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RECENSIONI - Rassegna Stampa/1

Ultimo Aggiornamento: 21/05/2014 10:11
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Sesso: Maschile
21/05/2014 10:06

Rassegna stampa - prime recensioni da Cannes 2014


In Cosmopolis, Robert Pattinson abitava una limousine. Alla sua seconda collaborazione con David Cronenberg, l'attore si mette questa volta al volante, chaffeur che si trova a (ri)portare a Hollywood una Mia Wasikowska che, tra le ville dei divi, ha nascosto un ingombrante segreto. Assieme a loro, la diva interpretata da Julianne Moore, il terapista delle star John Cusack e ancora baby-attori arroganti e fragili, agenti, produttori, e tutto quello che compone il firmamento hollywoodiano.

Perché nelle sua fasi iniziali, quelle nelle quali il regista canadese gioca con insospettabile abilità col registro della commedia, Maps to the Stars sembra una satira a-la-Tom Wolfe di Tinseltown, delle sue dinamiche, dei suoi meccanismi, delle sue meschinità.
Poi, però, qualcosa nel registro del film cambia. E alle pagine di Wolfe, Cronenberg sembra sostituire quelle di Bret Easton Ellis, e la sua Hollywood assomiglia sempre di più a quella del Mulholland Drive di David Lynch, a forza di gelidi e spietati ritratti di ciò che si nasconde dietro le superfici, di fantasmi di bambini morti, di ossessioni incestuose e replicatrici.

Tutti i protagonisti di Maps to the Stars sono legati in maniera ossessiva e perversa al loro passato e al loro portato familiare: ci sono attrici che si dicono molestate dalla madre da piccole, ma che vogliono recitare nel ruolo che fu della genitrice morta prematuramente nel remake di un suo film; ci sono fratelli e sorelle che si sposano fra loro, per gioco o per davvero; ci sono genitori che non vogliono rivedere i loro figli o che da loro dipendono, e figli che vorrebbero dei genitori ma non possono più raggiungerli.

Il cinema e la famiglia. I meccanismi della celebrità e quelli della genitorialità e dell'identità. Sotto lo sguardo sempre più psicanalitico di David Cronenberg, questi due mondi apparentemente lontani sono invece uno satellite dell'altro, una stella binaria nella mappa identitaria di un mondo che appare sempre più ripiegato su sé stesso, autoreferenziale, incapace di fornire modelli devianti o nuovi rispetto a quelli oramai standardizzati.

Il loop infinito di Maps to the Stars, che mescola il riso con la pelle d'oca, tanto è capace di divertire e inquietare, è quello della replicazione (tanto familiare quanto industriale) di ciò che siamo e siamo stati portati a essere; quello di un'identità che non può essere altro che remake, o ennesimo capitolo di una franchise. Sfuggirne, appare impossibile: ne veniamo risucchiati come in un buco nero, dentro al quale ci aspetta solo il nulla, il vuoto, l'assenza.
La morte.
Senza identità, racconta Cronenberg,c'è solo quella.

Federico Gironi, comingsoon.it


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Hollywood. La famiglia Weiss è una delle più abbienti del circondario. Sanford Weiss (John Cusack) è un terapista televisivo di successo che ha tra i suoi clienti i nomi più importanti del jet set, suo figlio tredicenne Benjie (Evan Bird) è già una piccola star delle televisione con un'attitudine a fare il divo già fin troppo esasperata. Sua madre, Cristina Weiss, è invece impegnata a gestire logistica ed economia della rampante carriera del figlio, oramai vera fonte di successo e di denaro della famiglia. Esiste poi anche un'altra figlia, Agatha (Mia Wasikowska), sfregiata da cicatrici di un incidente di tanto tempo addietro che, a insaputa di tutti, è appena tornata in città facendo subito amicizia con un avvenente autista di limousine (Robert Pattinson) e diventando assistente personale di Havana Seagrand (Julianne Moore). Quest'ultima è un'attrice non più così giovane che vive nella speranza di poter interpretare il ruolo della sua vita: quello che fu della madre (celebre diva) in un famoso film del passato. E mentre la possibilità di non ottenere la parte si fa sempre più concreta mandando Havana in un vero e proprio corto circuito esistenziale, gli incubi della donna sono resi ancor più oscuri dalla presenza del fantasma della madre che sembra continuare a infierire su di lei. Una manciata di vite che ruotano tutte attorno all'apparente luccichio di Hollywood ma che sono in realtà tutte popolate da fantasmi vari e che nascondo turbamenti e traumi che non potranno in alcun modo esser sanati dalla disperata corsa al successo, ai soldi, all'immagine. Tutti elementi effimeri che prima o poi svaniranno definitamente (proprio come i tanti fantasmi che sembrano popolare le vite dei protagonisti) lasciando invece allo scoperto lo scheletro di esistenze ugualmente superficiali - o interrotte - senza alcun fondamento di vita solido.

Più che mappe, labirinti

Dopo Cosmopolis, David Cronenberg riparte da una Limousine, inquadrata come simbolo di sfarzo, di quel lusso anonimo che ben rappresenta la superficialità del successo, la società dell'apparenza. Su sceneggiatura di Bruce Wagner e con il supporto di un cast davvero ricco che annovera (tra gli altri) Robert Pattinson, Mia Wasikowska, John Cusack, Julianne Moore, Cronenberg sceglie in Maps to the stars di infilare la via della decostruzione del successo, del sistema hollywoodiano (ma non solo), di tutto ciò che viaggia in superficie senza raggiunger mai il centro reale, la sostanza delle cose. Ecco, è forse proprio inseguendo questo perimetro concettuale che il regista visionario si perde, lasciando che il suo film faccia un po' la stessa evoluzione dell'assunto che lo determina. I traumi, gli orrori, gli enormi scheletri fanno qui da impalcatura a un'architettura filmica che lancia tanti fili ma non riesce ad annodarne quasi nessuno. E mentre lo star system si sgretola sotta il peso dell'enorme compromesso che lo rende possibile, anche il film di Cronenberg, nonostante la compostezza estetica dell'opera e gli input apportati da un cast generalmente valido, tende a seguire una parabola di circonvoluzione un fine a sé stessa. Gli incastri formali della narrazione non trovano infatti una loro controparte all'interno dello sviluppo dei contenuti e l'intrigo oscuro ma ‘costruttivo' conosciuto in altri celebri lavori del regista (Crash, A History of Violence, La promessa dell'assassino) sembra ridursi a mero pretesto narrativo. Il barone venereo al sangue sembra aver perso qui parecchia della linfa vitale che animava le sue opere, mentre il suo Maps to the stars veleggia inesorabilmente verso un 'pastiche' di immagini e proiezioni mentali che sommandosi lungo la via non raggiungono mai un vero e proprio risultato.

Commento finale

David Cronenberg presenta in concorso al Festival di Cannes 2014 il suo ultimo, attesissimo film Maps to the stars, una sorta di ruota panoramica sulle oscurità, gli orrori e lo status fallimentare dell’apparenza che genera il sistema hollywoodiano (a sua volta metafora della più ampia società dell’immagine e dell'apparenza). Un ingranaggio che aspira a essere sofisticato ma che risulta infine superficiale, incapace di andare a fondo nella genesi della deflagrazione ma limitandosi piuttosto a descriverne i parziali (a tratti anche un po’ confusionari) esiti.

