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Noi siamo a Cosmopolis - analisi

Ultimo Aggiornamento: 23/06/2012 18:47
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Sesso: Maschile
23/06/2012 18:47


NOI SIAMO A COSMOPOLIS


Cosmopolis è stato snobbato dalla Cannes di Nanni Moretti ed è un peccato.
David Cronenberg firma, su invito del produttore, e suggerimento ispirato del figlio del produttore, Paulo Branco, questo spietato e straniante adattamento cinematografico del romanzo dell’osannato scrittore americano Don DeLillo.
Come interprete principale nella parte di Eric Packer il regista canadese ha scelto, per ripiego al posto di Colin Farrell, impegnato nelle riprese del remake di Total Recall, quel Robert Pattinson, attore di culto tra teenagers pruriginose e famoso ai più per il suo ruolo nella saga Twilight. Adesso qualche maligno potrà pensare ad una scelta meramente commerciale, vista l'immensa fama di cui gode il giovine vampiro. Io voglio credere invece che il caso, e il fiuto di Cronenberg per gli attori capaci d’interpretazioni eccezionali, abbiano stavolta giocato a favore di una trasposizione del personaggio quanto mai riuscita ed efficace. Pattinson è adeguato all’immagine di un ragazzo miliardario che nell'arco di una giornata in un viaggio, breve nella distanza ma infinito nel tempo, muterà se stesso radicalmente e si ritroverà faccia a faccia con la fine del mondo, più precisamente la fine del suo mondo.
Il film apre con un carrello che ci mostra una fila di bianche, identiche limousine con relativi piloti in divisa d’ordinanza per staccare poi su un annoiato Eric Packer in compagnia del suo capo della sicurezza Torval, un granitico Kevin Durand già uomo-cane Joshua nella serie tv Dark Angel e Blob, il mutante inamovibile, in X-Men le origini: Wolverine.
Packer, cognome caratterizzante che può essere tradotto in italiano col significato di confezionatore, imballatore, decide di recarsi dal barbiere di famiglia per farsi “aggiustare il taglio”. Il giovane non ha un capello fuori posto e sembra appena uscito da una pagina di Vanity Fair, quindi la sua insistente richiesta appare un pretesto evidente per mascherare un bisogno prepotente di tornare alle origini, all’infanzia, alla ricerca d’emozioni che non prova più da tempo. Di fatto nonostante la giovane età, Packer è bruciato dalla sua condizione: un ricco erede a capo di un impero finanziario opprimente che lo ha portato ad isolarsi dal mondo reale.
Torval da qui in poi tenterà inutilmente di dissuaderlo, poiché nella Manhattan che dovranno attraversare, centro culturale e finanziario e massimo emblema mondiale delle contrapposte anime di una New York cosmopolita, si terrà una manifestazione di protesta ed è prevista inoltre la visita del presidente in città; due eventi che paralizzando il traffico potrebbero rallentare il viaggio e mettere in pericolo la vita del rampollo. È bellissima la domanda “Presidente di cosa?” che Packer rivolge a Torval; esprime tutta la sua lontananza da questioni terrene e rimanda allo stesso quesito pronunciato dal ribelle Iena in 1997 Fuga da New York di Carpenter.
Entriamo finalmente nell’oggetto che è il vero co-protagonista del film: la limo.
La lunga automobile è un’astronave futuristica atta a contenere il suo passeggero alienato e ne riflette interamente la personalità. Forse questo è il carattere del romanzo che stavolta ha affascinato di più Cronenberg, da sempre attento al rapporto uomo-macchina, oltre al potere del capitale marxiano, qui espresso come entità spettrale con una vita propria, decadente e dominante sui rapporti tra gli uomini, di qualsiasi ceto e classe sociale.
La macchina ha i pavimenti di marmo ed è blindata e insonorizzata per proteggere Packer dal mondo esterno ma soprattutto per non subirne l’intrusione, per garantirgli l’isolamento massimo. È la sua estensione del corpo e della mente, riempita di strumenti tecnologici con i quali s’interfaccia col suo pianeta sterile fatto di previsioni numeriche, di scambi matematici alla perenne ricerca di una perfetta simmetria d’acquisto che si rivelerà fragile e crollerà come un castello di carte riducendolo sul lastrico per un investimento infallibile giudicato con arroganza e per questo punito dal caos. Ho riflettuto anche su questo punto poiché secondo me il gioco in borsa al massacro rientra nelle intenzioni di Packer, genio calcolatore con forti doti di preveggenza, descritte lungamente nel romanzo e nel film solo accennate, di liberarsi volontariamente dalla schiavitù del rappresentare quello che è diventato e non vuole più essere. La sua profonda trasformazione è ben riprodotta in crescendo anche attraverso l’abbandono d’oggetti. Ad ogni incontro con l'algida moglie poetessa, Elise Shifrin interpretata da Sarah Gadon, Packer perde un pezzo; ora la cravatta ora la giacca, fino ad arrivare sporco e trasandato al finale smarrendo volontariamente integrità morale e fisica. Ciò avviene spesso, come fosse un segnale da lanciare alla consorte, dopo gli scontri di sesso con le sue amanti, che disperatamente, nella psiche bisognosa di una figura da amare desidera sostituire con la frigida moglie, sposata come in un matrimonio combinato di stampo medievale per unire due ricche famiglie. La virginale coniuge, purtroppo per Packer, resta fredda come la morte agli inviti; è una perfetta sconosciuta, un androide trendy che si accorge stupita che il marito ha gli occhi azzurri, quando lui si toglie gli occhiali in un bar.
