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RECENSIONI - Rassegna Stampa /5

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2012 16:06
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Sesso: Maschile
12/06/2012 16:06


COSMOPOLIS
Rassegna Stampa /5



CRONENBERG SFIDA IL PUBBLICO
Per uno di quei curiosi giochi del destino, al festival di Cannes 2012 erano in concorso due film molto attesi tratti da due romanzi molto amati: On the Road di Walter Salles, dal capolavoro di Kerouac, e Cosmopolis di Cronenberg tratto dall'omonimo romanzo di De Lillo. Per altro, sono i due estremi del grande mito americano del racconto di viaggio: On the Road ne è evidentemente l'apoteosi, De Lillo invece, e quindi Cronenberg, ne rappresentano invece la parcellizzazione, il suo disfacimento, la sua riduzione ai minimi termini.
Perché l'epopea beat di Kerouac, la libertà assoluta sullo sfondo della Route 66, in Cosmopolis diventa la costrizione dentro una macchina per percorre con infinita lentezza i pochi chilometri che separano il più ricco degli uomini dal suo barbiere. Un anti-romanzo (nel senso che si dà all'Ulisse di Joyce), così come in un certo senso quello di Cronenberg è un non-film. Perché per adattare quello che è uno dei libri contemporanei meno adattabili in assoluto (un personaggio che non fa nulla, che sa e osserva e interagisce solo attraverso lunghi dialoghi complessi con personaggi ora bizzarri ora inquietanti), Cronenberg si è dovuto svincolare del tutto dallo schema narrativo figlio dei generi che ha caratterizzato sempre il suo grande cinema, dall'horror alla fantascienza, dal noir al melodramma. E allora ecco che l'odissea da fermo di Eric Packer (un Robert Pattinson sorprendente e preso del tutto contro ruolo) diventa la celebrazione dell'incubo americano, la morte dell'utopia e la nascita del fallimento: il libro di De Lillo è del 2000, ma sembra che sia stato scritto ora nel descrivere uno speculatore finanziario che va in crisi quando si accorge di non aver previsto l'andamento dello yuan. Attorno a lui sfila, letteralmente, una rivolta che diventa funerale e poi terrorismo contro un singolo uomo, così se Kerouac nel suo viaggio da un lato all'altro dell'America racconta l'imperituro mito della frontiera e della libertà eccessiva, l'ingorgo che porta al limite dall'altra parte di New York e il simbolo delle carceri mentali, economiche, politiche, umane che ci siamo costruiti tutti i giorni. In 24 ore (108 minuti di pellicola), il film racconta un'intera Apocalisse, partendo dai suoi germi e raccontandone scoraggiato le conseguenze, in un finale lungo 20 minuti di dialogo tra Eric e il suo aguzzino, un favoloso Paul Giamatti. E lo fa in modo costantemente straniato e stranito, per rendere l'impasto grottesco di filosofia e saccenza, di dialoghi altissimi resi ridicoli dal modo in cui i personaggi li dicono. È un film satirico quello di Cronenberg, così come il romanzo, che prende di mira gli imperi degli anni 2000 costruiti sulle informazioni, sul sapere, ma più che altro sul controllo del (proprio) mondo e sulla divinità di cui abbiamo ricoperto il denaro credendoli infallibile, onnipotente. E il controllo del mondo, in questo caso della materia filmica che si ha di fronte, diventa anche il cuore del film, in cui l'uso del dialogo, del campo-controcampo, dei parchi movimenti di macchina, ma anche delle parole e dei gesti degli attori, come divisi "politicamente" in classi, tra chi vuole essere il mondo (la borghesia economica) e chi ne fa solo parte (il popolo, i lavoratori). Cosmopolis non addomestica la materia letteraria, non rende l'Ulisse del 21° secolo qualcosa di accattivante, di "cinematografico" in senso comune, ma spinge proprio sul piede dell'anti-spettacolarità, scava a fondo nei limiti di un soggetto simile e lo riveste a suo modo di puro cinema. Merito del produttore Paulo Branco, nume del cinema d'autore europeo, che ha convinto prima Cronenberg a leggere il libro e poi a realizzarne il film su approvazione dello stesso DeLillo: il suo tocco nella realizzazione di molti dei film di De Oliveira ha investito di leggerezza e densità lo stesso Cosmopolis, come se il corpo del regista canadese, fatto di ossessioni formali (la geometria, la sconfitta della mente contro i bisogni del corpo, il découpage non-narrativo, oltre che anti-classico), si fosse vestito del fecondo e "giocoso" cerebralismo del portoghese. Merito del genio di uno dei migliori registi in attività: il percorso glaciale che dall'epica della nuova carne degli anni '80 è arrivato a quella della nuova mente (eXistenZ), passando per Crashe Spider e approdando al cuore della società, come nel magnifico A History of Violence, giunge con Cosmopolis al suo capolinea, al fallimento totale di ogni forma di vita o pensiero possibili. E se ci si può lamentare della verbosità dell'insieme, della difficoltà di entrare e capire a fondo il cuore del film, è perché Cronenberg non ha avuto paura di De Lillo, della sua sfida quasi insormontabile, sfidando a sua volta il pubblico. Uno dei motivi per amare Cosmopolis è nel modo in cui il film costringe a pensare, a riflettere sulla forma del film che è anche la sua sostanza. Perché è un film che chiede al suo pubblico di oltrepassare i concetti corrivi e bolsi di racconto, di divertimento o noia: lo obbliga, a meno che non lo si rifiuti - ed è un atteggiamento comprensibile -, a fare i conti con se stesso e coi propri limiti razionali e analitici. Non in nome della poesia pura, come faceva The Tree of Life di Malick l'anno scorso, ma del suo esatto opposto. Durante il dialogo finale, Eric dice «Odio ragionare». E fa suo l'atteggiamento di molti spettatori contemporanei. È su questo odio che si basa il confronto tra Cosmopolis e il suo pubblico. Stando alle reazioni negative di Cannes (e non solo), Cronenberg ha vinto la sfida. E quindi ha perso (gli spettatori). Perciò, tutto calcolato.
Emanuele Rauco, opinione.it



