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La contraddizione e la sconfitta - analisi

Ultimo Aggiornamento: 01/08/2012 16:43
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01/08/2012 16:43


LA CONTRADDIZIONE E LA SCONFITTA


L’ultimo lavoro di David Cronenberg, presentato in concorso al Festival di Cannes 2012, è un asciutto, tagliente, disturbante adattamento di un romanzo breve di Don DeLillo pubblicato nel 2003 e che, fino a questo momento, non era considerato tra le sue migliori realizzazioni letterarie. Sulla resa dell’adattamento nel suo complesso, l’autore ha dichiarato: «Cronenberg ha realizzato un film potente e senza compromessi. È abbastanza vicino al libro. Vi si trova molto anche della sua lingua, che è spesso quella un po’ esoterica dei mercati finanziari»(1), con la quale peraltro DeLillo non ha una particolare familiarità, dato che in genere i suoi territori di competenza sono altri. E in un’intervista rilasciata poche ore prima della proiezione ufficiale, il cineasta canadese ci ha tenuto a precisare che: «Il cinema non è mica fatto solo di immagini! I dialoghi mi interessano molto di più, e mi sembrano molto più essenziali». Questa affermazione – che rincuora chi crede che il cinema sia anche narrazione di storie e non soltanto percezione visiva – è resa particolarmente necessaria dal fatto che nel romanzo di DeLillo la parola è, se non tutto, quasi. Non a caso, Cronenberg ha scritto da solo anche la sceneggiatura del film, e lo ha fatto (o, almeno, lo avrebbe fatto, stando sempre alle sue dichiarazioni) in soli sei giorni, sostanzialmente limitandosi ad un gioco di brevi oscillazioni lungo il testo dell’autore italoamericano, il quale ha preferito non avere nulla a che fare con l’adattamento cinematografico né ha avuto da ridire sull’unica significativa variazione apportata al romanzo dal regista nel suo script, ossia lo spostamento dal Giappone alla Cina (e quindi dallo yen allo yuan) del mercato sul quale si svolge la speculazione finanziaria del protagonista.
Come accade in altri lavori di DeLillo, anche Cosmopolis (in particolare nella prima parte) è caratterizzato da una modalità narrativa peristaltica: esiste una guideline che inanella in clausole molto paratattiche la progressione del delirio dissociativo del protagonista Eric Packer, l’ambiente sul quale lui regna sovrano in virtù del suo potere economico e linguistico, ma che ogni tanto subisce come un singhiozzo l’irruzione di un livello della realtà esterna, che nella sua ruvida e a-linguistica ontologicità, appare in grado di mostrare tutta l’inadeguatezza del tentativo di fuga costante del protagonista. È anche per questo che Eric ha un bisogno disperato di nascondersi dal reale trascorrendo tutto il tempo possibile nella sua limousine, che nel testo di DeLillo era, «non solo smisurata, ma lo era in modo aggressivo e sdegnoso, metastatizzante, un enorme oggetto mutante che sovrastava ogni obiezione»(2). Ed è a partire da questo fattore, che l’adattamento di Cronenberg permette alla trama del romanzo di crescere ulteriormente, potendo fare ricorso ad immagini di forte impatto visivo, pur conservando le energie dell’apporto dialogico del testo. Infatti l’immensa monade-automobile non ha soltanto lo scopo di esibire in modo sfrontato e irriverente la ricchezza del suo proprietario isolandolo da tutto ciò che lo circonda, ma anche di costringere i passanti o gli altri automobilisti in una posizione di sudditanza psicologica e di inferiorità sociale: classica protesi fallica elevata all’ennesima potenza, in proporzione alla ricchezza dello speculatore finanziario che se la può permettere con tutto il suo sproporzionato, ipertrofico equipaggiamento tecnologico. Forse anche qualcosa in più: direi che, per le sue dimensioni e per la lenta, regale solennità con cui procede, la limousine è una sorta di astronave che viaggia nel cosmo abitato dagli altri, ossia da quel che resta dell’umanità del XX secolo, facendo di tanto in tanto vista a singoli pianeti o satelliti incontrati durante il viaggio. Rispetto alla macchina, ogni altra cosa è the outer space, lo spazio esterno, ed è allo stesso tempo l’altro da sé rispetto al soggetto che esplora le strade potenziando le proprie membra tramite la protesi della macchina. Il che rappresenta un ulteriore passo in avanti nel rapporto che da sempre affascina Cronenberg tra il corpo e il non-corpo.