Il loro rapporto, così descritto dagli autori, vince l’esame col massimo dei voti alla scuola dell’incomunicabilità.
Tornando alla limousine, l’ambiente rappresenta anche il castello errante di Packer, con tanto di trono, dove il sovrano riceve la visita dei suoi amici vassalli. I personaggi entrano e spariscono a stacco, come pensieri fugaci che si archiviano nella memoria, ognuno col suo carico d’umanità. Tra questi spicca la gallerista amante con l’istinto materno Didi Fancher, un grazie a Juliette Binoche, che è fondamentale nell’impartire una lezione di vita al capriccioso e ostinato novello Richie Rich nel fargli capire che non può comprare la Rothko Chapel perché è un’opera d’arte che deve appartenere al mondo e non ad un uomo solo, perlopiù se ossessionato dal possesso incondizionato attraverso il denaro di cui non conosce nemmeno il reale valore non avendolo nemmeno mai trattato materialmente. Un’altra visita inquietante è quella del medico incaricato di fare un check-up completo quotidiano all’ipocondriaco Packer che si trasformerà in un insolito trio erotico con la presenza di una sudata ed eccitata Jane Melman, Emily Hampshire. Assistiamo anche alle incursioni di Shiner, Jay Baruchel, e Michael Chin, Philip Nokuza, coetanei di Packer rappresentativi delle nuove generazioni e dei nuovi ricchi cresciuti a pane e computer, da annoverare tra le parole ormai obsolete, e inseparabili dai loro aggeggi informatici, ai quali il capo si rivolge sferzante come se sfruttasse il potere dell’anzianità, un salto generazionale che invece è minimale. L’apparizione raggelante della tutrice severa di Vija Kinski, Samantha Morton, poi è fra i momenti migliori del film.
Nella teatrale immobilità in movimento della limousine, Packer subisce una trasformazione graduale che si accentua ogni volta che ne esce, come quando si trova ad un rave party dove un ragazzo come lui dovrebbe trovarsi nella mischia invece di assistere distaccato e depresso dalla balconata o come quando è sbeffeggiato e preso a torte in faccia da Andre Petrescu, Mathieu Amalric, come lo sono stati i suoi omologhi reali Bill Gates e Rupert Murdoch.
Eric Packer è stanco e ha perso tutto: i soldi, la moglie, la fiducia nella visione personale del mondo. Oltre ai capelli, da un taglio al controllo sulla sua persona liquidando il capo della sicurezza, con una pistola dall’attivazione vocale al nome di Nancy Babich, e qui spunta la mania per le armi di Cronenberg in affinità col personaggio, maniaco, esperto e grande collezionista.
David Cronenberg ad un certo punto tira bruscamente le redini e il film vira imboccando una strada diversa fino al finale che il regista, con un colpo di genio ulteriore, lascia sospeso.
Il lungo confronto confessione, tra un Giamatti strepitoso e un Pattinson coraggioso che ha dovuto reggere di peso tutto il film su primi piani insistiti e sulla recitazione monocorde, addiziona a Cosmopolis un valore prezioso concludendo in maniera egregia il viaggio di Eric Packer e dello spettatore.
Per realizzarlo tecnicamente il regista ha voluto intorno a se professionisti di fiducia: Peter Suschintsky cura una splendida fotografia, Howard Shore minaccia con musiche infilate col dosimetro per non creare disturbo agli asettici dialoghi, Denise Cronenberg, al solito, si occupa dei costumi.
Cosmopolis è un film rigoroso fitto di dialoghi serrati, che Cronenberg ha mantenuto uguali al libro per non perdere la forza di DeLillo nel descrivere il senso di catastrofe incombente che aleggia sul mondo occidentale per tutto il film-libro.
La valenza flessibile, ambigua e polivalente intrinseca nel significato del titolo del film che riconduce al termine attualmente in uso “globalizzazione” è raffigurata da Cronenberg e DeLillo in una forma apocalittica, avversa contro un sistema economico tecnocratico, e nel film l’ostilità ha il suo apice nel duro attacco al Fondo Monetario Internazionale e nel mostrare protestanti suicidi in fiamme. Si assiste allo sgretolamento metaforico del concetto di stato nazione globale basato sul predominio dell’economia, lo stesso che ha contribuito ad aumentare il divario tra ricchi e poveri, ha incrementato la violenza e l’intolleranza tra culture e popoli, ha soffocato l’amore e i rapporti umani annegandoli in un mare di tecnologie.
Ci sono film già dimenticati all’uscita dal cinema; Cosmopolis non è sicuramente tra questi.
L’amerete o l’odierete. Il mio consiglio in ogni caso è di guardarlo, riflettere e poi vederlo nuovamente e poi...
In fondo noi in Cosmopolis esistiamo.
Hal, splattercontainer.com

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