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Viaggio al termine della notte - analisi

Ultimo Aggiornamento: 06/07/2012 17:17
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Sesso: Maschile
06/07/2012 17:17


Viaggio al termine della notte

Avevamo lasciato David Cronenberg circa un anno fa con A Dangerous Method, un film così tanto corretto e rispettoso che a non guardare i titoli di coda nessuno avrebbe mai pensato che dietro la macchina da presa si fosse seduto lo stesso regista di Spider o A History of Violence.
Abbiamo ritrovato David Cronenberg pochi giorni fa, nel buio della sala, con Cosmopolis, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Don DeLillo.
Ci siamo seduti con qualche pregiudizio, è vero, considerando che l’attore protagonista, Robert Pattinson, era reduce da una di quelle maledette trilogie post-moderne che, solitamente, ti bloccano la carriera e la crescita. Buio in sala. Il primo impatto è devastante. Dopo poche sequenze veniamo catapultati dentro una limousine hi-tech insonorizzata che, a seconda delle necessità, può farsi bara o tempio del corpo e dello spirito. Eric Packer, giovane broker multimilionario, incurante dello stato di allarme annunciato per un possibile attentato al Presidente degli Stati Uniti, decide di attraversare la città per farsi aggiustare il taglio di capelli. Durante l’odissea joyciana discuterà dell’andamento dello Yuan, la moneta cinese, con personaggi simbolo delle alienazioni della società capitalista. Lo spettatore non deve mai cadere nel facile tranello di considerare Eric Packer un essere umano. Egli rappresenta lo spirito capitalistico degli anni duemila: il cyber capitale. In lui ogni sentimento, che sia amoroso o rivolto verso un oggetto artistico, viene ridotto alle componenti primarie del profitto, per cui non esiste l’amore ma il sesso, non esiste l’oggetto artistico ma solo un lotto da acquistare. Eric vive dentro una bolla: può osservare la disperazione delle persone scese per strada ma non vuole sentire le loro grida, più sono alte le perdite in borsa e più impellente è la voglia di comprare. Forte di questa barriera, Eric corre senza paura nella notte. Maestro nel definire lo spazio diegetico, Cronenberg perde forse qualcosa in alcuni dialoghi ridondanti basati su temi di contorno che sviano l’attenzione dello spettatore dall’obiettivo ultimo della storia: mettere il protagonista di fronte alle sue colpe. Ma, nel complesso, recupera una messa in scena suggestiva che nel precedente film si era persa fra le pieghe della speculazione filosofica e sentimentale. Non ha vinto a Cannes, ma poco importa: fra dieci o vent’anni ci troveremo ancora a parlare di questo film, con nostalgia o tremenda rassegnazione: questo è l’unico dubbio.
Michele Galadrini, mediacritica.it



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L’uomo macchina

Il dibattito critico scaturito dalla visione di Cosmopolis, soprattutto sui quotidiani italiani nostrani, è più o meno simile: la maggior parte dei critici ha liquidato il nuovo film di Cronenberg come una fedele trasposizione del romanzo omonimo di DeLillo, ma prima di tutto come un’ampia e particolare analisi dei nostri tempi di crisi finanziaria.
Certo, Cosmopolis parla della crisi e di chi specula con e su di essa, ma usciti dal cinema sono numerosi gli elementi che meritano un’attenta analisi, Cosmopolis è anche e soprattutto altro.
Innanzitutto si può intravedere un ritorno per Cronenberg al suo cinema nato e cresciuto negli anni ’80, un cinema fatto di corpi, di carne e lamiere, di trasformazione del pensiero umano e di mutazione fisica e sociale, visioni in parte messe a lato nei suoi ultimi lavori. L’odissea di Eric Packer attraverso le vie di New York per raggiungere un parrucchiere e poter finalmente “aggiustare il taglio”, è costellata da dialoghi spesso volutamente fine a se stessi e da incontri con personaggi che convivono claustrofobicamente (sia nelle scene d’interno che nelle poche ambientazioni esterne) con le azioni di Erick stesso, il quale, invece, vive in simbiosi con la sua limousine. Erick muta insieme alla sua macchina: se all’inizio sono belli, puliti, lussuosi e “funzionanti” man mano che il film procede verso il suo epilogo, entrambi vengono modificati da agenti esterni, la limousine viene riempita di scritte e sporcata da dei manifestanti, Eric si prende una torta in faccia da un dissidente e, dopo aver tagliato metà capelli, mutilerà il proprio fisico; nella sua autovettura Eric monitora il suo corpo ed espleta anche i propri bisogni fisici e i propri appetiti sessuali, ed essa lo appaga attraverso i suoi comfort. Ancora una volta, in Cronenberg la macchina è un prolungamento dell’uomo e forse una sua futura mutazione, ed entrambi con il passare del tempo verranno superati dalle proprie evoluzioni “tecnologiche”: il computer, per esempio, che già oggi è un oggetto antiquato così come l’uomo di successo incarnato da Eric, che dopo la crisi verrà sostituito da un altro più cinico e competitivo.
Cosmopolis è un film che parla di un presente che deve fare i conti con un futuro sempre più veloce a farsi avanti, e con delle vittime che inevitabilmente dovranno pagarne i debiti, come sottolinea l’ultima sequenza del film dal finale aperto (ma scontato). Sotto la grande regia cronenberghiana tutto funziona alla perfezione, dalla musica di Howard Shore all’intrigante scelta degli interpreti, Pattinson su tutti, che grazie alla sua scarsa mimica facciale riesce a essere un credibile Parker. Una pellicola che forse non verrà premiata dalla giuria di Cannes (nel momento in cui scrivo i giochi sono ancora tutti aperti), ma che entra di diritto nella storia del cinema contemporaneo.
Andrea M. Fioretti, mediacritica.it