Elena Pedoto, everyeye.it


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Fin dai suoi primi film sappiamo che il regista canadese David Cronenberg mette in scena una pericolosa e a volte azzardata ricerca nelle più stravaganti forme della malata psicologia dell’uomo. E sappiamo anche che ha saputo farlo con una geniale follia che ha dato vita a straordinari film come Crash (vincitore del premio della giuria a Cannes, 1996) o A History of Violence (2005).

Ma sappiamo anche che a volte lo stile di Cronenberg può portarlo a prodotti più insicuri, come nel caso di Maps to the Stars, presentato ieri alla 67° edizione del festival di Cannes.

Il film ruota attorno alle vicende di alcune stars di Hollywood: un teen-idol tredicenne con una tossicodipendenza alle spalle, suo padre, psicoterapeuta dei divi (John Cusack), un’attrice che aspira a interpretare la madre in un film (Julianne Moore), la sua nuova misteriosa assistente (Mia Wasikowksa) e l’intraprendente tassista di limousine (Robert Pattinson). Quasi tutti sono più o meno estrosamente all’apice di una schizofrenia tenuta a bada da svariate pillole antidepressive. Ad amalgamare il tutto vi sono una buona dose di allucinazioni che tormentano i personaggi. Ma Cronenberg non sembra voler osare troppo, tiene sempre a freno le situazioni anche nei loro risvolti più assurdi, creando una atmosfera in cui convivono raltà e incubo non del tutto convincente.

La ambientazione hollywoodiana rimane però molto chiusa in se stessa, evitando anche quella forma di narrazione tra assurdo e metaforico che rendeva più interessante il suo ultimo film, Cosmopolis. Lo sceneggiatore Bruce Wagner ripesca sottotrame dai vecchi film del regista, che in questo modo purtroppo finisce per risultare un po’ allievo di se stesso.

Il film ha indiscutibili punti forti, più sul versante comico che su quello drammatico, con un cast d’eccezione che sorregge molto la storia. Però, ad un autore del calibro di David Cronenberg, che ha sconvolto molto con i suoi film e che speriamo continui a farlo, è lecito chiedere qualcosa di più.

Enrico Baraldi, cinefilos.it


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Il firmamento delle stelle di Hollywood non è brillante come sembra e gli scheletri nell’armadio sono forse ancora più imponenti dei sogni nel cassetto che, a loro volta, di tanto in tanto si trasformano in incubi.

Di film che hanno parlato del lato oscuro di Hollywood ne è piena la cinematografia da Il viale del tramonto, passando per Come eravamo fino ad arrivare al più recente The Canyons. Ad alimentare questo genere di lungometraggi che svela senza inutili abbellimenti la ferocia celata dietro dietro la luccicante vita delle stars o delle aspiranti tali arriva anche l’eccellente cineasta David Cronenberg che con Maps To The Stars dice la sua su questo mondo.

Cronenberg entra nelle viscere del firmamento hollywoodiano raccontando gli indicibili segreti dei suoi protagonisti, descrivendo la supponenza dei giovani attori troppo piccoli e fragili per poter sopportare il peso della fama, le incoerenze degli agenti e dei produttori e la psicologia malata di chi in questo mare azzurro eppure melmoso ci sguazza e ci sopravvive a suon di terapia.

Un cast eccellente che vede tra gli altri un Robert Pattinson più espressivo del solito, un sempre bravo John Cusack e una Julianne Moore in splendida forma dà vita a un lungometraggio che si divide in due registri narrativi partendo con toni quasi comici per poi svelare la sua vera natura drammatica.

L’ossessione per il passato e per i legami familiari che tentano di essere strappati ma poi vengono ricuciti nel più malato dei modi è alla base di questo film che racconta i meccanismi del successo e allo stesso tempo psicanalizza, come solo Cronenberg sa fare, il concetto di ricerca di identità.

L’essere e l’apparire si confrontano e si scontrano in un racconto che forse non è del tutto nuovo ma che il cineasta personalizza a suo modo rendendo l’holliwoodiano paese dei belocchi inquietante specchio dell’umanità intera.

Sandra Martone, filmforlife.org


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Storia di una famiglia ordinaria nella Hollywood del secolo XXI. Ma non solo l'industria cinematografica in questa libera, coraggiosa e dunque pedante satira a tutto tondo di David Cronenberg. Maps to the Stars opera la svolta al Festival, in un modo o nell'altro

By the power of the word
I regain my life
I was born to know you
And to name you


Siamo da qualche parte nella prima metà del '900, quando Paul Éluard scrive Liberty, una poesia di cui poco sopra vi abbiamo riportato giusto gli ultimi versi. La stessa con cui David Cronenberg chiude Maps to the Stars, un film allucinante. Qualcosa di fresco, inedito, anche internamente al percorso del regista canadese, che il rischio praticamente lo adora. Questa sua ultima fatica non fa che confermare l'instancabile ricerca di Cronenberg, il suo fermo desiderio di spingersi sempre più oltre, senza però mai mollare la presa di un cinema che nonostante tutto rimane riconoscibilissimo.

Questo per rispondere indirettamente alle critiche di certi cronenberghiani della prima ora, che si sentono delusi, traditi come da un padre modello che è andato a letto con una ragazzina del liceo, la stessa magari per cui avevano una cotta. Il diretto interessato ha sempre lasciato correre, al tempo stesso manifestando diffidenza verso un fenomeno, il presunto tradimento, che a suo parere non esiste. Ma ci sono delle attenuanti, questo è certo. Perché se il cinema di Cronenberg non è cambiato, senz'altro si è evoluto; resta da discutere se le varie direzioni di volta in volta intraprese fossero quelle sperate o meno. Altro non-problema ad avviso di chi scrive.

Solo alla luce della libertà nonché del coraggio di un cineasta come lui sono concepibili film come Maps to the Stars. Piaccia o meno. Una diagnosi appassionata ed entro una certa misura appassionante, che muove dalla satira finendo col trascenderla. Torniamo alla poesia di Éluard. Cronenberg adora cavalcare i codici, servirsene a proprio piacimento per arrivare esattamente al proprio scopo. Cosmopolis si apriva su delle macchie di Rothko che scorrevano per l'appunto sui titoli di testa; in Maps to the Stars il film si chiude sui versi di Liberty. Pittura e poesia, due arti differenti poste in maniera speculare.

Ad un'occhiata un po' superficiale tutto ciò potrebbe dire poco o addirittura nulla, ma per il regista è essenziale far fondo a discipline esterne al cinema per informarci di altro, per offrirci delle chiavi ulteriori. Non solo. Soprattutto per fare il punto della situazione circa quale sia la pista da seguire, il leitmotiv più indicato. In Cosmopolis l'indecidibilità della forme, la loro dissoluzione allo stadio terminale (e fin qui, lo scrivemmo già all'epoca, tanto Cronenberg); in Maps to the Stars l'assoluta e irrinunciabile urgenza di sottrarsi alla schiavitù di un ambiente perversamente circolare.

