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Scomporre Cosmopolis - analisi

Ultimo Aggiornamento: 02/09/2012 16:44
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Sesso: Maschile
02/09/2012 16:44


SCOMPORRE COSMOPOLIS


Vivisezionare un film come Cosmopolis non solo non è operazione facile ma neppure definitiva o esaustiva. L’ultima pellicola di Cronenberg viaggia a velocità sconosciuta ad almeno ¾ dell’attuale cinematografia americana e si presenta come un oggetto orgogliosamente fiero del suo essere alieno. Molto più di una riflessione sul presente, già oltre la raffigurazione pessimistica di un futuro (ormai avverato?), Cosmopolis è il nuovo punto di non-ritorno nella filmografia del regista canadese, predestinato com’è, ancora prima di uscire in sala, a suscitare discussioni o diatribe fra cinefili e cultori della materia (cronenberghiana). Non un capolavoro né un’opera appagante in senso pieno ma un cinema destabilizzante e necessario, proprio come il suo autore, chiuso in una visione solipsistica del mondo, cantore dell’avanguardia concettuale e visiva (evocata fin dai titoli di testa in omaggio a Pollock), artista totale che solo nelle retrovie letterarie più estreme e moderne (Burroughs, Ballard e ora DeLillo) riesce a trovare una corrispondenza più autentica con gli impulsi che animano la sua urgenza di raccontare. Nel tentativo di metabolizzarlo, dopo una prima visione che già lascia attoniti, ci limitiamo a fissare, lungo le tappe di un azzardato acronimo, le prime suggestioni che a pelle riesce a suscitare, ben consapevoli che non sarà l’unica volta che ci faremo risucchiare dentro l’universo tanto indecifrabile quanto fondamentale del suo autore.

C. Il Cosmo secondo Cronenberg e DeLillo. L’ordine (kòsmos) contrapposto al caos. La Città fuori che ribolle di tumulti sociali e l’altro mondo, quello dentro la limousine, algido e asettico, ordinato e controllato come una proiezione finanziaria. Il mondo fuori appartiene ai reietti e ai contestatori (necessari al sistema stesso, come viene detto) ed è sull’orlo della rivolta contro un potere costituito che ha le sembianze di giovani miliardari padroni della finanza globale. Quello dentro invece ha la consistenza metallica di un’astronave futuristica dove trovano spazio sia il bicchiere per il brandy che la tazza per orinare; è da qui che il giovane rampollo di Wall Street Eric Packer comanda il mondo «ottenendo informazioni per convertirle in una materia orribile». L’astronave continua ad avanzare attraverso il suo confortevole spazio siderale, ovattando i suoni della protesta, schivando i manifestanti come asteroidi. È il futuro certo ma anche il presente.

O. Omicidio. «È la logica evoluzione degli affari». Lo dice DeLillo nel suo libro omonimo. Lo ribadisce Cronenberg per bocca del giovane Pattinson, ex vampiro metaforicamente passato al soldo dei nuovi succhiasangue di Wall Street. Ma l’omicidio non è anche la radice del capitalismo, quella forza che tutto distrugge (il passato) pur di poter affermare se stessa (il futuro)? L’omicidio, atto distruttivo portato fino alla sua estrema declinazione (e non a caso inquadrato con compiacimento dai monitor televisivi) diventa, come già in Crash, l’elemento fattivo di una nuova rinascita. Solo che a risorgere dalle ceneri non ci sono più gli erotomani di Ballard, ma i tycoon della nuova Wall Street che parcheggiano bombardieri comprati per capriccio e cercano di impossessarsi dell’arte (la cappella di Rothko) senza poterla davvero fare propria. La crisi non ha mai abitato qui.

S. Spettro. «Uno spettro si aggira per il mondo!». Forse quello di Eric Packer o di un capitalismo che cannibalizza tutto e tutti. O forse è l’umanità stessa ad essersi già ridotta ad un’ombra. Cronenberg filma ectoplasmi che dissertano sul mondo, sui sistemi e sulla morte. Cerca residui di umanità là dove tutto è ormai disumanizzato, proprio come accadeva nel finale de La Mosca quando Brundlefly puntava su se stesso la doppietta in cerca di un gesto che lo restituisse alla propria specie. Il giovane Eric Packer sembra inseguirla nei ripetuti tentativi di ricongiungersi alla moglie (sorta di replicante catatonica e anch’essa disumanizzata), nell’ostinata ricerca di un barbiere che “gli aggiusti il taglio” o semplicemente in quel movimento (attraversare la città in limousine) che contrasti con l’immobilismo della sua esistenza virtuale.