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Falsi movimenti

Per chi ha seguito le ultime pellicole di Cronenberg pare abbastanza evidente come il regista canadese abbia sensibilmente cambiato il suo modo di fare cinema: una via delirante e ossessiva tanto da essere costantemente provocatoria (propria di buona parte della carriera fino a eXistenZ), mentre l’altra epidermicamente meno turbante e segnata da uno stile molto rigoroso (da Spider in poi).
Ora, qui non s’intende mettere in evidenza le differenze tematiche dei due registri, ma questa premessa risulta necessaria per tenere a mente come questo scarto sia più stilistico che tematico, vista l’estrema coerenza di Cronenberg nei confronti delle proprie ossessioni.
Cosmopolis diviene di fatto il luogo dove le due anime s’incontrano e convivono, e ciò, prima di tutto, è visibile dall’impianto luministico della scena. Nella sua ultima pellicola, Cronenberg torna ad utilizzare delle luci che vanno a colpire frontalmente i volti dei personaggi, ponendo la macchina da presa trasversalmente dalla fonte di luce (ciò avveniva ad esempio ne Il Pasto Nudo o in Crash). Questo va a unirsi all’uso, in contrapposizione a prima, di un marcato gioco di chiari scuri e di una luce gialla che avvolge o contorna i protagonisti (elementi che inizia ad utilizzare abbondantemente da Spider in poi) e che nell’immediato collega all’idea di malattia sulla quale il regista ha da sempre costruito i propri pensieri e riflessioni, mostrando non tanto le conseguenze ma i sintomi che essa provoca. L’impianto luministico non è fondamentale solo per riconoscere in Cosmopolis la convivenza delle due facce di Cronenberg, ma diventa elemento essenziale anche per cogliere il falso movimento che il protagonista compie all’interno della propria limousine: qui le luci sui personaggi non seguono il movimento dell’auto, facendoci percepire un moto fasullo ed evidenziando come tutte le scene siano state girate in green screen. Questo falso movimento di fatto è il segno di un potere incrollabile, indifferente, che diviene costante all’interno della Storia del Mondo, dove tutto può proseguire, distruggersi o ribaltarsi, ma il potere (incarnato dal capitalismo) sarà sempre inalterabile.
“Distruggere il passato, creare il futuro”: è questa la condizione necessaria affinché il capitalismo possa sopravvivere, cancellare le tracce, togliere il movimento alla Storia per convincere tutti a una falsa stabilità. Questa però è prima di tutto una condizione mentale cui dobbiamo essere indotti a credere, perché tutto del capitalismo è incorporeo e impalpabile, un fantasma che vaga nel mondo. Che accadrebbe se a questa condizione mentale si affiancasse una necessità fisica, sessuale, se “la più logica evoluzione degli affari è l’omicidio” e richiede non più uno stato mentale e nemmeno una predisposizione all’agire, ma contrariamente una riscoperta del corporeo (l’errore fondamentale che il protagonista compie è sottolineato proprio dalla sua prostata asimmetrica)?
Si creerebbe un collasso del sistema. L’incorporeo che scopre e necessita del corporeo non è possibile da accettare, l’unica soluzione è l’implosione dell’essere che sostiene il sistema. Ma se l’implosione ci è già stata mostrata in A Dangerous Method, l’unica via rappresentabile è quella di un nulla interiore (l’impassibilità della recitazione) che ricorda tremendamente quello beckettiano, ma che, al contrario dello scrittore irlandese, questo nulla umano si trasforma in buco nero trascinando a sé tutto (non vediamo quasi mai come gli ospiti capitino dentro la limousine) e facendolo sprofondare in un collasso sempre più inevitabile.
Massimo Padoin, mediacritica.it