Hollywood in tal senso non è che un pretesto, così come buona parte di ciò che quest'ultimo film manifesta in superficie. A parer nostro è bene sottolineare quanto appena rilevato, perché tanti sembrano aver preferito la lettura più immediata, forse privando il film di una profondità ulteriore. Perché il discorso parte sì da un epicentro, che è Los Angeles, ma per poi diramarsi verso aree ben più estese, frutto di una mappatura che è anche geografica ma non solo. Credere che tutto si fermi ad Hollywood equivarrebbe a dire che in Cosmopolis tutto restasse confinato a Wall Street. Solo che mentre in quest'ultimo film Pattinson-Eric a più riprese dichiara esplicitamente che quanto avviene in quella limousine condiziona il sistema-mondo, in Maps to the Stars certe conferme vanno invece lette tra le righe. Quando Benjie va a trovare la ragazzina malata in ospedale, la mette al corrente degli incassi del film che lo ha reso celebre, Bad Babysitter (di cui è in lavorazione un sequel); una cifra oltremodo notevole che implica una diffusione tale da giustificarla.

Ancora una volta Cronenberg viola i corpi, mostrandoci che la mutazione fisica è solo uno dei processi attraverso il quale si sostanzia tale violazione. La diffusione di cui all'ambiente di Maps to the Stars riguarda un male oramai fuori controllo, impazzito, al cui ceppo è impossibile risalire. I suoi personaggi non sono altro che portatori sani, alieni in un mondo di terrestri senza più punti di riferimento. Per questo le "mappe verso le stelle" di cui al titolo sono tante, perché tanti sono i sentieri attraverso i quali ci raggiungono o vengono raggiunte.

Abbiamo temporeggiato il più possibile prima di soffermarci sulla trama, ma a quanto pare è giunta l'ora. La famiglia Weiss vive in una lussuosa e scintillante abitazione nei pressi di Hollywood. Il padre, Stafford (John Cusack) è un ciarlatano travestito da psicologo televisivo, peraltro molto seguito. La madre, Cristina, è una donna estremamente ambiziosa, sebbene a spese del figlio Benjie, che appena tredicenne guadagna già un pozzo di soldi, dà del «finocchio ebreo» ad uno dei suoi agenti ed ha già una scabrosa storia di dipendenza da droga alle spalle, dalla quale sembra però essersi ripreso. La sorella, Agatha (Mia Wasikowska), è tornata Los Angeles dopo un soggiorno su Jupiter, anzi a Jupiter, Florida. Ed è decisa più che mai a sfondare a Hollywood. Qui conosce l'instabile Havana (Julianne Moore), diva in declino, figlia di diva ancora più grande, alla spasmodica ricerca del copione definitivo, quello della svolta. Alla combriccola si aggiunge Jerome (Robert Pattinson) aspirante attore e sceneggiatore che fa l'autista di limousine per sbancare il lunario - le stesse limousine di cui, in Cosmopolis, si chiedeva che fine facessero la sera, altro giochino cronenberghiano.

Il contesto di Maps to the Stars appare capovolto: i vivi scompaiono mentre i defunti non fanno altro che apparire. Non si fa che parlare di questo o quel personaggio, di quanto abbia grosso il sedere (metaforicamente e non), di serie TV, film, progetti in cantiere e pubbliche relazioni di ogni genere. Tutti appaiono soffocati da un ambiente in cui certe cose si respirano, volente o nolente. E ciascuno vuole la propria parte. Solo quando Agatha comincia a domandarsi il perché di quelle ambizioni, quando comincia a testarne la portata, solo allora sembra voler cambiare rotta. Ma è un processo ermetico, sottocutaneo, che Cronenberg si sforza semmai di dissimulare anziché spiattellarcelo in faccia.

Ecco allora l'andamento costantemente canzonatorio, l'ironia a tratti pedante, il sarcasmo che permeano l'intero film, che sotto tale aspetto risulta alquanto spassoso, salvo non cogliere la cospicua mole di riferimenti reali e citazioni. In mezzo a tutto ciò, il regista canadese va silenziosamente somministrando una serie di colpi che lasciano stesi. L'incesto, per esempio, è una tematica di primo piano, che va senz'altro letta anzitutto in relazione ad Hollywood, che non fa altro che strusciarsi languidamente con ciò che era un tempo, in questo perverso incesto generazionale che non guarda in faccia nessuno. Poi, dal generale, Cronenberg si sposta con una disinvoltura incredibile, per quanto incisiva, sul particolare, lasciando che Havana riceva la stessa parte recitata in passato dalla madre. È la mania del remake, che ad Hollywood vuol dire trarre profitto da e su una creazione preesistente, mentre a livello umano significa danzare sulle carcasse dei morti, recitando incantesimi che sarebbe meglio non pronunciare. Devastanti le dichiarazioni di Havana, che eppure ci vengono sottoposte en passant, quasi non contassero: l'intervistatore la presenta, ma essendosi dimenticato un dettaglio importante, Havana sfoggia il suo sorriso dicendo: «hanno anche abusato di me sessualmente da piccola». Più avanti, alla domanda: «come ti senti a recitare il ruolo che recitò tua madre?», con altrettanta, rarefatta innocenza esclama: «è un'opportunità che andrebbe concessa a tutti». Brividi.

Opera estremamente stratificata, risulta pressoché impossibile intercettare tutto dopo una sola visione. Cronenberg ci consegna un film imperfetto ma suo modo compiuto. Complesso, certo, ma al tempo stesso sorprendentemente ordinato. Parliamo di uno dei pochi registi che fanno film da così tanto tempo a non essersi fossilizzato, sempre bramoso di nuove sfide senza mai abiurare alla propria, distinta personalità, oltre che con un disincanto decisamente in linea coi tempi. Maps to the Stars non fa altro che riempirci e svuotarci innescando shock continui, reiterati. E poi quel finale, che solo solo tra noi della redazione abbiamo recepito in maniera diametralmente opposta, concordando però sulla sua eleganza. Un film che punta alla testa prima che allo stomaco, ma che funziona nella misura in cui ci opprime con la sua pesante, consapevole e appiccicosa artificialità, sempre a cavallo tra realtà e finzione. Così la pessima qualità della computer grafica nella scena del piccolo "incendio", diventa l'ennesima conferma, la più vivida probabilmente, di un regista che non trasforma il disprezzo in mero rifiuto, sublimando la sua più che legittima e giustificata intolleranza attraverso i mezzi che ha a disposizione. Cos'altro significa fare Arte?

Antonio Maria Abate, cineblog.it


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Il cinema americano ha una solida tradizione di critica di Hollywood in forma di commedia grottesca, Maps to the stars gira da quelle parti ma non è il caso. Esiste del resto anche un vero e proprio genere che è la commedia surreale in cui si ride di eventi al limite del senza senso, un po' come avviene in Maps to the stars ma non è comunque il suo caso. Infine l'arrivo sulle scene di David Lynch negli anni '80 ha causato l'ermegere di una scena particolare anche in America, in cui non è la logica degli eventi a tirare il film ma più le sensazioni delle singole inquadrature, Maps to the stars ricorre a simili espedienti, ma non è comunque assimilabile a quel filone.

Un po' tutto ma soprattutto niente, tagliato, recitato e fotografato come Cosmopolis, il nuovo film di David Cronenberg non ricerca la narrazione metaforica come in quel caso ma poco ci manca.

