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Cinema della mente - alcune analisi

Ultimo Aggiornamento: 01/08/2012 16:48
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Sesso: Maschile
01/08/2012 16:48


Uccidere i padri

A Dangerous Method è stato da più di un commentatore considerato un calligrafico melodramma d’epoca, un esercizio di stile, e perciò un corpo estraneo alla filmografia del regista canadese: scavando un minimo ci si accorge, al contrario, che molti temi preferiti dall’autore sono presenti, anche se magari meno immediatamente evidenti di altre volte.
D’altronde, l’incontro tra i fondatori della psicoanalisi e colui che ha da sempre analizzato le deviazioni e le deformazioni dell’inconscio, il rapporto tra corpo e psiche e ha raccontato esempi di follia e di degenerazione, era nell’ordine delle cose, quasi inevitabile; è come se il regista avesse voluto fare i conti con due dei numi tutelari della sua poetica, puntare l’attenzione su di loro, e freudianamente “uccidere i padri”. Viene infatti riconosciuta la loro importanza, ma Freud e Jung, sotto certi aspetti, si aggiungono all’elenco dei personaggi del cinema di Cronenberg a cui si ritorcono contro l’eccessiva fiducia nella scienza e nella sua capacità di spostare in avanti l’asticella del possibile. Non solo, più banalmente, entrambi sono caratterizzati da piccole nevrosi, messe maggiormente in evidenza a seconda di chi nel dato momento del film è in posizione “minoritaria”, come la ghiottoneria di Jung durante la prima visita a casa di Freud, quando il rapporto tra i due era ancora caratterizzato dalla devozione del più giovane. Più sottilmente, sembra che la loro teorizzazione e riflessione psicoanalitica siano state frutto di un’inevitabile discesa nelle angosce, in cui si è avuto empiricamente a che fare con la nevrosi, poi superata e metabolizzata dallo studio, ma che ha certamente causato una decisiva perdita di sé. L’esempio emblematico è la vera protagonista del film, Sabina Spielrein, isterica che diventerà la prima donna psicoanalista di fama, dopo essere stata paziente-amante-allieva di Jung, e le cui teorie influenzeranno Freud nella teorizzazione del rapporto piacere-pulsione di morte. È su di lei che, non a caso, soprattutto nella prima parte, troviamo accenni di quell’attenzione tipica di Cronenberg alla rappresentazione dei  “corpi” martoriati e deformati come metafora della deriva del proprio io.
A Dangerous Method è un film molto “teorico”, di una notevole complessità semantica e tematica che va ben oltre l’apparente semplicità della messa in scena, e che investe ogni particolare, a partire dal significato degli spazi e degli arredi, fino alla fotografia monocorde che da quasi una sensazione di “tinta unita” alle sequenze e che così meglio isola gli sviluppi dei personaggi. Le strade che si possono percorrere partendo dall’analisi dei personaggi e dell’ambiente sono molteplici, come, per esempio, l rapporto dei due medici con il loro retroterra religioso e culturale. Conta qui dire che, per quanto agiscano a livello carsico più di altre volte, le tematiche e le ossessioni del regista canadese sono presenti. Anche il fatto che sia, in buona parte, un melodramma non è certo una novità: basti ricordare, per esempio, La Mosca, Rabid - Sete di sangue e Inseparabili.
Edoardo Peretti, mediacritica.it