Se infatti le prime elaborazioni di questo rapporto erano ancora relativamente rozze e insistevano soprattutto sulla separazione fra l’elemento corporeo e singoli elementi extracorporei che riuscivano ad insinuarsi nella persona (Shivers - Il demone sotto la pelle, 1975; Rabid, 1976) ma senza la complicità del soggetto, a partire dalle allucinazioni di Videodrome (1983) il regista canadese ha decisamente imboccato la strada della fusione progressiva tra le parti, della simbiosi tra umano e non-umano, che si è rivelata molto più produttiva per la sua concezione cinematografica. Con Crash (1996) è anche subentrata una componente vagamente religiosa: i luoghi degli incidenti stradali che attraggono in modo irresistibile i protagonisti di quel film sono infatti mostrati come dei veri e propri spazi sacri, nell’accezione che la fenomenologia delle religioni riserva a questa nozione, ossia come territori isolati dal contesto profano, ciascuno dei quali «trae la propria vitalità dalla permanenza della ierofania che una volta l’ha consacrato»(3). L’incidente mortale che generava il meccanismo attrattivo in Crash provocava reazioni diverse a seconda dei personaggi (tempeste ormonali incontrollabili, volontà di documentare fotograficamente la sacralità che si è concentrata nel luogo, momenti di estatica venerazione e perfino raccolta di reliquie) ma sempre caratterizzate da una chiara tendenza ad isolare come spazio sacro il posto e come strumento di manifestazione del sacro l’automobile. Poi è toccato alle “bioporte metacarnali” di eXistenZ (1999), che hanno chiuso in maniera definitiva la stagione della frattura ontologica tra il mondo biochimico e quello dei circuiti integrati, a favore di una completa simbiosi. Ma ora siamo oltre, dal momento che la limousine di Eric è diventata un microcosmo integrale, tecnologicamente iperdotato e che solca le strade di New York City come l’Enterprise di Star Trek viaggiava alla ricerca di originali forme di vita in un cosmo che ancora poteva permettersi di distinguere il “dentro” dal “fuori” perché, tutto sommato, non faceva che trasportare l’impresa ulissica nel decennio delle esplorazioni spaziali.
Non a caso, in Cosmopolis c’è sempre una sorta di incredulità mista a terrore sul viso del protagonista(4), quando individui o elementi esterni cercano di entrare nel suo personale spazio sacro e quindi anche nei margini dell’immagine filmata, visto che per le riprese è stata utilizzata una vera limousine che poteva essere scomposta in parti separabili, in modo da permettere i necessari movimenti di macchina e l’opportuna diffusione della luce negli interni. Per Eric quelli che restano fuori dal suo micromondo sono a tutti gli effetti degli alieni, scorie dell’evoluzione che appartengono ad un mondo ormai morente ma che non vuol saperne di morire in modo definitivo e continua a disturbarlo. Sono, ai suoi occhi abituati a leggere solo diagrammi delle quotazioni in borsa, degli zombie di un’epoca in cui il soggetto rappresentava ancora un argomento degno di essere conosciuto – che è poi l’epoca del cui inizio il regista si era occupato nel precedente A Dangerous Method (2011), raccontando di Freud e di Jung – e che ormai è defluita in quella liquida postmodernità che ne rende impossibile la sopravvivenza, se non appunto in qualità di zombie, poiché Bauman ci ricorda che «l’individualità è un compito che la società degli individui assegna ai suoi membri, un compito individuale, da svolgere individualmente. E tuttavia questo compito è autocontraddittorio e votato alla sconfitta; anzi, impossibile da svolgere»(5), dato che proprio la società del XXI secolo è la principale artefice della sottrazione dalle mani dell’individuo di tutte le possibilità di realizzare questo compito.