Maps to the stars è una storia corale che sembra guardare ad Altman per la scelta dei caratteri ma priva del mordente e del montaggio incalzante di quei film, anzi cerca sempre di acquietare tutto, cosparge ogni scena di una luce quasi invadente che rende tutto chiaro e limpido in opposizione ad eventi oscuri e comportamenti misteriosi. Ci sono diversi personaggi occupati da lavori ridicoli o grotteschi nei loro atteggiamenti che subiscono sulla propria pelle una serie di eventi che starebbero bene nei film hollywoodiani cui lavorano. Attraverso i loro problemi mentali che, come in tutti i film di Cronenberg, sono colti nel loro peggiorare si dovrebbe parlare di Hollywood (del resto lo sceneggiatore Bruce Wagner è in questo che è specializzato, nella satira delle classi alte losangeline) ma non riesce mai ad usare l'argomento per uscire da quella piccola cerchia, cioè quel mondo non riesce mai a farsi interprete di questioni universali rimanendo anzi legato a questioni proprie solo di chi ha quella vita.

C'è una piacevole assurdità e in alcuni casi dei colpi di scena che fanno assomigliare il film a qualcosa scritto da Bret Easton Ellis ma ancora, nonostante i molti stimoli, Maps to the stars è più un film che arranca incapace di parlare forte come invece alcune impennate sembrano desiderare, snob e arroccato in un linguaggio difficile dietro al quale non si scorge mai un vero senso.

Non siamo certo dalle parti della messa in scena sobria ma manca totalmente quella forza cronenberghiana che riesce a tramutare tutto in un trauma, che scova anche nei momenti più impensabili il risvolto più impressionante. A differenza del passato qui non c'è quella volontà di affiancare alla trama la difficoltà che ha un essere umano (cioè un essere deperibile fatto di carne molla) nel viverla. Come Cosmopolis sembra di essere di fronte ad un'alta riflessione che non arriva mai, si ha l'impressione che Cronenberg fosse animato dagli stimoli più eccelsi ma non se ne ha mai conferma, si vede solo un continuo correre del film appresso a personaggi e situazioni per nulla interessanti.

Gabriele Niola, badtste.it


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L’unico momento memorabile di Maps To The Stars è posto all’inizio, quando si scopre che Robert Pattinson, colui che in Cosmopolis, precedente film di David Cronenberg, girava per New York sui sedili posteriori della sua limousine, qui interpreta uno chauffeur che porta in giro le star. Trattasi di scelta di casting, non certo di sceneggiatura o regia. E questo la dice lunga sul grado di ispirazione del cineasta canadese che per raccontare le storture e gli eccessi di Hollywood e dintorni pesca qua e là dalla sua filmografia passata copiando di fatto sé stesso (anche se la sceneggiatura non è sua, ma di Bruce Wagner). Non si tratta di un film noioso, anzi, la proiezione è godibile (la tensione sale gradualmente nel corso della storia) e rispetto a Cosmopolis siamo finalmente tornati all’interno di un universo che Cronenberg sa maneggiare bene (del resto è il suo). Manca però il guizzo, quel passo in avanti che attendiamo da La Promessa dell’Assassino (2007), vero suo ultimo grande film.

La trama. Siamo a Los Angeles dove seguiamo le vicende di un celebre fisioterapista televisivo, di suo figlio baby star del cinema, di un’attrice figlia d’arte ossessionata dal fantasma della madre e di una ragazza appena arrivata in California con il viso deturpato da un’ustione di cui è rimasta vittima da giovanissima. Sono vite in qualche modo incrociate le une alle altre, alcune da un segreto, altre da semplici rapporti professionali. In ogni caso sono tutte persone toccate da eventi accaduti in passato, misteri che improvvisamente ritornano ad affollargli la mente come degli incubi.

Molto vicino, se non vicinissimo, a Inseparabili (solo che qui non si parla di gemelli), con evocazioni varie da Crash (la deturpazione) e Spider (il malsano e morboso rapporto tra genitori e figli), Maps to the Stars utilizza l’ambientazione hollwyoodiana (ripresa anche nel titolo) più come un pretesto narrativo che come cuore vitale del racconto. Non è il mondo del cinema causare gli eccessi vissuti dai vari personaggi, ma relazioni che non dovevano continuare e abusi che avrebbero segnato negativamente l’infanzia di chiunque. Nulla da dire sul cast: da Julianne Moore a Mia Wasikowska passando per John Cusack e la giovane rivelazione Evan Bird tutti risultano adatti e in parte. Piccola nota a parte per Sarah Gadon, qui nei panni di un fantasma, una piccola interpretazione che conferma come Cronenberg ne voglia fare una sua musa (era sia in A Dangerous Method che in Cosmopolis che in Antiviral del figlio Brandon).

Andrea D'Addio, screenweek.it


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Maps to the Stars prosegue il percorso evolutivo di Cronenberg e prende di mira il mondo dello spettacolo americano con una satira a tratti feroce che, però, non riesce ad andare fino in fondo.

Ci sono registi che hanno sempre qualcosa da dire su quello che li circonda. Autori che sanno osservare il mondo e riprodurlo attraverso il proprio personale sguardo deformante. Uno di loro è senza dubbio David Cronenberg, da sempre capace di offrire la sua interpretazione di quello che il contesto in cui operava offriva al momento, da Videodrome a Cosmopolis.

E certamente la distanza tra questi due titoli è enorme, se non nella capacità di analisi, nell'approccio ad essa: l'autore canadese si è allontanato dalla visionaria, trasgressiva e filosofica costruzione dei primi tempi, adottando uno stile narrativo più asciutto e realistico che ha portato a lavori distanti da quelli del passato, ma non meno efficaci. Un percorso che prosegue anche nel nuovo progetto, presentato in concorso all'edizione 2014 del Festival di Cannes a pochi giorni dall'uscita anche nelle sale italiane. Parliamo di Maps to the Stars.

La donna da Giove

Motore del film è Agatha Weiss, di ritorno a Los Angeles da Jupiter, Florida. Segnata da ustioni sul viso e le braccia, costantemente coperte da lunghi guanti, il personaggio di Mia Wasikowska inizia il suo percorso nel contesto californiano nella limousine a noleggio guidata dall'outsider Jerome Fontana, un Robert Pattinson che rispetto al precedente Cosmopolis resta relegato per lo più all'interno dell'auto, ma passa dietro il volante. La storia di Agatha è il collante per una serie di personaggio di contorno ed è subito chiaro il collegamento più o meno forte della ragazza con ognuno di loro: il fratello minore Benjie, l'adolescente più desiderato dai produttori di Hollywood per il suo successo, gestito con cinica brama di potere dalla madre (Olivia Williams) ed il padre, autorità nel campo del self-help (John Cusack). C'è poi Havana Segrand (Julianne Moore), attrice di discendenza importante, la cui madre è morta in un incendio e continua ad infestare la sua vita in spettrali visioni e per la quale Agatha inizia a lavorare come assistente personale tramite la conoscenza comune di Carrie Fisher (l'unico cameo del film).

Il pazzo mondo dello showbusiness

Con tali premesse è evidente che con Maps to the Stars Cronenberg prenda di mira il mondo dello spettacolo in quanto industria, usandolo come cassa di risonanza di alcuni problemi ben più ampi della società in cui viviamo. Lo fa partendo da uno script di Bruce Wagner, scritto venti anni fa quando l'autore lavorava come conducente di limousine, che racconta in modo satirico i vizi dello showbusiness. Il film è infatti quanto di più vicino alla commedia sia presente nella lunga filmografia di Cronenberg e non manca di fornire battute al vetriolo sui retroscena e le abitudini del contesto in cui si muove. È un'ironia che però solo raramente affonda il colpo e lo fa soprattutto attraverso il personaggio del giovane Benjie, puntando l'indice sulle giovani star di Hollywood, la loro insopportabile arroganza ed il loro sfruttamento. Una figura a cui fa da contraltare la non più giovane Havana, che lotta per mantenere il suo stato e festeggia il dramma vissuto da una collega a cui può rubare la parte, in una delle sequenze riuscite del film.

