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RECENSIONI - Rassegna Stampa /6

Ultimo Aggiornamento: 02/07/2012 15:01
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Sesso: Maschile
02/07/2012 15:00


COSMOPOLIS
Rassegna Stampa parte 6



Difficile fare un bel film tratto da un romanzo pessimo. Cronenberg, invece, considera Cosmopolis, il racconto lungo di DeLillo, dal quale trae il suo film, un capolavoro. Il regista è molto fedele al romanzo, ma in questo caso non può essere un complimento; il risultato è un prodotto dimenticabile, quanto il libro.
Visivamente è un film geniale. Lo spettatore è seduto in una limousine e accompagna il protagonista in una lenta processione che attraversa tutta Manhattan; è un percorso a tappe, nelle quali si incontrano i personaggi che ruotano attorno alla vita di Eric Packer, speculatore finanziario milionario. Lo spazio di manovra per la macchina da presa è limitato, ma sembra di trovarsi in un attico della 42esima. Il grandangolo gioca un ruolo fondamentale, perché non solo mostra lo spazio dell’azione, ma provoca una leggera deformazione dei volti nei primi piani dei protagonisti, che associata ai dialoghi, non certo spontanei, procura un effetto straniante.
Parla come mangi. L’errore di Cronenberg è di aver riprodotto esattamente i dialoghi di DeLillo. Dalla pagina scritta al recitato, chiaramente una scelta registica che alza il livello su un piano che va oltre la realtà. Una scelta interessante ma soporifera, in linea con il lento incedere della limousine, che finalmente giunge a destinazione. La pellicola, invece, continua a scorrere. Comincia così una sequenza finale interminabile, con Paul Giamatti coprotagonista, dove solo il tasto FF – avanti veloce – di un telecomando potrà salvarvi.
Il morto che cammina. Robert Pattinson (Eric Packer) non sfigura, alle prese con un personaggio non facile da interpretare, lavora in sottrazione e non sbaglia. Forse esagera, perché sottrae fino ad arrivare a zero, tanto che lo vediamo fare sesso come se stesse mangiando una brioche alla marmellata al bar, un qualsiasi lunedì mattina. Tra i personaggi più interessanti, che Pattinson incontra nel suo viaggio, troviamo Juliette Binoche, splendida pantera in gabbia tra i sedili dell’auto e Sarah Gadon, che interpreta la moglie del protagonista, una donna sfuggente, che vuole delle attenzioni che in pochi saprebbero darle, quindi non le resta che rifugiarsi tra i libri polverosi di una libreria a scrivere versi inquieti e malinconici, mentre fuori tutto crolla.
Quando ero bambino il mercato non sapevo cosa fosse. Il crollo dei mercati per raccontare il crollo di un essere umano, che si sveglia a capo di un impero costruito con ricchezze immateriali e si addormenta senza più nulla. Tutte quelle parole per descrivere un’assenza di fondo che era presente fin dal mattino. Una ricchezza non tangibile della quale è possibile sfiorare i contorni solo grazie agli istogrammi, alle percentuali e ai numeri dopo la virgola sopra monitor piatti in continuo aggiornamento. Una limousine come macchina del tempo, per portare Eric Packer nella bottega del barbiere dove con suo padre andava a tagliarsi i capelli da bambino. È un ritorno all’infanzia, per tornare a toccare la sporcizia di un quartiere di periferia e sporcarsi la camicia con una torta ricoperta di panna.
Scelte. Cronenberg ha rappresentato la crisi economica come una distruzione di se stessi. Quasi in contemporanea è uscito nelle sale un altro film sui disastri della finanza, passato quasi inosservato, forse perché più semplice e chiaro nel descrivere il fenomeno speculativo. Margin Call di J.C. Chandor, regista all’esordio, che dirige un cast importante e fa un film a metà tra thriller e denuncia. Come in Cosmopolis la vicenda si svolge a Manhattan e si conclude nell’arco di una giornata. Viene rappresentato realisticamente il crollo di un colosso finanziario e le dinamiche tra i dipendenti e i loro superiori, mostrando come poche persone con le loro scelte possano influire sul destino economico globale. Tutto raccontato con un linguaggio comprensibile perfino al cane di DeLillo.
Riccardo Veneziano, toutcourt.eu



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Freddo, impassibile, distaccato, è il cinema di David Cronenberg che trova in Cosmopolis la sua apoteosi e nel suo protagonista Robert Pattinson uno straordinario interprete.
Presentato in concorso all'ultimo Festival di Cannes ne è uscito senza alcun riconoscimento spaccando in due la critica e scatenando sul web una battaglia combattuta a suon di post e tweet incrociati -del resto, quale arena migliore per il dibattito su una storia incentrata in buona parte sugli azzardi dell'ipertecnologia.
Perchè è del delirio della tecnica, dello strapotere della finanza e della assoluta mancanza di legame tra queste ultime e la vita reale ciò di cui si parla in questa pellicola del visionario regista canadese che ancora una volta mette al servizio del grande schermo il suo eccezionale sguardo d'autore e la sua maestria nel dirigere gli interpreti per un film che appare lucidamente come la fotografia di un'epoca storica devastata da violente crisi sociali le cui radici affondano nella rovina di un sistema economico, uno scenario che ha poco del linguaggio fantascientifico cui ci ha abituati l'autore ma che descrive una situazione reale e (probabilmente) molto prossima.
Cosmopolis è il crollo di un impero, la fine di un sistema, quello occidentale, che si riflette nella disgregazione dell'universo personale di Erick Packer, un broker onnipotente la cui discesa negli inferi si compie nell'arco di ventiquattr'ore attraverso le strade di una Manhattan livida e irriconoscibile, destrutturata della sua verticalità, che Cronenberg comprime nello spazio di un'auto di lusso, una limousine che è l'universo di riferimento del giovane protagonista.
Al suo interno assistiamo ad incontri in cui vengono prese decisioni in grado di cambiare il corso della vita delle masse, appena visibili al di là dei vetri, figure indistinte e lontane che si muovono lente e che contano meno di zero per coloro che decidono le sorti del mondo. Un'insensibilità che Cronenberg, naturalmente, rappresenta in maniera eccezionale, inquadratura dopo inquadratura, complice un monolitico Robert Pattinson che incarna perfettamente l'indifferente squalo di Wall Street, colletto inamidato e scarpe lucide, che però, ai primi segnali di cedimento, alla minima imperfezione o elemento non controllabile, si sgretola come un Golem con i piedi d'argilla e, con l'andare del giorno, si scompiglia, si sporca, così come la sua limousine bianca, vero e proprio alter ego, che finisce la sua corsa in un sobborgo di periferia.