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Scoperta dell’uomo moderno

Una delle immagini più forti e significative di A Dangerous Method è quella in cui vediamo il professor Jung e la sua paziente Sabina Spielrein attraversare a piedi un ponticello posto su un vuoto.
Il passaggio dei due protagonisti avviene tra due sponde: la prima, da dove provengono, è una selva naturale, un bosco, mentre non ci viene concesso di vedere il punto di arrivo, l’inquadratura lascia fuori campo questo lembo. Leggendo l’immagine, appare molto chiaro come questa diventi emblema non solo per quanto riguarda i personaggi, lei insegue lui dando l’inizio al rapporto di maestro e allieva che contraddistinguerà la prima parte della pellicola, ma soprattutto per quanto riguarda la psicoanalisi, i protagonisti si approcciano a lasciare la riva conosciuta, che vedeva la mente come una caotica foresta impossibile da imbrigliare ma solo da reprimere, per giungere su un nuovo territorio, quello dell’inconscio, del tutto sconosciuto e inesplorato e per questo irrappresentabile.
A Dangerous Method è quindi un film che parla di viaggi (se non del Viaggio), compiuti dall’essere umano alla scoperta del sé. La barca, elemento ricorrente all’interno della pellicola, diventa metafora di questo costante peregrinare da parte dei protagonisti nella speranza di arrivare  su una nuova terra da esplorare, ma il loro cammino si ferma sempre sopra le acque, simbolo per eccellenza di una superficie che cela la sua reale profondità.
Cronenberg mostra un enorme cambiamento, i mostri e il disturbante, caratteristiche principali delle altre sue pellicole, scompaiono lasciando posto solamente alle evocazioni dei pazienti durante le sedute psicoanalitiche, i sogni prendono forma solamente all’interno della mente del personaggio, che diventa l’unico a vivere quel mondo spesso rappresentato dal regista. Ma al contrario Cronenberg non sottrae l’orrore, e se da un lato questa mostruosità è celata, dall’altro viene a palesarsi un lato ancora più inquietante e oscuro, proprio dell’essere. Nelle loro ricerche i tre psicanalisti portano alla luce una parte della profondità umana, non legata solamente alla frustrazione sessuale, ma facente parte della natura umana stessa, un lato malvagio e terribile arrivato sul punto di mostrarsi (l’ultima percezione di Jung inequivocabilmente anticipa la prima guerra mondiale).
Se in Scanners, quindi, la testa esplodeva perché incapace di mantenere una presenza straniera, in A Dangerous Method la scoperta del lato oscuro dell’essere umano porta all’implosione della mente, egli, incapace di sostenere la convivenza con un sé tanto terrificante, non potrà fare altro che chiudersi all’interno delle proprie convenzioni piccolo-borghesi riparandosi dietro le nevrosi proprie dell’uomo moderno.
Massimo Padoin, mediacritica.it