Su e giù per Beverly Hills

Cronenberg gira a Beverly Hills ed alcuni luoghi sono riconoscibili, ma dà del posto e dell'ambiente un'immagine diversa dal solito, dove il glamour trova poco spazio. Nei suoi ironici spostamenti tra gli aspetti della vita hollywoodiana, l'autore non riesce a dare unità al progetto e questo accade perché la parte più debole del film è proprio quella di Agatha che dovrebbe fungere da filo conduttore: la sua storyline si sviluppa lentamente e, benché ne sia chiara la direzione, assume interesse e mordente solo nella seconda parte della pellicola. Per questo in un film che è un po' commedia e un po' dramma familiare, con una spruzzata di ghost story e derive onirico-spettrali (alcune delle quali hanno il volto affascinante di Sarah Gadon), il regista manca di dare coesione al tutto e lascia che ad emergere siano i singoli momenti più che l'insieme, affidandosi alla bravura della solita Julianne Moore e del giovanissino Evan Bird per offrire allo spettatore le sequenze più efficaci e riuscite.

Conclusione

Maps to the Stars prosegue il percorso evolutivo di Cronenberg e prende di mira il mondo dello spettacolo americano con una satira a tratti feroce che, però, non riesce ad andare fino in fondo e spicca nei momenti di contorno di una storia principale senza troppo mordente.

Antonio Cuomo, movieplayer.it


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Una commedia nera su Hollywood. Con baby divi psicopatici, terapeuti smargniffoni e sporcaccioni, dive pronte a passare ui cadaveri per una parte, agenti che vendono al prezzo più alto la loro carne umana. E assassini, incesti, sozzerie e turpitudini varie. Una Hollywood freak. Solo che Cronenberg non ha proprio il dono naturale della commedia grottesca. Non all’altezza del suo Cosmopolis dello scorso Cannes. Voto 6+

Ma perché sul sito ufficiale del festival non c’è il pressbook di Maps to the Stars come per gli altri film? Non era pronto? Non si son voluto fare rivelazioni per sfruttare l’effetto sorpresa? Volevo verificare se questo bizzarro oggetto cinematografico – bizzaro anche per un autore non certo medio come Cronenberg – fosse tratto da un qualche romanzo, invece zero informazioni. Dai credits finali (mi riferisco alla proiezione stampa di domenica sera delle 19.00, in una Salle Debussy gremita) mi pareva di ricordare di no, che la sceneggiatura fosse originale. Difatti andando poi a rovistare sui soliti benedetti siti americani – che Dio ce li conservi – ho scoperto che lo script è di un tizio che vi ha riversato la sua lung esperienza come driver di limousine per celebrities a Hollywood. Solo che nessuno ne ha mai tratto un film per vent’anni. Perché il massimo regista canadese (non se la prendano Egoyan, Arcand, Villeneuve) abbia deciso di farlo lui, adesso, e di metterci la faccia, è cosa abbastanza inspiegabile. No, non per certe scene tipo Julianne Moore che fa pipì e pupù (e giustamente Paola Jacobbi parla di transito intestinale come uno dei massimi trend del festival) e poi si lamenta della puzze. Non per qualche grevità scopereccia. No, è che questa black commedia con scivolamenti nel dark non mi è parsa congeniale a Cronenberg, che è sì tipo tosto, disturbante e perturbante, e per niente timoroso di addentrarsi nel laido e nel sordido, però non così dotato del senso del grottesco, dell’humor cupissimo di cui è invece ampiamente provvisto, tanto per stare all’oggi, un Ben Wheatley. Maps to the Stars trattasi infatti di commedia con personaggi demenziali, dementi, variamente pervertiti, fuori di testa, sciroccati, spesso pericolosi per sé e gli altri. All’inizio sembra l’ennesima satira su Hollywood Babilonia come se ne son viste tante, solo più estrema, e con qua e là strane consonanze con The Canyons di Paul Schrader-Bret Easton Ellis. Ma diventa poi uno psicodramma familiare e uno screwball comedy però schizzata, sporcacciona, morbosa e assassina. Con una galleria di personaggi che son fuori come un balcone, fallati dentro e anche fuori, una sfilata di mostri sottoforma di abitanti e lavoranti nella Mecca del cinema. Il solo a salvarsi, il solo vagamente umano, è il tassista aspirante attore e sceneggiatore, evidente alter ego dell’autore del copione (lo interpreta un Robert Pattinson bravo e assai amabile, tornato a lavorare con il suo mentore Cronenberg dopo Cosmopolis). Il quale – è la scena d’apertura – carica una ragazza venuta dalla Florida ansiosa di entrare nel mondo delle celebrites. Ha conosciuto su Twitter Carrie Fischer ed è riuscita a farsi invitare da lei a Hollywood come assistente alla stesura del suo nuovo romanzo (a proposito, Carrie Fischer comparirà di lì a poco in una breve scena nella parte di se stessa, ed è un’apparizione sconvolgente per chi, come me, si ostina a ricordarla come principessa Leila di Star Wars). Scopriremo che la ragazza è sfuggita anni prima a un incendio, di cui le son rimaste addosso ustioni dappertutto, ed è per questo che se ne va in giro con guanti neri oltre il gomito, alla Gilda, e calze coprenti (è Mia Wasikowska). Man mano Cronenberg ci introduce agli altri personaggi-freaks di questa sua demolitiva satira. Una star che si sta dannando per interpretare in un remake il ruolo che era stato della madre, una madre che aveva abusato di lei bambina. Il suo strano terapeuta, fisioterapista-manipolatore-massaggiatore, che con il pretesto di tirarle fuori ‘quel che di brutto ha dentro’ la toccaccia dappertutto, zone intime comprese (lei è Julianne Moore in versione biondo-trash, lui il solito demoniaco John Cusack). Il figlio quattordicenne del suddetto terapeuta che a 7 era già un divo multimilionario in dollari, poi caduto in varie addiction, adesso disintossicato, clean, e in procinto di girare il sequel del suo film di maggior successo. Già protervo, violento, cinico, calcolatore, manipolatore, come e peggio dei caimani che allignano nelle acque melmose della città del cinema. Le figure della commediaccia son pronte, e ne vedremo di ogni. Fino alla scoperta che il nucleo psicotico di tutta la narrazione, e il suo motore primo, è un doppio incesto. Cronenberg ci dà dentro con parecchio cinismo a mostrificare e a mostrarci una galleria di repellenti figuri, esagerando e ancora esagerando (ci sono anche bambini che uccidono bambini), ma si vede che non è il suo business, dà pure l’impressione di non essere molto interessato a quanto racconta, e solo in alcuni momenti (la scena finale, per esempio) trapela un qualchecosa che somiglia alla partecipazione. Rispetto al pur discusso Cosmopolis visto l’anno scorso qui a Cannes, un passo indietro. Forse Cronenberg, dopo quel film saturo di parole e gravi e grevi riflessioni, ha voluto abbandonarsi al pop, con qulche consapevole deriva camp (il personaggio di Julianne Moore ne è un monumento, non del tutto riuscito). Ma l’operazione resta a metà, e anche un po’ sotto.