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“La mia prostata è asimmetrica”

Apparentemente spiazzante e sorprendente, ma in realtà abbastanza fedele al controverso romanzo omonimo di Don DeLillo soprattutto nei dialoghi e nella scansione temporale degli eventi, Cosmopolis manca, inspiegabilmente, della parte fondamentale del libro ambientata su un set cinematografico, l’unica in cui Eric, il miliardario protagonista, riesce a far l’amore con la moglie Elise.
Il film sembra, dunque, confermare la svolta di Cronenberg verso un raffinato cinema di parola, cerebrale fino all’eccesso, depurato da ogni elemento mélo o sentimentale e, soprattutto, in parte, anche da quegli shock visivi, che contraddistinguevano i film precedenti del regista canadese, decisamente più viscerali – ad eccezione di qualche breve sequenza violenta, come quella dell’attentato al direttore del Fondo Monetario Internazionale. Ma se i fan della prima ora potrebbero rimanere delusi da questa evoluzione di Cronenberg, a nostro parere tuttavia da seguire con prudente interesse e probabilmente ancora agli inizi, gli spettatori che non amano i film troppo seriosi e privi di ironia, invece, apprezzeranno come minimo i frequenti momenti grotteschi che Cosmopolis offre, a partire dalla voluta assurdità degli scambi di battute tra i personaggi, sintomo di un’incomunicabilità totale e del vuoto pneumatico delle relazioni, nella società contemporanea capitalistica e ipertecnologica. Così, se il pasticciere terrorista di cui è vittima Eric, con le sue torte in faccia, non può che sembrare un omaggio alla comicità slapstick, quando Eric parla di sesso con la moglie Elise, invece, è il nonsense che provoca il riso, grazie anche all’imperturbabilità e all’aplomb di un inaspettatamente azzeccato Pattinson, efficace anche nel rendere i dubbi e la crisi di personalità del personaggio, in un ruolo che vale una carriera. Per non citare la lunga sequenza in cui Eric si fa controllare la prostata dal medico, nell’oblunga limousine di uterina profondità, in cui si susseguono gli incontri del giovane miliardario con gli altri personaggi, con una ritualità da setting psicanalitico. La limousine per Eric è infatti un mondo schermato, autosufficiente, in cui rifugiarsi, mentre nelle strade infuria la rivolta, una cellula protetta e indistruttibile della società borghese, forse l’ultima, in cui, proprio come se fosse nello studio di un analista, il riccone si rilassa, si sdraia, si confessa. Espone i suoi dubbi a chi è pagato per ascoltarlo e si dibatte, confuso, tra il disordine della libido e l’angoscia di morte.
Francesco Grieco, mediacritica.it



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Limousine, parodia di una vita