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Oltre la soglia del sogno

Nella classifica ideale dei luoghi proibiti, la palma del più scabroso toccherebbe alla psiche umana. A Sigmund Freud, dunque, il merito di averla violata per primo. Ma non ci si affaccia sul proprio inconscio senza pagarne lo scotto.
Cultore irriducibile delle scissioni  dell’Io, con A Dangerous Method, David Cronenberg le mostra all’opera sulle più alte autorità in materia. “Il metodo pericoloso” è appunto quello della psicoanalisi e proprio l’indagine delle pulsioni costringe Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) ad affrontare le proprie. Nel legame ambivalente con Freud (Viggo Mortensen), ingombrante padre intellettuale, e con la paziente/amante Sabina Spielrein (Keira Knightley), a sua volta brillante scienziata, Jung esplora le contraddizioni più intime dell’essere umano, fino a restarne inevitabilmente sopraffatto.
Aperta la porta dell’Es, questo traborda e contamina i luoghi, ne fa cassa di risonanza della realtà interiore, al punto che i protagonisti vi restano invischiati come le vittime nella tela di Spider (2002). Cronenberg li inscrive magistralmente in perfetti spazi-estensione che richiamano, peraltro, l’origine teatrale della sceneggiatura di Christopher Hampton.
Così Freud troneggia autorevole nel privato come nella dimensione pubblica, radicato nella cultura ebraica e circondato dalla famiglia, l’una e l’altra riflesse nella congerie di oggetti di cui pullula il suo studio. Al contrario l’ariano Jung, freddo e analitico in superficie ma interiormente tormentato, occupa stanze apparentemente spoglie che tuttavia, dentro scatole e cassetti, nascondono insospettabili quantità di effetti personali. A spalancarli senza ritegno -e con un certo compiaciuto intuito- è Otto Gross (Vincent Cassel), psichiatra tossicomane e poligamo impenitente. La sua natura indolente trova riscontro nel disordine incontenibile della sua camera, ricolma, oltretutto, di schizzi e disegni, in netto contrasto con le verbose epistole che imbrigliano i rapporti degli altri tre. E’ infatti Otto a convincere Jung a liberare l’istinto, anteponendo la passione per Sabina alla stanca tenerezza verso la moglie. Quando la colpa e il prestigio lo spingono a tornare da quest’ultima, lunghi tavoli da pranzo ed eloquenti profondità di campo sottolineano comunque l’intima lontananza.
Nonostante la narrazione aneddotica e largamente semplificata, la regia impeccabile di Cronenberg lascia emergere efficacemente le tensioni sotterranee, misurando prossimità e distanze, squallidi vuoti e ipertrofici volumi, complici la fotografia del fedele Peter Suschitzky e le notevoli performance dei protagonisti. Dalla micromimica di Fassbender alla spasmodica irruenza della Knightley passando per un severo Mortensen e un Cassel amabilmente beffardo, le nevrosi di ciascuno si dispiegano in insostenibili gabbie mentali, che distorcono la realtà oggettiva in un’alcova di autodistruzione. L’accettazione delle pulsioni avvelena l’animo quanto il loro rifiuto e i loro simboli più eclatanti infestano gli ambienti non meno dei sogni.
E’ con questa consapevolezza che, in viaggio verso gli Stati Uniti, Freud chiederà a Jung:
“Secondo lei lo sanno che stiamo portando la Peste?”
Lisa Cecconi, mediacritica.it