E' il disfacimento di una nazione visto attraverso la disfatta di un suo uomo simbolo che cede sotto i colpi inferti dall'interno, che implode, e silenziosamente scivola verso un baratro senza speranza e ciò giustifica il disinteresse per il finale (il protagonista muore, oppure no? Poco importa) davanti a un' apocalisse le cui proporzioni sono ancora sconosciute.
Cosmopolis restituisce al grande cinema un David Cronenberg al meglio di sé, un filmmaker la cui ricerca espressiva continua ad impressionare anche gli spettatori più esperti immagine dopo immagine, grazie ad inquadrature accuratamente studiate e a una fotografia magistrale. Non si può dire lo stesso per i dialoghi che appesantiscono la visione e, tradendo una troppo fedele trasposizione di quelli del romanzo omonimo di DeLillo (cosa peraltro dichiarata dallo stesso regista), risuonano ferraginosi, prolissi, densi di significati e poco fruibili -a tratti, al limite del colpo di sonno- e, a furia di focalizzare l'attenzione sulle parole, anziché rappresentare il valore aggiunto del film, finiscono per diventarne il punto debole. Tuttavia, vista la stringente attualità e l'urgenza dei temi affrontati, sembra comunque che sotto la superficie metallica e lucente sia venuto a mancare qualcosa. Con un simile materiale, e l'innegabile capacità visiva dell'autore, Cosmopolis poteva diventare un nuovo Blade Runner passando alla storia come la più grande opera mai realizzata al cinema sulla celebrazione e il funerale dell'era capitalistica. Non è così: la sensazione è quella di trovarci davanti a un capolavoro mancato. Insomma, un vero peccato.
Vittoria Romagnuolo, freakout-online.com



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Per un autore eclettico come David Cronenberg quello del ripetersi è sempre stata un'attività dalla quale ha preferito esimersi nella maniera più assoluta, al punto che, quando venne definito come il re dell'horror negli anni ottanta (ponendo le basi per un sottogenere ben riconoscibile, quale il body horror) iniziò un percorso alternativo che finì per portarlo su lidi decisamente diversi, con risultati quasi sempre felici. Va presa però in seconda analisi, per ottenere un quadro completo della sua poetica, anche la sua passione verso la letteratura. Va detto che quello di diventare scrittore è stato il suo sogno giovanile, come ammise in molte interviste, e negli anni liceali ebbe modo di appassionarsi a Nabokov e agli autori della beat generation. Nella sua carriera ebbe modo di effettuare due trasposizioni da romanzi che furono Spider, dal romanzo omonimo di Patrick McGrath, e Crash, questa volta di J.G. Ballard. Alle veneranda età di sessantanove anni il canadese ci riprova, e stavolta l'autore che decide di riportare secondo la propria visione su pellicola e Don DeLillo. Il risultato è questo Cosmopolis.
Eric Packer è un broker ventottenne nel pieno della sua ascesa. Ricco, giovane e di successo, un giorno decide di andare dal proprio barbiere di fiducia per farsi «regolare il taglio». Peccato che l'onesto mestierante in questione sia dall'altro capo della citta di Manhattan, che dovrà attraversare tutta sulla sua limousine bianca ipertecnologizzata. In quello stesso giorno però il presidente è in visita alla città, cosa che crea un grande subbuglio per le strade a causa di coloro che protestano contro lo strapotere politico e la disoccupazione. Inoltre informazioni sicure fanno giungere alle orecchie del giovane ed affascinante affarista che qualcuno è sulle sue tracce per cercare di ucciderlo. Ma Eric persiste, perché deve proprio farsi tagliare i capelli dove e quando vuole lui, in quella bottega da barbiere all'altro capo della città.
Film d'indiscussa sperimentalità, fin dal tanto criticato cast. Non tutti, soprattutto coloro che non hanno amato la saga vampiresca adolescenziale di Twilight, osavano credere che Robert Pattinson fosse stato scelto da Cronenberg per interpretare il freddo protagonista (parte che inizialmente doveva essere affidata a Colin Farrel), ma basta la sequenza iniziale per far ricredere anche il più accanito detrattore della star britannica del momento. Il personaggio da lui interpretato è un giovane freddo col quale è molto difficile trovare una certa empatia, anche perché fa poco o nulla per farsi piacere al pubblico. Il regista canadese non ha remore di mostrarcelo in tutto il suo vanaglorioso egoismo, che ha modo di esprimersi nella sicura limousine bianca nella quale il film è in gran parte ambientato. E' proprio questa vettura, che per gran parte della pellicola sarà come un set a sé stante, a divenire un'eccelsa rappresentazione del potere economico: qualcosa di sicuro, che isola perfettamente dal resto del mondo in maniera quasi impermeabile, permettendo a chi vi sta dentro di poter vedere a piacimento quello che vi sta all'esterno senza però che si sporchi troppo, lasciando la sicura distanza fornita dalle pareti e dai vetri infrangibili. Come nel romanzo di DeLillo, quello mostrato è un mondo in crisi, precario nei sentimenti e nelle sicurezze, dove un presidente riesce a creare solo con la propria presenza dissapori, contraddizioni e disordini, ma dove la morte di un rapper riesce ancora a unire nel dolore tutti coloro che si erano fatti incantare dalla sua musica. Non vi sono più certezze, nulla si può programmare con facilità, anzi, tutto è impossibile da catalogare entro verti limiti e la vita porta sempre un imprevisto che darà origine a tutto quello che non ci saremmo mai aspettati, d'altronde, tutta la vicenda ha questa durata proprio per via dell'improvvisa deviazione che coinvolge tutta la città. Eric scopre, durante il check-up svolto all'interno della propria vettura, di avere una prostata asimmetrica, e proprio questo imprevisto porterà dentro di lui un risentimento tale che, abbandonando la bottega da parrucchiere che tanto voleva raggiungere, con un taglio a sua volta asimmetrico, andrà verso le braccia di un probabile aguzzino, col quale ha più cose in comune di quelle che vorrebbe credere. Non c'è più spazio per i sentimenti in un mondo dove solo soldi e informazioni contano, e sarà proprio per questo che un personaggio apatico come questo riuscirà a mostrare una parvenza di emozioni solo nel misterioso finale, che fa da catarsi perfetto con tutto quello mostrato prima.
