza, sulla possibilità o meno di reagire in modi diversi». Insomma, aggiunge l'autore, anche se la vicenda è collocata in un contesto molto americano, le questioni che apre sono «assolutamente universali». Protagonista della storia, nei panni di Tom Stall, c'è Viggo Mortensen che, dopo essere stato il valoroso Aragorn del Signore degli Anelli, si ritrova a fare i conti con un passato che si ostina a ritornare: «In tutti e due i film, la violenza è una scelta obbligata. In questo caso Tom si trova ad usarla perchè vuole proteggere i suoi affetti, mantenerli lontani e separati da una zona oscura della sua esistenza. Ma più cerca di nascondere quella parte e più questa gli torna davanti, sempre più forte e soprattutto incancellabile. In ogni caso nel film la violenza non viene mai mostrata in una luce attraente». Al fianco di Mortensen c'è l'attrice Maria Bello, nel ruolo della moglie, anche lei coinvolta nel gioco, e in qualche modo attirata dall'escalation di morte e di sangue: «La natura umana è molto complessa, mi piace il modo con cui Cronenberg riesce ad andare fino in fondo, a scavare nei meandri più inconfessabili della nostra personalità». Nel film William Hurt ha un'apparizione breve e folgorante: «Sono una persona che vive in un mondo dove non c'è posto per il perdono, guidata solo da una sorta di bestialità che, in fondo, non è che una forma di difesa nei confronti dell'esistenza». L'intesa tra Hurt e Cronenberg è stata particolarmente soddisfacente: «Sul set sono abituato a fare tutto quello che posso per sostenere la visione del regista. In questo caso le indicazioni di David e anche di Viggo sono state preziose».
Fulvia Caprara, La Stampa



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David Cronenberg, 62 anni, maestro di mutazioni e d'orrore, diceva all'ultimo festival di Cannes che la violenza fa parte della natura umana, che domina tutti i nostri rapporti a cominciare da quelli sessuali, che ogni tentativo di vincere questa malattia universale rimane un sogno, che cercare di dividere gli uomini in violenti e non-violenti è soltanto una slealtà ignorante, un ennesimo modo di discriminazione. Proprio per illustrare queste sue idee, diceva, aveva diretto A History of Violence, una storia di violenza.
Chissà. Il film è tratto da un fumetto di John Wagner e Vince Locke, è un lavoro su commissione, è superamericano ma girato nell'Ontario perchè il regista detesta lavorare negli Stati Uniti e «del resto i miei film sono fisicamente e psicologicamente canadesi», è finanziato dagli americani, gli manca l'impronta di Cronenberg. Eppure è bellissimo: racconta di un criminale mutatosi in onesto commerciante e padre di famiglia che di nuovo ridiventa criminale, di nuovo torna a sembrare onesto.
Viggo Mortensen gestisce un bar nella cittadina di Mellbrook, Indiana. Ha una moglie avvocato, due figli. Vive bene, tranquillo. Un giorno entrano minacciosi nel locale due teppisti; lui li uccide con veloce competenza; la televisione fa di lui un eroe americano, pronto a difendere i suoi clienti e la sua famiglia. Alla televisione lo riconoscono alcuni ceffi che arrivano al locale, lo chiamano insistenti con un altro nome, si ostinano a dire che è un'altra persona, lo assediano: vanno a casa sua, gli portano via un figlio. Lui li uccide; uccide pure il proprio fratello, che è un delinquente, e quattro suoi dipendenti. Poi tutto si ricompone, come se nulla fosse. La piccola famiglia siede a tavola e mangia in silenzio, muta ma unita.
Lietta Tornabuoni, La Stampa