M. Metropoli. La New York di fine/inizio millennio filmata in Cosmopolis va oltre la rappresentazione di una metropoli e sembra assomigliare più ad un concetto spaziale di città che ad una città vera e propria. Si stringe e si dilata come seguendo il flusso emotivo del protagonista, organica rappresentazione del fluttuare mentale di questo moderno Ulisse; un momento prima è soffocata dall’assalto di no-global armati di spray, picchetti e topi morti e l’attimo successivo è capace di ampliarsi per ospitare il funerale di un rapper coi dervisci. Dark City dell’inconscio, palcoscenico per (quel che resta del) l’umanità, ideale terreno d’elezione per ossessioni puramente cronenberghiane.

O. Odissea. Perché se Packer è un Ulisse post-moderno, il suo peregrinare non può che richiamare l’epos. New York come l’Itaca a cui tornare ed ogni incontro come uno squarcio su un mondo che collassa sempre più, filtrato dai monologhi dei personaggi che si avvicendano dentro un abitacolo alla fine del tempo. Pattinson entra ed esce dalla limousine per addentrarsi dentro i luoghi (un caffè, una biblioteca, i quartieri malfamati), discettare con gli altri, ritrovare sapori che non riesce più a sentire (e il cibo è sempre presente come esperienza al di là dell’abitacolo, proprio come il sesso ormai ridotto ad esperienza puramente meccanica e ginnica). Dietro il tema del viaggio però si scorge in filigrana quello più caro al regista canadese, la mutazione. Il giovane guru della finanza viola lo spazio fisico determinato (la limousine) per addentrarsi in un nuovo altrove; l’uomo di Cronenberg oggi non è più quello fuso con le lamiere (Crash) o assorbito dal monitor (Videodrome) ma quello che intraprende il viaggio per liberarsi della sua virtualità (umana, sociale ed emotiva) in cerca di una “nuova carne”.

P. Profezia. «E il topo diventò l’unità monetaria». Nel futuro/presente di Cosmopolis il topo è lo strumento di protesta. La carcassa fetida da lanciare in faccia ai colletti bianchi. Domani la nuova unità di misura della finanza, pronta ad essere diffusa come un virus tra le masse, metaforicamente portatrice di contagio e fautrice di un nuovo sistema controllato (ancora) dall’alto. L’immagine metaforica del ratto gigante che imperversa sulla città come un mostruoso yokai giapponese preconizza come meglio non si potrebbe questa deriva occidentale. Monetizzare il topo per dare nuovo impulso al sistema.

O. Origini. Per tutti quelli che considerano Cronenberg ormai deragliato dopo la parentesi di A Dangerous Method (in realtà fondamentale riflessione sul sisma ideologico fra Jung e Freud), Cosmopolis è, proprio come alcune opere del passato, un horror. Non quello inteso in senso classico ovviamente, né tanto meno l’horror viscerale e psicologico dei suoi capolavori degli anni ’90, ma una riflessione orrorosa sul vuoto che assume le sembianze di un occhio spalancato sull’abisso morale e le disillusioni del terzo millennio. La poesia della nuova carne non è più quella dell’incubo organico di The Fly o della frattura (e ricomposizione) psicologica filmata in Inseparabili; Cronenberg, la cui esplorazione dei possibili territori umani non sembra conoscere confini, inquadra adesso l’orrore invisibile, quello morale che deflagra silenzioso dentro il sistema. Orrore che non si limita più a colpire lo stomaco ma punta direttamente alla mente.