Film decisamente riuscito che però non è consigliabile a tutti. La claustrofobia abbraccia la pellicola in tutta la sua durata, anche quando la vicenda si svolge in esterni, cosa che forse potrà provare ulteriormente gli animi più sensibili, e proprio per la mobilità alla quale sono costretti gli interpreti il ritmo generale si fa pericolosamente lento in molti punti, favorendo dei discorsi molto pesanti su quelli che sono i temi cari al regista, qui anche sceneggiatore, ma che però non potranno accaparrare i consensi della fetta più larga di pubblico. Tutte queste cose ovviamente vanno a sottrarsi ai meriti della pellicola, che sembra smorzare il talento visivo del cineasta canadese, ma in Cosmopolis è il concetto che fa da traino, alle volte anche più delle immagini stesse. E se gli manca poco per arrivare a sfiorare il capolavoro, quello che ne rimane è decisamente appagante su ogni fronte. Manca poco, ma quel che c'è accontenta eccome!
Giacomo Festi, upperpad.com



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Giudizi della critica contrastanti, reazioni del pubblico estremamente diversificate: è questo il bilancio iniziale del ritorno alla macchina da presa di uno dei cineasti più interessanti della scena internazionale, quel David Cronenberg che solo qualche mese fa con A Dangerous Method si confrontava con il fallimento della razionalità sulle passioni e con la complessità delle relazioni interpersonali, sfruttando gli intrecci emotivi e non solo dietro all’eterno incontro/scontro fra Jung e Freud.
Cosmopolis, presentato in concorso alla 65esima edizione del Festival di Cannes, è un’opera controversa e affascinante, che sa giocare con intelligenza con l’astrazione e l’introspezione facendo leva su una costante e nervosa linea di tangibile tensione: tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, il film porta sullo schermo uno spaccato della contemporaneità evocativo, destrutturante e inquieto che assorbe l’essenza metafisica delle pagine scritte trasformando la lunga traversata del suo protagonista attraverso una metropoli sconvolta in un excursus che sa intrecciare scenari, toni e situazioni tra loro diversissimi e riuscendo a intesserli in un unico schema, coerente e al contempo imprevedibile.
Eric Packer, rampante golden-boy in rapida ascesa nel mondo dell’alta finanza, vuole aggiustare il proprio taglio di capelli, per questo sale sulla sua lussuosissima e super-tecnologica limousine bianca e – affiancato da una capillare rete di protezione e sicurezza – si prepara ad attraversare l’intera città. Per New York però non è una giornata come tutte le altre dal momento che la concomitanza di una visita del Presidente degli Stati Uniti e di una manifestazione di protesta anti-capitalista ne paralizzano totalmente il traffico. Mentre la metropoli è travolta dal caos, Packer assiste glaciale all’inizio del crollo del suo impero con una pesante consapevolezza a gravare sulle sue spalle: qualcuno vuole ucciderlo e lo farà entro la fine della giornata.
Cronenberg punta i riflettori sul disagio di una contemporaneità sconquassata dal conflitto sociale, da una crisi economica che ha dato il via al crollo verticale delle certezze capitaliste: e se da un lato lo sbigottimento collettivo sembra dare luogo a un vacuo senso di smarrimento, dall’altro risuona il rantolo rabbioso di una comunità globale fracassata dalle politiche di gestione finanziaria e del bene pubblico, mentre il mondo si popola dei fantasmi di un sistema che ha lasciato spazio solo alla disillusione di una società che ha perso i propri punti di riferimento.
Il film traduce in immagini il visionario spaccato di DeLillo (il romanzo è del 2003 e pare cogliere in pieno lo sbandamento che dopo poco meno di un decennio stravolgerà gli equilibri mondiali) e coglie le suggestioni più livide e plumbee di quel tentativo di rivalsa sociale che passa attraverso il desiderio di riappropriazione del proprio ruolo grazie alle dinamiche propulsive dei movimenti di massa: l’odissea metropolitana di Eric Packer (un Robert Pattinson sorprendentemente intenso nella sua glaciale immobilità e forzata inespressività) si addentra in una New York dai mille volti, che all’atmosfera placidamente annoiata delle librerie e dei lounge bar contrappone la tumultuosa imprevedibilità delle rivolte di strada.
Cronenberg – che ripropone fedelmente gli articolati dialoghi di DeLillo, utilizzandoli come vera e propria struttura portante nello sviluppo della pellicola – trova nell’evoluzione della storia un tracciato che pare plasmarsi perfettamente alle caratteristiche del suo cinema che pur nella sua eterogeneità ha sempre mantenuto una fortissima componente di riconoscibilità: Cosmopolis è un film solido, che sa raccontare le ombre della natura umana e della società, i desideri e le frustrazioni, la paura e l’arroganza, in un viaggio a tappe che mentre consente al protagonista di confrontarsi con una vasta gamma di personaggi (con comprimari davvero d’eccezione come Juliette Binoche, Mathieu Amalric, Samantha Morton, Sarah Gadon e un grandissimo Paul Giamatti) tratteggia i limiti, le ambizioni e le turbe degli individui.
A dispetto di una struttura fondamentalmente rigida Cronenberg non rinuncia a un impianto della tensione efficientissimo, che sa gestire e sottolineare la disturbante e inquietante onnipresenza del pathos anche quando l’adrenalina sembra essere seppellita sotto le ceneri dell’ipertrofia delle conversazioni, pronta per una nuova deflagrazione.
Così mentre la limousine immacolata incede come un catafalco nella processione funebre della contemporaneità, Cosmopolis disegna la propria ambiziosa traiettoria, presentandosi come un progetto senza dubbio affascinante, comprensibilmente destinato a sfaldare e diversificare le opinioni: Cronenberg non sarà forse all’altezza delle sue massime produzioni, ma dimostra sempre di avere qualcosa di interessante da dire.
Priscilla Caporro, fourzine.it



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«Il nostro legame con l’auto è molto primitivo. L’auto è diventata un’appendice quintessenziale dell’uomo (…). Abbiamo ormai incorporato l’automobile nella comprensione del tempo, dello spazio, della distanza e della sessualità. Voler immergersi in tutto ciò in modo letteralmente fisico mi pare una buona metafora. C’è un desiderio di fondersi con la tecnologia». Queste parole, usate da David Cronenberg per annunciare nel 1996 la volontà di voler lavorare all’adattamento cinematografico del romanzo di J. G. Ballard Crash, mi sembrano perfette per introdurre il nuovo lavoro del regista canadese, l’ennesima impervia riduzione cinematografica della sua carriera: Cosmopolis tratto dall’omonimo romanzo profetico e genuinamente Avant-Pop di Don De Lillo, pubblicato nel 2003. Queste parole sono anche il motivo per cui i fan detrattori di A Dangerous Method torneranno ad amare il lavoro del regista che ha regalato loro Videodrome, Scanners ed eXistenZ, tre pellicole che si rivelano parentali nei confronti del nuovo arrivato Cosmopolis.