Come scrittore, Don DeLillo si è occupato ripetutamente di questa contraddizione tremenda, quanto meno a partire da Running Dog (1978) e, con risultati di gran lunga superiori, in White Noise (1985). Ma solo con Cosmopolis ha deciso di spostare questo problema sul territorio dell’economia finanziaria, visto come un tunnel apocalittico fatto di speculazioni continue ed ipertrofiche e che sembra avere come uscita un mondo in cui «il denaro ha perso la sua qualità narrativa, come è accaduto alla pittura tanto tempo fa», un post-mondo nel quale «il denaro parla a se stesso»(6) e l’individuo è solo un relitto di un’età precedente, che infesta le strade destinate al transito dei nuovi potenti e alla realizzazione dei loro capricci, come quello di tagliarsi i capelli nel negozio di barbiere in cui Eric andava da piccolo, con il padre. L’operazione non riesce e non può riuscire, poiché un simile personaggio non può permettersi di conservare rapporti con il mondo delle cose concrete: minerebbe la sua posizione di prestigio raggiunta tramite speculazioni realizzate senza mai toccare i soldi ma solo tastiere di computer e di palmari, ossia giocando sempre sul livello virtuale della circolazione della ricchezza, senza mai sporcarsi le mani con quello della cosiddetta “economia reale”. Molte sequenze del film ritornano, con numerose sfumature o variazioni, su questo problema del rapporto fra il livello digitalizzato della realtà e il suo livello concreto, di cui Eric ricorda vagamente qualcosa, ma in forme confuse e con timore crescente. Al mondo delle cose concrete appartengono sia il negozio di barbiere (con il valore aggiunto del ricordo di un’infanzia ormai lontana e di cui si fatica a credere che un personaggio simile possa provare nostalgia) che i contestatori che occupano le strade e imbrattano il gioiellino del miliardario. Al mondo delle cose concrete appartiene il dolore che sente il bisogno di provare sparandosi ad una mano con la stessa, chirurgica freddezza con cui ha sparato al suo autista poche ore prima. Al mondo delle cose concrete appartiene anche l’uomo che vuole uccidere Eric, che nel romanzo ha uno spazio maggiore rispetto all’adattamento, ma che anche il film di Cronenberg propone come il doppio da “falso duello” necessario a sviscerare la pulsione di morte che inesorabilmente accompagna il protagonista durante il suo percorso diurno e notturno.
Un richiamo al concreto è anche l’immagine ricorrente del topo, pensata dallo scrittore e confermata dal regista per stigmatizzare il fatto che, sotto tutti gli strati praticabili di arricchimento personale compulsivo, ci sono pur sempre le fogne che aspettano la loro vendetta contro i nuovi ricchi. E i nuovi ricchi sono proprio quelli che, come Eric, costruiscono le loro fortune sul principio secondo il quale «oggi possiamo considerare i dati informatici come un’ubiqua sostanza di valore»(7), come ha scritto una celebrata decostruzionista come Gayatri Chakravorty Spivak, da anni alla Columbia University proprio di New York, la quale da tempo sostiene (e non è certo l’unica) che ormai «il globo è nei nostri computer»(8), dunque il mondo esterno serve sempre di meno, e rispettarlo diventa sempre più insignificante.