Cosmopolis. Il viaggio delle più folli ventiquattro ore di un golden boy dell’alta finanza, Eric Packer (Robert Pattinson), in una New York invasa dall’impeto di proteste anarchiche che propongono l’eloquente simbolo dei topi, per rappresentare la voracità economica che dilaga senza controllo nel Paese.
Il giovane capace di prevedere e controllare i meccanismi dell’economia ha come obiettivo della giornata quello di raggiungere il suo barbiere di fiducia per aggiustare il taglio di capelli. Per farlo deve attraversare in limousine, attorniato da guardie del corpo, una Manhattan paralizzata dal traffico per la visita del Presidente degli Stati Uniti e per una serie di ribellioni da parte di giovani dissidenti. Durante la giornata avvengono incontri e complesse discussioni sul destino del capitalismo con personaggi misteriosi e consulenti di vario genere, intervallati dai meticolosi check-up di Eric; è infatti ossessionato dalla possibilità di morire in qualunque momento, tanto da far effettuare quotidianamente, a un medico di fiducia, controlli approfonditi per non rischiare di perdere la salute. “Nei week-end la gente muore”. David Cronenberg e la sua visionarietà hanno permesso alla pellicola di conservare le tematiche di base per analizzarne con precisione ogni piccolo frammento e sperimentarle anche con il cast. A Robert Pattinson infatti è finalmente concesso di abbandonare dopo i primi minuti ogni riferimento con il modello Twilght (fino al momento in cui si toglie gli occhiali da sole ricorda un personaggio a metà tra Men in Black e Matrix). Sullo schermo, lungo tutta l’opera, si trasforma sotto ai nostri occhi, diventando un uomo cinico, rinchiuso nella propria limousine rivestita di sughero, alienato dalla realtà, troppo illogica e asimmetrica per poter riconoscerne in essa la tanto venerata logica naturale degli equilibri del mondo economico. “Sono divenuto enigma di me stesso” dice Benno (Paul Giamatti) citando Sant’Agostino, per chiarire la volontà disperata di Packer di affrontare l’uomo che lo spia da anni per risolvere le ansie personali che lo tomentano. Due personalità molto affini, spaventate dal tempo e dalla caducità della vita, dalla tecnologia fusa con la realtà, che si sentono in dovere di eliminare il difetto rappresentativo della società. Un film, tratto dall’omonimo libro di Don DeLillo, che lascia ampio spazio (forse troppo) al verbo che si trasforma in flussi di coscienza senza veri scambi interpersonali nei rapporti in cui il sentimento è quasi del tutto assente, ad eccezione di poche lacrime versate per la morte di un cantante stimato, e che permette alla fotografia (diretta da Peter Suschitzky) di esprimere la claustrofobia, con ricchezza di primi piani e luoghi chiusi.
Debora Tossut, mediacritica.it



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Vivere il capitale

È solo la storia di un uomo. O no? Eric Packer, genio che legge il mercato e ne fa un’impresa; l’uomo che ha una casa per non dormire e di giorno vive in una limousine informatizzata dove compaiono personaggi per le sue esigenze; Eric manipola il cybercapitale quanto il cybercapitale ha manipolato l’andamento dei suoi ventotto anni, ossessionato dal controllarlo ma instabile a catena se perde il senso di un sistema razionalmente indovinabile per evoluzioni e flussi, come lui.
È solo una storia. O no? Almeno due. La storia di Eric, allegoria di un capitale personificato nell’accumulo per accumulo e nella fragilità sessodipendente in cerca sempre del piegare a sé (per dominio o egoistica, adolescente, ricerca di risposte); la storia degli altri, di chi rifiuta la velocità del capitale: gli esclusi per scelta (folle che gridano al topo come unità di misura per evitare il futuro), o di chi critica e parassita il capitale ma lo scopa, e di chi non regge la velocità e diventa anacronismo come la parola walkie-talkie. Benno Levin è la loro allegoria finale, il perdente autoemarginato che sfida Eric, due allegorie che devono duellare, nel più tragico e farsesco degli scontri escatologici: lo scarto del capitale che incontra il capitale. È solo una storia di oggi? O è LA storia di oggi? Questo porta a pensare che sia il film più ambizioso sull’oggi. E in parte è vero. Cronenberg non poteva fare film più chiaro e ambiguo: non solo adatta ma replica il romanzo, per farne una recita inesorabile e assurda. Quindi in un film fondato sulla parola: un cinema dell’introversione assoluta era il lascito di A Dangerous Method e Cosmopolis ingigantisce la debolezza dell’immagine nel tempo: la parola è un flusso tanto quanto l’andamento pazzo dello yen, spavalda e grande e ridicola da sembrare continuamente una sintesi del suo uomo e del suo tempo ma talmente megalomane da contraddirsi e superarsi, per cui nessuna parola basta; l’immagine è la registrazione immobilizzata di queste parole e della loro tragedia ridicola: una traversata androgina, quadri distaccati che soltanto nella (memorabile) sequenza finale tra Eric e Benno si abbandonano a un movimento controllato. È per questo che potrebbe essere un film di Bresson ma anche una farsa seria e l’ambiguità è tale da non stabilirlo. Potrebbe essere un nuovo Dillinger è morto, e lo è, pur con intuizioni cinematografiche assai minori, ma ha un protagonista troppo razionale per comprendere il divario tra anomalia e accettazione dell’anomalia. Definirlo un road movie sarebbe limitarlo quanto definirlo un altro Ulysse. Meglio definirlo un grande film che sembra non voler esserlo, o almeno rifiutare di esserlo per vivere pienamente il nuovo capitale. Non in cerca di una nuova carne, ma di conseguenze; e la dimostrazione che il teatro espressionista nel 2012 è già finito: dagli uomini si attende un urlo che non arriva mai.
Matteo Quadrini, mediacritica.it
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