Per il protagonista Eric Packer (Robert Pattinson), giovanissimo magnate della finanza, l’automobile non è soltanto parte di sé, armonica rappresentazione della fusione fra tecnologia ed essere umano, è il SÉ, il proscenio teatrale in cui si agitano e prendono forma le proprie sfere intrapsichiche: i torbidi desideri dell’Es e le imposizioni del Super-Io. A quest’ultimo Eric tenterà di sottrarsi per tutto il tempo in modo da ottenere quella conoscenza, che lo rende tanto terribile agli occhi del mondo e della neo moglie Elise (Sarah Gadon). Eric è figlio dei degenerati protagonisti di Crash, sa che quello fra tecnologia e natura non è più un semplice rapporto ma che è ormai una fusione totalmente estremizzata. La natura – nella New York di Cosmopolis – è ormai emanazione della tecnologia, gli esseri umani, le loro manifestazioni - come spiega la consulente teorica Vija Kinsky (una straniante e magnifica Samantha Morton) – sono azioni del corpo tecnologico degenerato, che vive nella contemporaneità sottoforma di capitalismo finanziario. Eric l’ha capito da giovanissimo costruendo la sua fortuna su modelli finanziari ricalcanti le strutture naturali, ma oggi (è centrale nel film, come nel romanzo, il rimarcare continuo del tempo inteso come eterno presente, uno streaming temporale fatto di rappresentazioni contemporanee giustapposte), mentre ingaggia una sfida contro lo yen (in particolare contro la sua rappresentazione finanziaria e quindi digitale) e mentre un’oscura «minaccia plausibile» lo incalza, Eric prenderà coscienza dell’anomalia, del dettaglio sfuggitogli durante la costruzione dell’armonico e simmetrico schema finanziario che lo ha portato al successo, un concetto che è già dentro di sé (come rivelerà lo straniante non-finale) e di cui il giovane magnate si renderà conto solo troppo tardi.
La vicenda copre un’intera giornata, un viaggio attraverso la città di New York intrapreso dal tecno-flaneur Eric per tagliarsi i capelli dal suo barbiere di fiducia a Hell’s Kitchen. Come sempre nel cinema di Cronenberg la visione cinematografica è costruita sul rapporto interno esterno, sui suoni e le immagini che Eric decide di far entrare in sé (nella forma della limousine bianca che abita): la protesta no-global degli uomini ratto che inveiscono contro lo spettro del capitalismo (non rendendosi conto di farne parte, di essere una forma di disequilibrio voluta dallo stesso organismo tecnologico), il funerale di Ibrahim, il rapper sufi amico di Eric che sta paralizzando la città (splendida l’immagine dei dervisci che ballano intorno al carro funebre mentre le note di Mecca riempiono l’abitacolo della limo), la minaccia sempre più «plausibile» (perché viene dallo stesso Eric) che ossessiona il capo della sicurezza Torval. Come in Scanners assistiamo continuamente allo scambio fra interno ed esterno, qui dipendente dalla volontà di Eric, uno scambio che non è più tra corpo e ambiente ma fra corpo-tecnologico (l’automobile) e realtà degenerata. Sappiamo anche quanto sia importante per David Cronenberg mettere alla prova la visione dello spettatore. Questo deve essere continuamente mosso a domandarsi se ciò che sta vedendo esiste nel tempo reale del racconto o è emanazione (onirica piuttosto che psichica) prodotta da uno dei personaggi, i come ci sembra per le figure che dialogano con Eric nell’abitacolo: la già citata Vija, il consulente informatico nerd e mellifluo Shiner, il giovanissimo e speculare enfant prodige Michael Chin, la mercante d’arte agé Didi Fancher (una scarmigliata Juliette Binoche, perfettamente nella parte), il rapper Kosmo Thomas; e fuori da esso come il tarchiato Torval (chiara rappresentazione del super-Ego di Eric), il barbiere ab origine Anthony e la «minaccia plausibile» Benno Levin (Paul Giamatti).
Il viaggio di Eric può essere inteso come la rappresentazione completa del metodo psicoanalitico, il colloquio (portato all’esasperazione straniante durante le sequenze nel barber shop e nell’appartamento di Benno), le fasi sessuali di freudiana teoria, la centralità del sesso e la sua sublimazione, in particolare nel cibo da parte di Eric che consuma i pasti di fronte alla moglie Elise chiedendole continuamente quando potranno “consumare” il loro di matrimonio.
Nonostante la filologica pedanteria nel riportare i dialoghi di DeLillo (Marco Cacioppo su «Nocturno Magazine» racconta di come Cronenberg abbia scritto la sceneggiatura in sei giorni, i primi tre dei quali passati a trascrivere, così come sono nel romanzo, i dialoghi di DeLillo) il film possiede – nella sua rappresentazione della mutazione operata da Eric su se stesso - una grande carica immaginifica, tipica della visione cronenberghiana tout court, tra le poche in grado di interpretare questa realtà franta, giustapposta e ormai alla deriva.
onlyrecensionitoplaywith.blogspot.it



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Il mondo che vediamo in Cosmopolis di David Cronenberg è un mondo reale. La fisicità dei corpi si tocca, si annusa (sugli odori c'è insistenza nel film), può sanguinare; né mai, durante il viaggio in limousine di Eric Packer (un sorprendente Robert Pattinson) attraverso una New York impazzita, il film mette in dubbio (classica questione cronenberghiana) lo statuto di realtà dell'immagine. E tuttavia, per trovare nel mare tempestoso della filmografia di Cronenberg riferimenti utili a intendere Cosmopolis potremmo rivolgerci in particolare a eXistenZ e “Il pasto nudo” - in particolare ma non solo, ovviamente, e comunque tutto nasce da CosmopolisVideodrome. I film di Cronenberg in cui l'universo viene a coincidere con la mente: il mondo-allucinazione.