Luigi Locatelli, nuovocinemalocatelli.com


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Pattinson guida la limo, Cronenberg non trova la strada: in Concorso a Cannes, con effetto déjà-vu

C’è una megastar à la Justin Bieber, il 13enne Benjie (Evan Bird), appena uscita dal rehab dopo una lunga serie tv di successo e 780 milioni di dollari incassati dal suo ultimo film: manda a quel paese il suo agente, chiede “come va l’AIDS?” a una sua piccola fan malata di cancro, uno stronzetto fatto e finito. Che ha famiglia: la madre Christina lo amministra, il padre, Sanford Weiss (John Cusack), è un guru dell’autoaiuto con libri e strisce tv – vizio di famiglia? - di grande successo. Non solo, Sanford fa anche da terapista a una star piagata dal ricordo della madre bruciata in un incendio e, soprattutto, dagli anni che passano e la rendono meno appetibile: Havana Segrand (Julianne Moore), che – complice Carrie Fisher – fa di Agatha (Mia Wasikowska), appena arrivata a Hollywood, la sua assistente personale. Agatha ha guanti lunghi ed ustioni sul viso, e seduce l’autista di limo e aspirante attore/sceneggiatore Jerome Fontana (Robert Pattinson).
Questi i personaggi, ma il protagonista è un altro: Hollywood oggi, patria di nevrosi, paranoie vane ed eventuali, ossessioni, invidia e gelosie, con l’incesto dietro la cortina di fumo. Hollywood dispensa sogni, soprattutto incubi e visioni a occhi aperti: da Havana a Benjie, ognuno ha i propri privati fantasmi, la propria spettrale dipendenza, una stella nera sulla cartografia celeste di Hollywood.
In Concorso a Cannes, e nelle sale italiane dal 21 maggio, è Maps to the Stars di David Cronenberg, realizzato dalla sceneggiatura originale di Bruce Wagner, uno abituato a raccontare il dark side di Hollywood. Scrivendo per il cinema, non cambia focus né registro: un collage con un vago sentore di Magnolia, fratture di The Canyons, tessere - malamente - lynchane, echi breteastonellisiani, che si installa nella lunga teoria di film – critici – sulla Mecca del cinema. Ma che posto ha Maps to the Stars? Non al sole, tutt’altro: se gli interpreti – strepitosa la Moore, da schiaffi (in positivo) Evan Bird, tosta la Wasikowska – se la cavano bene, se più di qualche battuta va a segno, la sensazione è di irritazione, e non per la storia ma per il racconto. Cronenberg non tiene la barra, approccia più registri senza una chiara direzione, annacqua la critica, la satira su Hollywood nell’iperbole, nel “troppo stroppia”, seguendo un fil rouge incestuoso pretestuoso, pleonastico, titillando dall'inizio alla fine il voyeurismo dello spetattore per le celebrities.
Forse, e parliamo in primis della sceneggiatura, bisogna essere un Jerome Fontana per scrivere (dirigere) questo film, Bruce Wagner ce l’ha fatta a divenire qualcuno, e per l’autenticità, la profondità e l’acume di Maps non è un bene. Il compiacimento è esibito, soprattutto vacuo: se Pattinson, l’abbiamo capito, cerca la fuga da Twilight guidando un’altra limo dopo Cosmopolis, Maps non sa dove andare, né chi prendere a bordo. Meglio soli che male accompagnati, forse, vale anche a Hollywood, di certo vale per gli spettatori di questo film: chi può, aiuti Cronenberg a ritrovare la mappa del tesoro. Quello del suo cinema che fu.

Federico Pontiggia, cinematografo.it


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Il fascino del disgusto nel miglior Cronenberg dai tempi di A History of Violence

La città degli angeli. Caduti. L'apocalisse comincia proprio da Hollywood Blvd nel nuovo film di David Cronenberg. Sfilacciato ma potente, enigmatico ma ipnotico, disgustoso e affascinante.
La Los Angeles di Cronenberg non ha la magia onirica del genio di David Lynch, eppure quest'ultimo lavoro del regista canadese potrebbe essere una perfetta “companion piece” di Mulholland Drive. Meno spazio per la ricerca della verità nel mondo dei sogni, più tempo dedicato all'horror spietato del reale. Via i personaggi affascinanti, dentro invece protagonisti disgustosi. Nelle mani di Cronenbeg L.A. diventa Hell A: un inferno sulla terra, vero protagonista del film più arrabbiato del regista da molti anni a questa parte.

Girato quasi in maniera rozza con tanto di scene e inquadrature tagliate con l'accetta, Maps to the Stars mette a fuoco personaggi che dal primo all'ultimo minuto non mostrano nemmeno un briciolo di umanità. Cronenberg a poco a poco ne scatena totalmente la componente mostruosa, ottenendo allo stesso tempo la totale attenzione di chi sta a guardare: allo spettatore travolto dall'orrore dei protagonisti non rimane che affidarsi solo al personaggio di Mia Wasikowska, paranoica, bipolare, schizofrenica ma comunque la più normale in scena. Nell'esplorare dinamiche familiari malsane all'interno dello star-system, dove un tour promozionale conta più della salute di un figlio e dove si comincia a entrare in rehab già da tredici anni, Cronenberg racconta la fine di ogni traccia di onestà e umanità, avanzando l'ipotesi che soltanto la disfatta sia l'unica soluzione per estirpare il veleno che dalla città degli angeli passa al grande schermo contagiando l'intero pianeta.

Il mondo catturato dal regista è lo stesso di Cosmopolis, molto più affascinante e meno glaciale, quasi tutto raccontato alla luce di un sole tra i più cupi visti sul grande schermo. In questo momento della sua carriera, il regista canadese è interessato ad esplorare l'apocalisse. All'indomani dei due film che più di tutti hanno incontrato il grande pubblico negli ultimi vent'anni (il capolavoro A History of Violence e l'ottimo La promessa dell'assassino) il cinema cronenberghiano torna a una fase di rabbia al passo con i nostri tempi.

Questo suo Maps to the Stars è arrabbiato e disgustoso, ma soprattutto memorabile. Ci si ricorderà della performance di Julianne Moore – in uno dei ruoli della carriera – e ancora una volta di un'inquadratura finale notevole ed efficace come in tutti i film del regista.

Pierpaolo Festa, film.it


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Maps to the Stars, ovvero Hollywood secondo David Cronenberg, un microcosmo attraversato da sensi di colpa, violenze segrete e stelle prive di luci.

“Le stelle fanno i sogni, e i sogni fanno le stelle”, sentenziava INLAND EMPIRE di David Lynch: stelle destinate a confondersi con lo squallore del boulevard hollywoodiano, e che già allora, nel 2006, iniziavano a smettere di brillare. Mai come nell’ultimo decennio il cinema statunitense ha disquisito sulla propria ineluttabile morte, riflettendo la decadenza di un’arte in via d’estinzione, per lo meno nelle modalità con le quali la si era concepita fino a oggi. Già c’era stato, sempre riferendosi a Lynch, il cinema del “silencio” e della dualità agghiacciante e impossibile di Mulholland Drive, si sono poi aggiunte le sale chiuse e abbandonate di The Canyons di Paul Schrader e la dispersione infinita di Road to Nowhere di Monte Hellman. Hollywood non è più la terra dei sogni magari crudeli ma (im)possibili, quella di Peter Bogdanovich e Robert Altman, non vi trova più asilo il Robert De Niro/Monroe Stahr di The Last Tycoon di Elia Kazan. Eppure le stelle brillano ancora, o no?
Agatha Weiss dice di essere arrivata a Los Angeles da Giove, ma in realtà è tornata a casa dopo sette anni trascorsi in un ospedale psichiatrico in Florida: tutto, in Maps to the Stars, nasce e muore in lei. È lei a incontrare per prima Jerome Fontana, l’autista di limousine che aspira a diventare attore e sceneggiatore e si limita, per il momento, a rappresentare il tramite tra le celebrità e il mondo esterno; è lei a farsi assumere dall’attrice Havana Segrand, alla disperata ricerca del ruolo che interpretò la madre quando era ragazza; è sempre lei il rimosso della famiglia Weiss, l’ignoto e imponderabile che torna per distruggere (o rifondare, a seconda dei punti di vista).