L. Linearità. L’universo narrato in Cosmopolis sembra avere la consistenza liquida e sfuggente dei sogni (o del delirio) o apparentemente lasciato in balìa dei suoi dialoghi ermetici (diligentemente ripresi dal testo originario) e del suo ritmo catatonico. In realtà non è difficile individuare dentro il tessuto filmico una serie di eventi che inquadrano con progressione geometrica ed inesorabile il lento sfaldarsi dell’universo del protagonista. Dal primo meeting con la mercante d’arte – una magnifica Juliette Binoche – che prima fa sesso con lui e poi gli impartisce lezioni di etica sull’arte e il mondo – passando per una lezione di cinismo finanziario («Distruggere il passato, creare il futuro») distillata da una convincente Samantha Morton, fino alla morte del rapper di cui è produttore, il mondo di Packer cade pezzo dopo pezzo, spogliandosi di tutte le sue sovrastrutture e privando il protagonista della sua levigata eleganza iniziale. Dopo lanci di topi nei caffè e scontri con improbabili terroristi delle torte, il protagonista giunge sporco e dimesso fino al monolitico confronto con la sua controparte nascosta, un Paul Giamatti rancoroso e disilluso, l’altra faccia del capitalismo o il suo spurgo ben celato. «Tutto nelle nostre vite ci ha portato a questo momento» è la sentenza che sancisce il compimento di questa apocalisse a due voci.

I. Interzona. Da Burroughs a DeLillo passando per Patrick McGrath (Spider) il cinema di Cronenberg è sempre stato interessato ad esplorare nuove interzone (mentali, psicologiche, sociali) alla ricerca non tanto di un significato dell’agire umano quanto del meccanismo che origina tali pulsioni: per Cronenberg dunque conta più analizzare il metodo (a dangerous method) piuttosto che rendere conto del risultato. L’interzona in cui agiscono i personaggi di Cosmopolis è quello del linguaggio e dei dialoghi (o, spesso, dei monologhi) in cui essi stessi finiscono per addentrarsi fin quasi a perdersi. Dopo lo scritto, centrale nel carteggio fra Jung-Freud-Spielrein, tocca dunque alla parola. Il regista filma, letteralmente, il cortocircuito fra immagini e parola, l’impossibilità per questa di essere (ancora) un affidabile veicolo di senso ma al più di sensualità. Proprio come le lamiere contorte di Crash o le fitte ragnatele del rimosso in Spider anche i dialoghi di Cosmopolis, oltre che cerebrali proiezioni del mondo dei protagonisti, sembrano divenire metaforicamente, autentici prolungamenti “fisici” degli individui, destinati a metterli in relazione fra loro perfino più del sesso. Cronenberg, consapevole della portata letteraria del romanzo omonimo di DeLillo, trasferisce diligentemente i dialoghi sullo schermo ma ne fa uno strumento al servizio delle proprie intenzioni. Le parole “fluttuano” come propaggini in cerca di una “bioporta” a cui accedere e diventano protagoniste assolute di questo nuovo sistema di relazioni; il significato stesso finisce per passare in secondo piano perché a contare di più è l’erotismo che esse sprigionano.

S. Simmetria. L’algido equilibrio esistenziale, fatto di analisi di fluttuazioni finanziarie e di emozioni vissute come espletamenti corporali, è anche la ragione della progressiva alienazione dal mondo reale del protagonista. La regia di Cronenberg anche stilisticamente finisce per assecondare questo status del protagonista; non a caso la fotografia evoca le alterazioni visive del suo cinema più sperimentale (Il Pasto Nudo, Spider) o richiama i bagliori lividi dei suoi film più “chirurgici” ed estremi (Crash, Inseparabili). Ma la simmetria e il controllo a cui si richiama il protagonista sono destinati a soccombere per mano di quell’unico fattore che sconvolge il gioco degli equilibri consolidati: l’imprevedibilità. La diagnosi della prostata asimmetrica, le previsioni sbagliate sullo yuan sono gli eventi che scardinano le certezze (fisiche, psicologiche, economiche) del protagonista e che contribuiranno a farlo precipitare giocoforza dal suo invisibile utero. Il verboso ed incalzante confronto finale fra Giamatti e Pattinson dentro un fatiscente appartamento in Hell’s Kitchen segna una frattura definitiva dentro il mondo di Packer, lo catapulta fuori dal sistema di simmetrie fin lì seguito costringendolo a fare i conti con l’imprevedibile e il rimosso. Gli ultimi parlatissimi 20 minuti finali di Cosmopolis mettono in scena un simbolico confronto fra l’istituzione (Pattinson) e l’idea che vi sta dietro (Giamatti) e fanno erompere prepotentemente il film fuori dal suo guscio smaltato sporcandolo, anche visivamente, con le tonalità marrone di un’apocalisse senza finale. E se la verità pare ancora sfuggirci l’unica cosa certa è che fa male. Proprio come un colpo di pistola attraverso la mano.
Andrea Lupo, dietrolequinteonline.it
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