Questo perché la realtà fisica del corpo e del senso si inserisce nella perdita del Senso. Cronenberg ha descritto la caduta della civiltà occidentale come caduta della Legge ne “La promessa dell'assassino”, come caduta del Senso in Cosmopolis. Perdita del senso perché al centro di Cosmopolis c'è la realtà allucinatoria del cybercapitalismo - ovvero un capitalismo immateriale, svincolato dal valore-lavoro insito nella merce (direbbero i grandi vecchi Ricardo e Marx) e ridotto a pura illusione di dati che lampeggiano sullo schermo dei computer (la luce dei monitor, sentiamo nel film, è la luce del cybercapitale). A questo trasferimento nell'astrazione che caratterizza l'ultimo capitalismo non fa meraviglia che sarcasticamente risponda l'ipotesi del topo come nuova unità monetaria, e proprio in questo senso la figura del topo ritorna ossessivamente nel film.
“Il valore dei soldi non lo so più”, sentiamo dire (dalla gallerista) in Cosmopolis. E infatti Eric, il giovane re della finanza (una battuta paragona ironicamente lui e il suo giovane partner a Romolo e Remo), perde centinaia di milioni di dollari in una scalata allo yuan che fallisce. Eric crede di poter cavalcare le cose e le valute muovendosi secondo i modelli matematici astratti e razionali di cui è esperto (vale la pena di osservare che anche il cinema di Cronenberg, come quello di Kubrick, è pieno di grandi programmatori falliti). Ma è fin troppo evidente che in questa condizione virtuale le valute acquistano la personalità capricciosa delle figure mitologiche; il giovane re si rovina per non aver saputo riconoscere “i tic” dello yuan (“Lo yuan si è preso gioco di me”).
C'è nel film un bizzarro collegamento metaforico con questa rovina. Eric, sentiamo a conclusione della folle scena della visita del dottore in auto, ha la prostata asimmetrica. L'ossessione di Cronenberg per l'interno del corpo (cfr. Inseparabili) qui assume un particolare valore simbolico. L'asimmetria e l'irregolarità dell'interno del corpo irridono all'illusione “simmetrica” della previsione razionale.
Il concetto narrativo base di Cosmopolis è il tentativo di Eric di attraversare New York in una limousine super-accessoriata che è un autentico palazzo viaggiante ristretto in una dimensione claustrofobica da scatola (Eric, racconta, ha anche tentato di isolarla dal rumore esterno, ma invano). Cronenberg in un'intervista la paragona a un acquario, ma si potrebbe dire di più: mentre Crash, l'altro suo grande film sull'automobile, metteva in scena il matrimonio della carne e del metallo, qui abbiamo la limousine come utero.
Credo sia interessante mettere in relazione la dimensione assurdamente ristretta dello spazio vitale di Eric (assurda ma per lui di piena soddisfazione) con la dimensione assurdamente estesa dei suoi progetti: brucia la sua fortuna sullo yuan, vuol farsi costruire un poligono di tiro nel suo appartamento, cerca di comprarsi l'intera Cappella di Mark Rothko per metterla a casa sua e tenerla per sé senza farla vedere a nessuno (“E' mia, se la compro”).
Tutto questo c'è già nel romanzo omonimo di Don DeLillo. Infatti ciò di cui è stato accusato Cronenberg è di essere stato un po' vicario (“soggiogato”, ha scritto Paolo Mereghetti) rispetto al film; e indubbiamente ciò può dar conto di una certa verbosità che qua e là si avverte. Ma bisogna anche dire che il romanzo di DeLillo sembra scritto apposta (come già accadde per Ballard e Burroughs) per esprimere umori e ossessioni di Cronenberg. Eric è totalmente cronenberghiano, si inserisce al cento per cento nella galleria di personaggi del regista: “tutti relitti di esperienze affettivo-cognitive inelaborabili e accomunate dalla transizione dalla fascinazione perversa alla psicosi” (Dalle Luche-Barontini, Transfusioni. Saggio di psicopatologia dal cinema di David Cronenberg). Da questo bel libro del 1997 traggo un'altra notazione importante: per queste figure rapportarsi (sessualmente) significa lacerarsi; infatti il sesso in “Cosmopolis”, il sesso in Cronenberg, è violento e faticoso, doloroso e ginnico – non piacere ma contatto.
Il viaggio di Eric si trasforma in un viaggio nel caos; attorno alla limousine si disegna uno scenario da incubo (Dante più che Joyce sembra il nume ispiratore), ed Eric lo rispecchia: il suo stato d'animo, attesta il film, è lo smarrimento; il fallimento passa dalla dimensione economica alla dimensione esistenziale. Cosmopolis è una marcia verso la morte. La scandiscono, con la cupa regolarità dell'orologio di Poe, gli incontri progressivi con la giovane moglie Elise - che nel suo stupore quasi catatonico, vera incarnazione dell' essere “di là”, incarna, se non metafisicamente la Morte (non sarebbe cronenberghiano), certamente l'Altro e la Perdita.
Cronenberg, disegnatore di universi mutanti, disegna dunque con Cosmopolis un mondo della perdita del senso, un mondo-allucinazione, ma che è quello in cui viviamo oggi. Le sue profezie si sono avverate: il mondo di Videodrome è arrivato qui.
placereani.blogspot.it



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Cosmopolis è denso. Cosmopolis è complesso. Cosmopolis è profondo. Ma Cosmopolis non è un film. L'ultima opera di David Cronenberg tratta dall'omonimo romanzo di Don DeLillo è infatti qualcosa di singolare, di sui generis, di non facilmente catalogabile, come probabilmente è il libro di DeLillo. Conoscendo DeLillo, infatti, pur non avendo letto il libro da cui questo film è tratto, posso credere senza sforzo alcuno che questa sia una trasposizione eccellente, che forse solo Cronenberg, tra i registi contemporanei l'unico a essere sempre stato attratto dall'analisi profonda, visionaria, non di rado grottesca delle mutazioni sociali globali contemporanee (basti ricordare titoli come Videodrome, eXistenZ, Crash, Il Pasto Nudo) e di come queste riverberano dentro l'essere umano facendolo mutare - normalmente in peggio-, poteva essere in grado di realizzare. A ogni fotogramma del film, si respirano infatti i modi, i temi e le atmosfere di DeLillo, sempre in bilico tra surrealismo e realtà, tra paradosso e satira, tra accusa e disperazione, sofisticato e mai banale, per un occidente in bilico sull'orlo di un abisso, intento a guardare giù, e vagheggiando con lo sguardo il nero vellutato della catastrofe incombente.