David Cronenberg, affidandosi alla ricca e complessa sceneggiatura di Bruce Wagner (romanziere in passato già al lavoro sugli script di Nightmare 3 – I guerrieri del sogno di Chuck Russell e Scene di lotta di classe a Beverly Hills di Paul Bartel), si lancia in un viaggio sul sogno tradito di Hollywood, industria dell’immaginario che ha smarrito la strada dell’immateriale per lasciarsi schiacciare da una concretezza effimera, escrescenza tumorale del Capitale che si rinnova e ricicla senza alcuna via d’uscita. Per quanto i personaggi protagonisti di Maps to the Stars sciorinino ed enumerino un numero impressionante di nomi di “stelle” del presente e del passato – solo nel primo dialogo si passa da Al Gore a Chuck Lorre, da Carrie Fisher a Tatum O’Neal – non esiste cinema in Maps to the Stars, ma solo il rituale di una vacua e sbiadita abitudine all’immagine, in cui la commedia prepuberale Bad Babysitter 2 e il dramma romantico Water Stolen possono essere confusi e sovrapposti, guardati con noncuranza su un piccolo televisore in una roulotte, sfruttati come argomento di discussione davanti a un cocktail in discoteca, o durante una seduta con il proprio psicoterapeuta.
Maps to the Stars non mostra solo un microcosmo malato, ma più che altro un microcosmo che vuole essere malato, in cui l’ansiolitico è il palliativo naturale di un rapporto personale. Tornano, in tal senso, molte delle ossessioni poetiche di Cronenberg: il fisico sfigurato e deturpato, il senso di colpa e di inadeguatezza, l’umano come macchina, imperfetta ma pur sempre macchina, la crisi della dialettica. Se è veramente possibile e non artefatto suddividere la carriera di Cronenberg in fasi distinte – operazione che non può, per sua stessa natura, evitare di andare incontro a forzature ideologiche e critiche – Maps to the Stars potrebbe rappresentare il punto di interconnesione tra queste ultime, incrocio di ipotesi, coacervo di deragliamenti poetici ed espressivi.

Nonostante sia immerso in giorni luminosi e tenebrose notti, Maps to the Stars è un film che brucia, e che fa del fuoco il suo elemento primario: un fuoco che non rigenera, ma distrugge, portando con sé un’estinzione che non prevede però alcun oblio possibile. Perché Maps to the Stars, come ogni film sul/nel/per il cinema, è abitato da fantasmi: fantasmi concreti, di passati terribili e segreti inconfessati che potrebbero annientare anche il più granitico dei giganti, e fantasmi della mente, che invadono case, piscine, vasche da bagno. Ectoplasmi dal cui giudizio non si può sfuggire, non perché li si accetta come reali, ma perché in fin dei conti li si invoca, ultimo e unico barlume di umanità di un mondo disgregato, tomba addobbata a festa.
Elaborando e inspessendo i concetti alla base di A Dangerous Method e Cosmopolis, Maps to the Stars deflagra sullo schermo con una potenza annichilente, apparendo quasi come la versione demitizzata e post-mortem dei primi film di Paul Thomas Anderson. Il cinema è trapassato, l’umano non esiste più, restano solo fantasmi e una promessa di matrimonio, fatta alle stelle. Perché le stelle brillano ancora. O no?

Raffaele Meale, quinlan.it


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Sunset Boulevard secondo David Cronenberg: questione di star e fantasmi, di famiglie incestuose e di divi in cerca di riscatto a ogni costo. La mappa per le stelle che il regista canadese porta in concorso a Cannes 67 è una commedia beffardamente horror, pervasa di star in declino da vecchiaia prematura, giovanissimi divi che tiranneggiano agenti, set e comprimari, guru motivazionali che evocano traumi senza saperli gestire. Alla base c‘è uno script del californiano Bruce Wagner, scrittore che a Hollywood è di casa, un progetto vecchio di almeno una decina d’anni, a lungo coltivato dal regista canadese, che si spinge nella mecca delle star con il distacco ironico e persino cinico di chi maneggia il cristallo con le pinze. La mappatura stellare proposta da Cronenberg, esattamente come il “Sunset Boulevard” di Billy Wilder, ruota attorno al fantasma della sparizione, all’ossessione dell’esserci e apparire ribaltata in una assenza catarticamente evocata nella morte: il perturbante è qui incarnato da Agatha, figlia rimossa del Vip hollywoodiano Sanford Weis, coach delle star e autore di libri di successo. La ragazza è la presenza oscurata della famiglia, colpevole di aver dato fuoco alla casa dei genitori per uccidere il fratellino Benjie, che ora ha 13 anni ed è a sua volta una star da box office: allontanata in cura psichiatrica, la ragazza è tornata dalla Florida col suo volto per metà sfigurato dalle fiamme che aveva appiccato, vero e proprio convitato di pietra della perenne festa hollywoodiana cui partecipa la sua famiglia.
Il perdono che vuole chiedere si tramuta così in occasione di paure e veri e propri incubi, che si cristallizzano nei fantasmi che ossessionano i familiari. In un intreccio di copri e spettri, Cronenberg smaterializza in mito della celebrità nel tema dell’apparizione come spettro che scardina le certezze e i successi. Il fantasma di una piccola fan morta in ospedale perseguita il minidivo Benji tanto quanto la rivalità col comprimario in erba, che rischia di rubargli la scena. Ma non è tutto perché Agatha lavora come assistente di Havana Segrand, diva non più giovane e quindi in decadimento di fama, che deve fare i conti con lo spettro della madre, una vecchia star, che incombe su di lei nel momento in cui sta per interpretare in un remake un suo ruolo in un classico in bianco e nero… L’amore potrebbe essere la via d’uscita da questo circolo vizioso (e incestuoso, scopriremo), incarnato nella figura del giovane Jerome, autista di limousine con ambizioni da attore e sceneggiatore, di cui Agatha si innamora. Ma è tutto un inutile ruotare nel girone della vanità delle vanità, un falò nemmeno tanto figurato, acceso sotto il totem di una famiglia che sostituisce i sentimenti con l’apparenza del successo. Cronenberg ci consegna una commedia obliqua, che taglia trasversalmente tutti i temi del suo cinema e li dispone sul piatto di una parabola tesa a definire un mondo terminale metaforicamente trovato nello scenario hollywoodiano: siamo dalle parti di “The Canyons” di Paul Schrader, ma con un rigore liberato nella leggerezza del tratto. E il cast contribuisce a tanta levità: Julianne Moore è la diva in decadenza, John Cusack è il guru delle star, Robert Pattinson è ovviamente il giovane autista di limousine e Mia Wasikowska è Agatha, dark girl in cerca di perdono impossibile.

italpress.com


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Una Hollywood devastata e vuota brucia senza appello sotto uno sguardo d'autore.