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L’ultimo film di Cronenberg, Spider, derivava da un romanzo di Patrick McGrath riscritto dallo stesso autore ed era così rifinito e perfetto da risultare un poco ovvio, quasi accademico. Come se il grande regista canadese si fosse limitato per una volta a illustrare un testo già interamente espresso sulla pagina.
Tratto da un fumetto di John Wagner, A History of Violence ci riporta invece al cuore del suo lavoro e delle sue ossessioni: l’identità sempre vacillante, la paranoia, il contagio, la minaccia espressa non solo dagli esseri animati ma dai semplici oggetti. Come se solo rielaborando un materiale meno “finito” Cronenberg potesse spalancare gli abissi nascosti sotto la superficie delle realtà più familiari. Già il titolo, ambiguo e sinistro, ci mette in guardia: Una storia di violenza o Una storia della violenza? Il racconto di un caso particolare o la genealogia di un male che riguarda tutti noi?
L’orrore squadrato del prologo dà il “la” a una vicenda costruita a cerchi concentrici. Due brutti ceffi, una spider, una serie di casette basse perdute nel nulla. La strage si è già consumata ma non siamo in un semplice film di genere, anche se Cronenberg lavora su personaggi e atmosfere archetipici. Poco dopo i due assassini capitano nel sonnacchioso bar di provincia di Viggo Mortensen. Ma il pacifico barista riesce a stenderli con riflessi fulminanti e coraggio da eroe. Eroe o killer? Mentre le tv cavalcano il caso facendone una star (e rovinandogli la vita), i dubbi si infittiscono. Forse il tranquillo barista che si infuria se il figlio per una volta ricambia le angherie del bullo della scuola (esagerando un tantino in verità...), non è così pacifico. Anzi, forse non si chiama nemmeno Tom, come moglie e figli credono, ma Joey. Forse quel ceffo sfregiato che un giorno viene a cercarlo nel suo locale (Ed Harris, spaventoso e grandioso), non è un mitomane ma un vero bandito. Forse anche papà Tom era un criminale, di quelli che uccidono tre uomini in due mosse. Ma il bello è che questa scoperta innesca un crescendo di violenze a catena (dopo padre e figlio, anche la moglie...) che Cronenberg mette in scena evitando l’enfasi per concentrarsi invece sul ritmo, sulla sgradevolezza, sulla durezza del segno.
Colpi mortali, volti sfigurati, nessuna coreografia estetizzante degli scontri: malgrado l’ironia il film mette davvero a disagio. Complice un cast perfetto (la metamorfosi non sarebbe così inquietante senza la quieta dolcezza della moglie Maria Bello), in testa il fratello gangster William Hurt col suo strepitoso monologo finale.
La morale (e lo spunto) possono ricordare Niente da nascondere: l’America (l’Occidente) ha la violenza nel Dna, non basta dimenticare per cancellare le colpe dei padri. Se Haneke lavora sull’invisibile e sul vuoto, all’europea, Cronenberg parte dal cinema di genere. Ma i due film, così diversi, affondano le radici nello stesso sentimento tragico del presente.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero



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Grande Cronenberg: fa una specie di B western ma con un soggetto alla Camus: c' è sempre lo straniero in casa. Ispirato a un fumetto, ecco un uomo tranquillo in una piccola città che, molestato da loschi tipi, diventa un brutto ceffo. Era così? Ha doppia personalità? Aspettate la fine, non uscirete tranquilli. L'autore insegue il tema delle identità pericolose, mosche o inseparabili, in una cornice che ne fa risaltare la contemporanea matrice: oggi di sogni siamo sprovvisti, solo incubi. Occhi sulla famiglia: una bella scena padre-figlio da «Legge del Signore», una di violenza sessual-coniugale, la cinica finale tavola imbandita che corona un film tutto doppio, di odio e amore. Va dritto allo spettatore, sembra facile e semplice, ma dentro racchiude tutta la perfidia complessità di Cronenberg. Viggo Mortensen è perfetto per l'ambiguità, mentre due fantastici vilain sono Ed Harris e William Hurt. VOTO: 8,5
Maurizio Porro, Corriere della Sera



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L'uomo David Cronenberg resta di un pessimismo integrale. Cronenberg, il regista, ci fa scoprire di possedere non solo il talento di giocare coi nervi scoperti dello spettatore, ma anche una solida vena di humour. Nero inchiostro, naturalmente.
Tratto da una graphic novel di John Wagner e Vince Locke, A History of Violence inizia come un classico "abuse movie", immarcescibile (e perlopiù reazionaria) formula narrativa dove il buono subisce torti e violenze, poi si ribella ai cattivi che tormentano lui e i suoi cari. Tom Stall gestisce un modesto ristorante in una cittadina della provincia americana. Minacciato da due stranieri, reagisce come un killer: è solo l'inizio di una catena di violenze da cui emergerà il cuore di tenebra di Tom.
Se il plot ricorda vecchi western dove l'eroe in ritiro si ritrova faccia a faccia col proprio passato, Cronenberg fa subito piazza pulita di ogni giustificazionismo per mettere in scena una parabola sulla natura ontologica, genetica della violenza. Ogni tipo di violenza - legittima, sessuale, scolastica, mentale - è descritta con un approccio minuzioso, quasi clinico; cui corrisponde l'estrema precisione di ogni dettaglio della messa in scena, dalle singole inquadrature ai movimenti di macchina, dall'illuminazione al montaggio.
La famiglia del protagonista appare da subito troppo perfetta, troppo ideale, ai limiti del nauseabondo. Quando l'andamento della vicenda, sapientemente raccontata, si ribalta trasformando il buon marito-padre in una spietata macchina da guerra, il film innesca un'escalation di violenza che infetta uno per uno i serafici personaggi: il teen-ager modello si scopre un massacratore di bulli; mamma e papà si accoppiano sulle scale, con molto più impeto di prima (il regista realizza la scena di sesso come una scena di combattimento); allorché, all'inizio del film, facevano all'amore scherzando e vergognandosi un po'.
Cronenberg ci suggerisce che la mostruosità era già insita nella famigliola; solo sonnecchiava, pronta a risvegliarsi all'occasione. Intelligente, spietatamente lucido, bonificato di qualsivoglia elemento romantico, il film pone domande complesse e perfino imbarazzanti.
Roberto Nepoti, La Repubblica
[Modificato da |Painter| 11/06/2010 13:58]
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