L'unico vero neo di Cosmopolis è però quello di non essere un film, come probabilmente l'unico neo del romanzo di DeLillo (ma qui azzardo e dovrebbe intervenire qualcuno che l'ha letto) è quello di non essere un romanzo. L'aspetto narrativo di Cosmopolis, rappresentato dalla surreale giornata in limousine di Eric Packer, giovanissimo e straricchissimo (oltre ogni immaginazione) superspeculatore della finanza, che desidera attraversare la città in una giornata molto difficile solo per andare ad "aggiustarsi il taglio", è infatti solo un pretesto per costruire una critica feroce sulle insensatezze, i paradossi e le vacuità di una società occidentale che ha perso ogni misura rispetto alla realtà, concentrando i suoi sforzi nell'accumulare ricchezza come unico obiettivo dell'esistenza, piegando a questo scopo ogni risvolto morale e perdendo di conseguenza ogni valore sia dell'avere che dell'essere. Bastano pochi minuti di immagini e di dialoghi per rendersi conto di ritrovarsi quindi di fronte a un'opera di filosofia e sociologia, magari un pamphlet, quindi - dal punto di vista audiovisivo - più un'inchiesta, un documentario o un reportage, che un vero e proprio film, inteso questo nella sua accezione prima di ogni altra di una storia che viene raccontata e che, anche solo per questo, ha una sua dignità di per sé.
La giornata di Packer che ci racconta Cronenberg lungo l'arco della pellicola, si snoda infatti come una serie di "quadri" (invero del tutto svincolati l'uno dall'altro, cosa che contribuisce in massima parte al surrealismo della messinscena) di personaggi che di volta in volta salgono sulla iperlimousine e interagiscono dialetticamente con il protagonista (il quale a sua volta di tanto in tanto scende e si incontra con la bella moglie poetessa alla quale peraltro chiede sempre e solo di fare sesso), mentre una minaccia dai contorni non identificati incombe sulla città-mondo e sul protagonista-capitalismo, facendosi sempre più spessa, pesante e presente, fino al drammatico confronto finale (applausi a Paul Giamatti). Dunque sono i dialoghi - e non le azioni - a fare da perno a questa vicenda e che emergono da questa sorta di viaggio iniziatico inverso, a ritroso nell'esistenza di Packer (l'incontro col barbiere è per lui una specie di ritorno all'infanzia), che fungono da specchio e, nel confronto con i disordini che stanno accadendo fuori e di cui la limousine porta sempre più i segni, conducono il protagonista a scavare nelle tematiche di una vita parossistica che cerca di sfuggire al nichilismo glaciale trasfigurato nella riuscita maschera di Pattinson, attraverso il possesso esclusivo di cose grandiose ancorché inutili (la Cappella Rothko), nell'illudersi di poter battere lo scorrere del tempo accarezzando così, di fatto, un'illusione di immortalità e quindi di divinità (il check-up medico quotidiano, che ha un acme che non rivelo, ma che è senza dubbio la scena migliore del film), di fare coincidere il piacere supremo con il sesso nell'incapacità di costruire un qualsiasi altro tipo di relazione (il rapporto con la moglie).
Così, se da un lato Cosmopolis riesce pienamente nel suo intento di feroce e originale (a tratti geniale) satira del capitalismo ultraliberista contemporaneo, complici anche le ottime interpretazioni di Pattinson, Binoche, Morton, Giamatti ecc., e da questo punto di vista non pare un'eresia considerarlo un piccolo capolavoro, dall'altro il suo limite, sempre che di limite si tratti (del resto c'è chi i nei se li disegna, no?), è quello secondo il quale l'opera di Cronenberg manca di un qualsiasi impianto narrativo degno di questo nome, potendo essere letta esclusivamente in chiave simbolica e questo la rende potenzialmente portatrice di sbadigli per coloro che vorrebbero prima di tutto (e legittimamente) assistere a un'opera cinematografica che non tradisca il suo obiettivo primario di raccontare una storia.
ilgrandemarziano.blogspot.it



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Gloria e vita alla nuova carne.
Sì, partiamo proprio da qui, da Videodrome del lontano 1983, perché Cosmopolis ne è la diretta conseguenza e la perfetta discendenza, ma soprattutto perché ancora una volta bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale.
Esattamente come la storia che racconta, Cosmopolis è un viaggio attraverso il nostro mondo, il nostro domani e il nostro divenire lentamente sempre meno umani. Svuotati di ciò che ci rende quel che siamo, per ridurci ad un involucro senziente di carne, risentimento, desiderio, sangue e follia, in questo senso il film di Cronenberg vola alto e ci restituisce un mondo e un essere umano vuoti e terribilmente soli.
Non è un caso che il maestro canadese abbia scelto un attore anonimo e impersonale come Robert Pattison ad interpretare il paradigmatico protagonista, vero e proprio simulacro di un’economia che ha smarrito il contatto con la realtà. Pattison risulta una perfetta sacca di ossa e sangue da riempire e plasmare ad immagine e somiglianza di un sistema che ha smarrito la propria umanità, la direzione e forse il significato. Allo stesso modo risulta paradigmatico l’uomo comune interpretato da Paul Giamatti, circondato da ciarpame inutile e vecchio, ammalato, furioso e in perenne ricerca di un nome che possa essere ricordato e riconosciuto al di là dell’identità che solo la ricchezza può regalare. Come due facce della stessa medaglia l’uomo e la società che lo schiaccia sono uniti in una danza di morte ed umiliazione, strettissimi il primo tra le braccia del secondo,  avvinghiati in una imprescindibile simbiosi, capaci di trovare giustificazione e senso solo l’uno dentro l’altro.
La nuova carne ha vinto e ha trovato nuova gloria, ma nulla cambia davvero. La realtà muta e si deteriora, se prima la mancata consapevolezza obnubilava le nostre menti, ora la coscienza acuisce la sofferenza e ci rende complici e partecipi, disposti ad innalzare cattedrali fatte d’oro per glorificare il nuovo attraverso l’ossessivo ripetersi di futili litanie e semplici preghiere di salvezza. Il microcosmo, anzi il nostrocosmo, descritto da Cronenberg, che rinchiude il suo protagonista in un’auto che resta perfetta ed intonsa al suo interno, mentre l’esterno va lentamente in pezzi, ha perso il senno e la direzione continuando a reiterare gesti e percorsi acquisiti ma privi ormai di significato, esattamente come un taglio di capelli.
L’essenza della vita stessa e il suo significato sono messi in discussione mentre nulla sembra più avere un senso: il denaro, la fame, il sesso, l’amore, la morte e la speranza.
Questo è Cosmopolis. Questi siamo noi. Questo è cinema.
houssymovies.wordpress.com



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- C’è il Presidente in città
- Quale presidente?
- Il Presidente degli Stati Uniti d’America.