Cronenberg si è detto certo che prima o poi il capitalismo imploderà e che la profezia di Marx sulla sua uscita dalla storia si avvererà(9). Anche per questo ha insistito nell’uso di immagini tanto crude, privilegiando riprese effettuate con lenti Arri Alexa, Cooke S4 e Angenieux Optimo, in modo da rendere più o meno cupo il campo dei 35 millimetri. E, come nel suo stile, non si è certo risparmiato nelle sequenze riguardanti le tendenze criminali o psicotiche dei suoi personaggi. Ma il testo di DeLillo è molto meno certo sull’andamento del futuro, e forse la sua posizione è inconsapevolmente più vicina a quella di Peter Sloterdijk, secondo il quale ormai parlare di capitalismo al singolare è obsoleto e semmai, in particolare nella società statunitense, con l’ingresso nel terzo millennio stiamo assistendo all’esperimento della creazione di una «oligarchia avventurosa, che metta alla prova la separabilità di capitalismo e democrazia anche sul suolo americano, pur mantenendo al contempo l’alta congiuntura caratterizzata dalle evocazioni retoriche di democrazia e liberismo»(10). Non si tratterebbe di un cambiamento epocale, in questo caso, e forse nemmeno irreversibile, ma comunque sufficiente ad invocare la produzione di simboli peculiari del nuovo sistema, fondato sulle “asimmetrie informative” di cui parla Joseph Stiglitz(11) e dei quali il lungometraggio di Cronenberg propone un discreto catalogo, un catalogo che verosimilmente è appena iniziato.


Note
Nel Portale di Kainos, vedi anche: Il Capitalismo divino e la morte di Dio    
Note con rimando automatico al testo
1 Intervista riportata su «La Repubblica» del 16 maggio 2012. Dalle opere di DeLillo, fino ad oggi, stranamente sono stati ricavati pochissimi adattamenti, in pratica solo due cortometraggi pressoché sconosciuti: The Rapture of the Athlete assumed into Heaven (2007, per la regia di Keith Bogart) e Looking at the Dead (2011, di Jean-Gabriel Périot), entrambi inediti in Italia.
2 D. DeLillo, Cosmopolis, a cura di S. Pareschi, Einaudi, Torino 2009, p. 11.
3 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, a cura di V. Vacca, Boringhieri, Torino 1984, p. 378. Definizioni pressoché identiche sono reperibili anche fra i più recenti teorici di antropologia del sacro, come Julien Ries, di cui cfr. Il sacro nella storia dell’umanità, a cura di F. Marano, Jaca Book, Milano 1995.
4 L’interpretazione di Robert Pattinson è stata molto criticata da alcuni, approvata da altri, e questo sia in Europa che negli USA. Il mio personale parere è che non sarebbe stato molto credibile Viggo Mortensen (al quale, si dice, Cronenberg avrebbe offerto il ruolo inizialmente) perché avrebbe creato uno stridore eccessivo in termini di differenza di età fra l’attore e il personaggio: Mortensen ha ormai 54 anni, il personaggio da interpretare ne ha 28, Pattinson 26. L’ex vampirello eternamente depresso di Twilight se l’è cavata bene per quanto riguarda la distanza che doveva creare fra la sua fredda espressività e il caos del mondo esterno, e mostra anche una sufficiente indifferenza nei confronti di ciò che accade intorno a lui nella sua stessa limousine, ma direi che non è abbastanza viscido, che non c’è in lui un’adeguata ambiguità.
5 Z. Bauman, Vita liquida, a cura di M. Cupellaro, Laterza, Bari-Roma 2008, p. 7.
6 D. DeLillo, Cosmopolis, cit., p. 67. Questa battuta, come molte altre, è riportata senza variazioni nei dialoghi del film.
7 G.C. Spivak, Leggere la svolta globale. Cosmopolitismo, globalizzazione, planetarietà, in: «Alfabeta», n. 08 (2011), p. 12.
8 Cfr. G.C. Spivak, Imperatives for Re-Imagining the Planet, Passagen, Vienna 1999.
9 Intervista a Rai News24 del 18.05.2012. Lo stesso concetto è stato comunque espresso dal cineasta canadese anche in altre interviste rilasciate durante il Festival di Cannes 2012.
10 AA.VV., Il capitalismo divino, a cura di M. Jongen, Mimesis, Milano 2011, p. 59.
11 Cfr. J.E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, a cura di D. Cavallini, Einaudi, Torino 2002.
Giuseppe Russo, kainos-portale.com
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