Da quando il cinema è diventato un mezzo di intrattenimento di massa, la parola Hollywood è sinonimo di intrattenimento, spettacolo, industria. Nella città californiana vengono prodotti e girati la maggior parte dei film in circolazione in tutto il mondo, dagli esperimenti indie alle opere colossali piene dei migliori effetti visivi del mercato. Una fabbrica di sogni e di star, attori e attrici straordinari conosciuti in ogni angolo del pianeta su cui ricamare icone su icone.

Ma non tutto ciò che splende si può definire oro, oltre la patina superficiale delle copertine dei giornali si nasconde un malessere e una decadenza più volte raccontata con dolore dal cinema stesso. David Cronenberg sfrutta un tema usato e inflazionato mille volte e lo rielabora, lo lavora, lo rifinisce di sfumature d'autore. La SUA Hollywood è un posto disperato, che va raccontato attraverso movimenti di macchina lenti, primi piani senza filtri e lasciando la colonna sonora ai margini, perché il silenzio è ancora più doloroso. È un non-luogo in cui tutto deve avere una forma canonicamente perfetta, tutto deve apparire illuminato e non avere ombre (personaggio di John Cusack); il minimo simbolo di cedimento, di imperfezione, dev'essere allontanato, ancora meglio disintegrato (personaggio di Mia Wasikowska).

Inghiottiti da questo sistema, gli stessi attori che prima brillano sulle pagine dei rotocalchi, poi crollano nell'oblio alla prima incertezza dell'ingranaggio (personaggio di Julianne Moore); signore incontrastato del regno è l'egoismo, che distrugge ogni granello di umanità. Nonostante tutta questa follia, resta inspiegabile e assoluta la voglia di esserne parte (personaggio di Robert Pattinson), per la quale si è pronti a diventare inutili e ridicoli oggetti, in mano al padrone di turno. A trasformarsi in mostri (personaggio di Evan Bird), soltanto perché nessuno è stato in grado di ascoltarci.

Ciò che appare scontato e già visto sulla carta, sullo schermo risulta invece ipnotico, disgustoso eppure affascinante, allucinogeno e disturbante come un viaggio acido. La fotografia al neon di Peter Suschitzky si posa sullo stile di un ritrovato Cronenberg come una ciliegia sulla torta, ufficializzando per l'autore canadese un ritorno in grande stile al cinema che conta davvero. Quel cinema che si eleva al di sopra del resto proprio come la macchina da presa fa nell'ultima inquadratura di questo Maps to the Stars, che non ha bisogno di sfarzo, di perfezione, di superficie, soltanto di genio.

Aurelio Vindigni Ricca, vertigo24.net


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Cenere di stelle sull’Hollywood Boulevard: dall’acqua al fuoco, il perturbante che agisce dall’esterno non è più un cadavere che galleggia in piscina, ma il corpo mezzo sfigurato di una ragazzina che atterra a Los Angeles e si aggira, convitato di pietra, nel falò della vanità contemporanea. Agatha è una dark lady primordiale, una sorta di dea che plana sul mondo delle apparenze e traduce ogni segno in verità e ogni verità in fantasma. L’approdo hollywoodiano di David Cronenberg è mediato dalla visione di Bruce Wagner, sorta di Fitzgerald del terzo millennio, e l’esito è una commedia disfunzionale pervasa di angosce, spettri, amori inutili, relazioni malate. Ci si potrebbe chiedere se Maps to The Stars proceda più da A Dangerous Method o da Cosmopolis, se non fosse che in realtà il tracciato stellare cronenberghiano si coagula comunque attorno al perturbante calato in un sistema chiuso, virus destinato a contaminare la perfezione di un mondo.

Le pulsioni viennesi di fine 800, le insurrezioni di una metropoli distopica di un qualche presente futuro o le nevrosi della vanità di un set espanso da terzo millennio poco contano: si tratta pur sempre di tracciare una mappa per minare dall’interno il sistema, costringerlo a mostrarsi nella sua intima, naturale violenza, nella pulsionale differenza dall’ordine apparente che vorrebbe governarlo. Il perturbante ha qui le braccia fasciate dai lunghi guanti neri di Agatha Weiss (Mia Wasikowska), ombra rimossa di un passato in fiamme. Cade dal cielo della Florida sulle colline di Los Angeles, ad attenderla una limousine con Robert Pattinson al volante, unica vera possibile storia d’amore: ovviamente negato, in ragione delle ironiche simmetrie di casting cronenberghiano, per cui in quella limousine questa volta vedremo Pattinson penetrare, invece di essere penetrato… Visione non a poco, del resto, che scatena la tempesta e produce la catarsi finale, questo va da sé…
Ma prima c’è da osservare la fine delle illusioni portata suo malgrado da Agatha, che piomba a Hollywood per decifrare una sua mappatura nello star system, inattesa come uno spettro del passato: le fiamme che anni addietro ha appiccato alla casa paterna segnano il suo corpo con immancabili cicatrici cronenberghiane e sono la ragione del suo allontanamento. Il sistema hollywoodiano è l’opposto di quello di Cosmopolis, ma non meno critico, ha un’economia la cui moneta non sono i topi di DeLillo, ma l’apparente serenità delle star di Wagner: tenere fuori l’ombra del caos è un imperativo, ci lavora il padre di Agatha, Sanford (John Cusack), guru dell’autocontrollo, coach di dive in astinenza da successo, che blandisce con terapie e massaggi vertebrali che in altri universi cronenberghiani potrebbero preludere all’installazione di un “bioport”… E’ talmente funzionale al sistema, Sanford, da aver generato in incestuosa unione con la moglie/sorella l’adonico Benjie, minidivo da blockbuster familiare, che spadroneggia sul set. Cronenberg organizza lo schema con lucidità, perché Maps to The Stars è un tracciato lineare destinato a convergere verso il caos: le piscine e le jacuzzi si popolano di presenze poco wilderiane… Lo spettro della madre torna ad assediare il corpo della star Havana Segrand (Julianne Moore), mentre questa ambisce a tornare a nuovo successo reincarnandosi in un remake nel ruolo appartenuto alla madre… Il fantasma della piccola fan morta in ospedale ossessiona la ministar Benjie, che teme l’arrivo sul set di un piccolo comprimario pronto a rubargli la scena…

Maps to The Stars è tragico come un falò che brucia ai piedi del totem: fuga in avanti cronenberghiana, a dire di un collasso totale dei sentimenti. Il finale si innalza in quel cielo da cui tutto è iniziato, con una dolcezza che Cronenberg forse non ha mai mostrato. Non è solo questione di forma commedia, è piuttosto che questa volta il canadese non parla di pulsioni e sentimenti, ma lascia muovere il tutto in funzione di una richiesta di perdono che resta inascoltata. Dopo le pulsioni e l’economia, è l’amore ad implodere in questa mappa che porta verso l’eternità delle stelle, teletrasbordo in confusione di cellule, avendo come mantra l’elegia di una liberté da nominare sui versi di Paul Eluard…

Massimo Causo, sentieriselvaggi.it

[Modificato da Max.984 21/05/2014 10:11]
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