(da Cosmopolis di David Cronenberg)

Il mondo della finanza è il potere assoluto, al di sopra del potere politico ed economico. Assoluto nel senso etimologico del termine: dal latino ab solvere ovvero sciolto da qualsiasi legame, libero da qualsiasi tipo di impedimento. Non a caso il termine “assolutismo” nacque proprio per indicare una particolare forma di potere che si concentrò nelle mani dei diversi sovrani di Francia a partire dal Trecento fino alla Rivoluzione francese. Nel mondo odierno la finanza, o meglio la disciplina che studia la gestione e l’allocazione dei soldi, non ha più un legame diretto con l’economia. Nata come strumento funzionale alla gestione economica degli Stati e delle imprese, oggi il mondo finanziario è un mondo a sé, pura metafisica: numeri, grafici, tabelle e schemi che appaiono e scompaiono sullo schermo dei computer. Più simile a un gioco d’azzardo piuttosto che ad una scienza economica, perché il senso del suo operare non sta più nel fare impresa ma, più semplicemente, nel fare i soldi.
L’ultimo film di David Cronenberg Cosmopolis, tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, è un capolavoro di lucidità e profondità sulla crisi che stiamo vivendo. Una crisi che, a guardar bene, non è solo economica ma più sottile e radicale: una crisi dell’umanità, ormai in preda ad una vera e propria dissociazione delle relazioni personali («Hai gli occhi blu? Non mi ero accorta» - afferma la moglie rivolgendosi al protagonista nonché marito) e del rapporto degli individui con il mondo. Colpiscono profondamente i sofisticati dialoghi filosofici sul tempo tra il magnate della finanza e la sua “consulente di teoria” all’interno della limousine, mentre fuori dall’abitacolo infuria una violentissima sommossa. Infatti operare con la pura astrazione dei flussi monetari non ha più niente a che vedere con la costruzione economica del lavoro: non conta più produrre e crescere, bensì azzeccare la previsione giusta, perché in finanza si vince anche quando tutti perdono. Guadagna chi indovina quello che accadrà, comprando o vendendo sulla base delle informazioni (vero e proprio mantra insieme al necessario gemello, il controllo) poiché è evidente che il mondo non potrà mai fare a meno delle banche e della finanza. Ecco allora la bulimia del consumo e del possesso stigmatizzati nel ghigno di un perfetto Robert Pattinson che acquista un aereo per 31 milioni di dollari solo per «guardarlo ogni tanto» o che cerca insistentemente di comprare una collezione di quadri di Rothko, non accontentandosi della risposta di un’incredula Juliette Binoche, agente d’arte del magnate, secondo cui certi capolavori non possono essere né venduti né acquistati semplicemente perché appartengono all’umanità. Ma non c’è più né l’uomo né l’umanità quando si perde il contatto con il mondo giocando in borsa come ad una slot machine e ignorando che dietro quei numeri ci sono, in realtà, persone in carne e ossa che perdono il proprio lavoro, la propria vita, oppure quando non ci si sente più il proprio corpo. Non è un caso che il protagonista effettua ogni giorno un check up completo proprio perché non sa più nemmeno lui come si sente veramente. Mentre il sesso non è più una gioiosa e vitale espressione della propria affettività e corporeità ma solamente lo strumento per la liberazione dall’impulso (di vita e di morte direbbe Freud; Eros e Thanatos). Per questo i dialoghi con la moglie vertono su «quando faremo di nuovo sesso», pianificando il ritmo e la frequenza delle copule o si perdono in futili e verbose chiacchiere: parlano tantissimo, ma non si dicono niente. Un gelido rifiuto dell’organico fa da sottofondo all’intero film; come se, sparandosi alla mano, il giovane magnate potesse aspettarsi di non sentire dolore o come se, tagliandosi i capelli dal vecchio barbiere del padre (perfetta metafora di una regressione verso l’infanzia), tutto potesse riacquistare senso, sapore e sostanza. In realtà il viaggio in limousine compiuto a passo d’uomo per le enormi misure di sicurezza messe in atto per la visita del Presidente, viene ad essere un viaggio nell’Oltretomba, verso il proprio destino e il proprio killer.
Non si salva nessuno in questo capolavoro: la filosofa che spreca intelligenza e talento mentre fuori il mondo va a fuoco e fiamme, l’artista specializzato in performance di provocatorie torte in faccia che si muove con i paparazzi a seguito, e perfino i giovani e talentuosi informatici che sembrano possedere le chiavi per comprendere il mondo mentre, in realtà, come ogni ragazzino inesperto non riescono a vedere più in là del proprio naso. Sopra tutti la figura psicotica del protagonista, seduto sul sedile posteriore della macchina come su di un trono degno di un nuovo re. Schermi al posto dei braccioli, vetri blindati e oscurati per confermare a se stessi che l’unico mondo degno di nota è quello del flusso dei dati e delle informazioni di borsa: il mondo che vede ogni giorno affermarsi il connubio tra capitalismo e tecnologia, il mondo che ogni secondo trasforma radicalmente e ineluttabilmente le esistenze di tutti noi.
rossanobaronciani.blogspot.it



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Cosmopolis è un film difficile e indigeribile. Arduo catalogarlo e inserirlo in una scala di valori - c'è chi potrebbe gridare al capolavoro, chi allo scandalo e chi potrebbe soffermarsi su tutte le sfumature tra i due estremi.
David Cronenberg adatta l'omonimo romanzo di Don DeLillo: lo scrittore si fa portavoce dei tempi, interprete della società, giocando con la mente e i flussi temporali. Eric Packer è un ventottenne multimilionario - se non multimiliardario. Una mattina, decide di dare sfogo ad un rituale: aggiustare il taglio. Monta sulla sua lunghissima e ipertecnologica limousine bianca e attraversa la città per raggiungere il suo barbiere di fiducia. Ma in quel giorno sembra che a New York si sia scatenato l'apocalisse: la città è bloccata, si procede a passo d'uomo. C'è in visita il Presidente degli Stati Uniti. Si celebra il funerale di una star del pop. C'è una protesta violenta in corso. In più, ci sono due minacce: una al presidente e una diretta a Eric Packer. Ma il ragazzo non demorde. Deve aggiustare il taglio. Nel corso del tragitto, sulla sua limousine salgono i più disparati personaggi: l'amante, il consulente finanziario, il socio, il medico, il consulente teorico. Tra loro si dipanano dialoghi infiniti, privi di apparente collegamento e logica - alle domande non si risponde o si risponde con tutt'altro. Ogni tanto Eric scende dalla macchina: due volte per incontrare una moglie con cui condivide solo ricchezze, ma non amore; per incontrare un'altra amante; per prendersi in faccia la torta di un dissidente; per aggiustare il taglio; per uccidere; alla fine, per la resa dei conti. L'intenzione – chiarissima – è descrivere la nostra società, priva di storia, di tempi, di luoghi, priva di simboli riconoscibili, ridotta ad un identico ed eterno presente, quella dei soldi, della crisi economica, dei ricchi ricchissimi e dei poveri sempre più poveri, dell'assenza di ideologie, della mancanza di valori, comunicazione e amore.