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Cinema della mente

Non ci sono visioni, né episodi onirici, né facilitazioni. Non ci sono sottolineature, né retoriche semplificate, né retoriche a cui il cinema sia abituato.
Quello che c’è, invece, è impressionante: A Dangerous Method è la storia più importante della Storia della psicanalisi, ma è anche la storia di come filmare la psicanalisi, e con essa delle persone che si illudono di dominarla o di esserne vittime.
La storia della psicanalisi, che nasce da Freud, Jung e Sabina Spielrein. Jung e Freud, figlio e padre della famiglia psicanalitica, Jung e Spielrein, amante-guaritore e amante-paziente, Spielrein e Freud, seguace innovatrice e guida contestabile: in questo triangolo Sabina è il centro di una pulsione irrazionale che scardinerà le certezze razionali di Freud e distruggerà l’etica di Jung, costringendolo a ricomporre la sua identità in crisi. Come dirà Jung, “a volte bisogna fare qualcosa di imperdonabile per poter continuare a vivere”: per dare praticità e verità al “metodo pericoloso” del titolo, bisogna tradirlo ed esserne le prime vittime e così guarire gli altri.
Ma come narrare la psicanalisi, cercando di non creare un saggio visivo e di restare nella tradizione del cinema narrativo? Con le parole. Parole che creano e narrano, che innescano resoconti scientifici e confessioni umane, che generano associazioni libere e raccontano sogni, che possono essere gemiti e, infine, soprattutto parole che non diventano parole pronunciate perché restano racchiuse nella mente, confuse con i segreti o con i pensieri, con le pulsioni.
Ma le parole sono solo il primo passo, altrimenti il film di Cronenberg potrebbe non distinguersi dall’A Dangerous Method letterario a cui si ispira (scritto da John Kerr), o con queste premesse potrebbe anche costruire un testo teatrale. Le parole introducono quasi sempre Freud, Jung e Spielrein, sono la genesi dell’azione e dei pensieri, ma è lo sguardo con cui Cronenberg filma le loro reazioni immediate, manifeste o nascoste, a direzionare ogni scena, a amplificare o alterare la parola, a scorgerne il valore di verità o di menzogna. O forse sarebbe più giusto dire che lo sguardo del narratore rimisura la parola, la riorganizza, come uno psicologo che interpreta e annota il comportamento dei propri pazienti: così, Freud è costantemente ripreso con movimenti di macchina complessi o attraverso i particolari per “avvicinarsi” alla complessità di ciò che sta pensando ma non dice; così Jung è ripreso semplicemente con tanti primi piani indagatori, senza particolari movimenti improvvisi, per rivoltare il suo placido comportamento apparente, che insegue la razionalità, l’imperturbabilità ma mente continuamente o comunica soltanto attraverso i luoghi, gli oggetti, la logica protestante e morale, i propri demoni (lo dimostra la profezia sull’Europa irrorata di sangue, che anticipa la guerra mondiale).
È questa sublime intelligenza, questa sensibilità quasi invisibile a rendere A Dangerous Method il film più imprevedibile del regista canadese, la sua opera più visivamente complessa nel rapporto tra detto e non detto, mostrato e non mostrato. Qualcuno potrebbe ricordare il cinema di Bergman, ma nelle opere del regista svedese i personaggi giungevano sempre a un momento drammatico di perdita e stravolgimento. Nel film di Cronenberg questi momenti avvengono ma restano compressi, visibili a malapena, perché la parola può essere un portavoce del personaggio ma oltre non può andare, e soltanto le silenziose immagini di un regista che guarda i suoi personaggi-pazienti possono essere fonte di verità. È come se Cronenberg si fosse affacciato alle unità minime del racconto, ad un cinema talmente psicologico da funzionare su delle unità minime di audiovisione, su azioni ridotte all’estremo e in cui ogni gesto è straordinariamente dimesso, pensato, polisemico, eppure formalmente l’intera narrazione si conserva scorrevolissima: gli basta un tratto, un movimento di macchina, un volto dell’attore (e in questo caso, soprattutto Fassbender e Mortensen sono capaci di un minimalismo imprevedibile, memorabile) e rivela ciò che vuole, senza forzare ulteriormente, come faceva il Tolstoj dei racconti maturi, come un Dio del proprio film che si permette di conferire il destino meno risolto a ciascuno, che fa intravedere ma non vuole elaborare il labirinto della mente, e così registra dall’esterno le sue reazioni. È giunto esattamente all’opposto del Lynch di INLAND EMPIRE: filma solo il filmabile, senza deformare o esasperare le proprie creature o la propria poetica, filma ciò che allo spettatore ancora serve narrativamente, i comportamenti esterni e quelli appena accennati, il legame o la dissociazione tra parola e immagine, ma la vera essenza, il resto, si può solo dedurre dai silenzi, dalla macchina da presa che prova ad avvicinarsi al pensiero facciale e corporeo dell’uomo. Cronenberg è passato dall’essere il regista-scienziato che manipola il corpo e la mente per indagare in prima persona la materia umana, a essere un regista-psichiatra che preferisce indagare ascoltando le mutazioni psicofisiche. E in quest’evoluzione sembra avere il pragmatismo di Freud ma anche la vocazione terapeutica al di là della scienza che desiderava Jung, spingendo contemporaneamente il cinema a ricordarsi solo della parola e dello sguardo. Dal cinema nella mente di INLAND EMPIRE non siamo passati a un cinema apparentemente “classico”, ma a un modernissimo e meraviglioso cinema della mente, rigoroso e ai minimi termini, in cui lo spettatore vede l’esperimento e il risultato dell’esperimento, il modo razionale per filmare l’irrazionale. L’irrazionale si intravede, non si mostra. Ancora un passo e sarebbe cinema astratto.
Matteo Quadrini, mediacritica.it
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