Cronenberg gira un film ricco di pregi e di difetti.
I pregi. Cronenberg rende benissimo l'idea di situazione soffocante e occlusa. La rende attraverso la ciclicità dei dialoghi che si ripetono ridondanti e si adagiano su se stessi senza dire nulla più di ciò che già hanno detto. Il sonoro si scontra contro sequenze d'un ovattato silenzioso disturbante. Il tempo non è una linea cronologica, è un punto che si ripiega su se stesso. La fotografia è eccelsa, elettrica, algida, fluorescente e riflettente. Comunica molto bene l'idea di un mondo distopico, che poi, però, troppo lontano da noi non è. Un pregio fondamentale è dato dal finale/non finale. Il film non finisce, meglio, si conclude in un nulla, così come è l'esistenza umana contemporanea, che non ha fine, ma si ripete in un ciclo in cui i corpi - anonimi, spersonalizzati - sono tasselli volontari o inconsapevoli di un ingranaggio enorme e indistricabile. Il finale nullo o non-finale è un espediente molto buono, che apre scenari finora poco praticati nelle tecniche di narrazione.
I difetti, tuttavia, si sentono. Il primo, grande e forse unico difetto, quello che trascina ogni altra cosa, è la verbosità. Probabilmente Cronenberg rimane vittima della letteratura a cui si ispira e dimentica che sta girando un film: i dialoghi sono infiniti e snervanti, ridondanti, ciclici, filosofici, troppo chiari. È vero, sono la cifra stilistica dell'intera narrazione: ma il film finisce per reggersi solo sui dialoghi, spazzando via tutto il buono che poteva essere creato. Infatti, in nome del dialogo eccessivamente verboso, Cronenberg gira un'opera fatta di soli primi piani statici, immobili. Al massimo si diletta in controcampi e le uniche variazioni sono la scelta del controcampo interno o esterno. Giocato tutto sul primo piano o sul piano americano, Cosmopolis non approfondisce alcuni elementi registici che avrebbero potuto essere di grande effetto: quei pochi movimenti di macchina, i pochi momenti in cui Eric si muove, sono ridotti all'osso e non analizzati con il dovuto approfondimento.
In fondo, il cinema è immagine: le storie si raccontano per colori, azioni, inquadrature, movimenti di macchina e, sì, anche dialoghi, ma entro certi limiti. O, meglio: il dialogo o il monologo verboso possono andar bene purché vi corrisponda uno degli elementi preponderanti del cinema, la costruzione dello spazio. Il cinema ha saputo fare ciò che altre arti non possono fare: la costruzione dello spazio attraverso il montaggio, spazio che può essere molto più grande o molto più piccolo di quello reale; può essere inverosimile, onirico, essenziale. Cronenberg rinuncia a costruire uno spazio, non ne costruisce né uno credibile, né uno onirico, ma crea solo quadri. I suoi dialoghi non sono attentamente supportati dal cinema, rimanendo una mera elencazione di parole, domande e frasi che si sarebbero potute leggere direttamente nel libro.
Rinunciando allo spazio e alla sua costruzione, Cronenberg gira un un antifilm.
Si possono enumerare film su film in cui la verbosità accompagna il cinema (e viceversa). Basta citare il recente Faust di Sokurov. Ma basta pensare ai dialoghi - peraltro neppure troppo pomposi - che Godard mette in bocca ai suoi protagonisti ne Il Disprezzo, creando corridoi e muovendo sinuosamente la macchina da presa tra un corpo nudo, una frase, un letto, un quadro, una finestra. Esempi altissimi. Che dire di Lynch? Lynch dimostra che si può fare filosofia con le immagini. Il doppio, il sogno, il tunnel tra mondi paralleli, il ragionar sulla finzione e lo statuto della realtà... Lynch costruisce spazi di una complessità inusitata, spazi che però fanno il cinema, spazi in cui il cinema vince: e i dialoghi, seppur strani, allucinati e allucinanti, vengono assorbiti bene dalle immagini, dando subito un senso inesplicabile, ma comprensibile. E, soprattutto, rendendo il film fruibile.
Il senso, al cinema, si genera dalle immagini.
Cronenberg, invece, spiega tutto: parla dei soldi, del tempo, svela a parole anche il mistero del film (l'asimmetria, l'incontrollabilità degli eventi, il caso). Alle immagini lascia poco. Se avesse lasciato parlare le immagini più che gli attori, riducendo i dialoghi all'osso o comunque limandoli, avrebbe creato un film molto più convincente, più onirico, inquietante e disturbante (nel senso positivo dei termini).
Convince, infatti, quando dà spazio all'inquadratura: convince quando alla fine Eric cessa di parlare, sente, esplora un luogo abbandonato e caotico, reso bene nelle sue potenzialità soffocanti, oniriche, facendo scorrere addosso allo spettatore la tensione. Il dialogo finale col suo possibile carnefice è supportato da una migliore divisione in inquadrature e spazi, ma finisce ugualmente per essere ridondante più del dovuto.
La ridondanza è la cifra stilistica di questo film, si è già detto, ma avrebbe potuto essere ottenuta con più cinema e meno letteratura.
Pattinson si cala bene nella parte. Parla, si esprime, ma non sente. Geniali solo i dialoghi tra Eric e la moglie – gli unici ad avere un mordente cinematografico. L'aspetto fisico del protagonista muta nel corso del film, ma la sua anima (se mai esiste) è spenta: unici sussulti – ma solo dello spettatore – sono i colpi di pistola, inaspettati e azzeccati. Eric vuole provare emozioni forti, ma continua a non sentire: il suo personaggio, volutamente, rimane indifferente allo spettatore. In questo, l'attore ha fatto un buon lavoro, cosa di sicuro di gran rilievo per la sua carriera, dal momento che, recitando per Cronenberg in un film difficile e comunque da vedere, si è tolto di dosso la maschera del vampiro.
sguardinotturni.blogspot.it
[Modificato da |Painter| 02/07/2012 15:01]
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