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Inutile Ulisse
Dedalo, Icaro, Proust e Joyce e la crisi del capitalismo. In Cosmopolis Cronenberg affastella troppi temi

Uno spettro si aggira per il mondo... Questo si sente e si legge (su un muro, in una scritta luminosa) in Cosmopolis (Francia, Canada, Portogallo e Italia, 2012, 108'). L'ovvio riferimento è a Karl Marx, anche se non del comunismo ora si tratta, ma del capitalismo. Anzi, della sua fase senile, elegante e crudele come sa essere il dominio finanziario del pianeta. E non è questa la sola citazione colta nel film che David Cronenberg ha scritto e girato a partire da un romanzo di Don DeLillo. Oltre all'autore del "Manifesto", sono chiamati in causa almeno Marcel Proust - come la sua stanza, la limousine del ricchissimo Eric Packer (Robert Pattinson) è foderata di sughero - e il James Joyce dell'"Ulysses".
Al pari del giovane irlandese Stephen Dedalus, il giovane finanziere newyorkese Eric attraversa la sua città nel corso di una giornata. Il viaggio inizia una mattina con la ricerca di un barbiere che gli aggiusti il "taglio", e termina nel buio della notte davanti alla pistola puntata di Benno Levin (Paul Giamatti), il terrorista la cui attesa segna per intero Cosmopolis. Con il suo nemico mortale Eric s'è appena concesso una pausa filosofica - così la chiama - d'una ventina di minuti, durante la quale l'altro gli ha enumerato tutti i motivi per cui è necessario che lo uccida. Quanto a lui, gli ha opposto argomentazioni confuse, ma non tanto da nascondere il filo di nichilismo che l'ha accompagnato per tutto il film.
La questione cui Cronenberg si applica è complessa. Il suo novello Ulisse è un re in trono (sul sedile posteriore della limousine, naturalmente), intento a dominare l'umanità e a deciderne le sorti con l'ausilio d'ogni tipo di marchingegno informatico. Ma è anche un novello sposo pieno d'energia e affamato della moglie Elise (Sarah Gadon), bella e ricca ma inappetente. Per sua fortuna, le Circe e le Calypso non mancano, vuoi nelle ristrettezze lussuose dell'auto, vuoi in più comode suite d'albergo. Intanto, le strade della metropoli sono percorse da orde di manifestanti, che agitano topi più o meno morti, proponendoli come nuova unità monetaria. E a un certo punto la vicenda di questo doppio del Dedalus di Joyce è accostata alla caduta di Icaro, figlio mitico del mitico Dedalo. Insomma, che sia merito di DeLillo o colpa di Cronenberg, Cosmopolis è zeppo di allusioni, citazioni, pensieri variamente profondi, preoccupazioni per le sorti del mondo e ubbie personali. In più, vaga in ogni dove quel tale spettro. Un po' troppo.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore



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Pattinson bello e tragico nel ritratto di Cronenberg
Potrebbe essere definito «un giorno nella vita del giovane miliardario Eric Packer», ma anche «un giorno in cui tutto quello che succede non è altro che la rappresentazione di una crisi totale», attraverso la quale gli Stati Uniti, e più in generale la società occidentale, dimostra la sua sconfitta. Il film, che si intitola Cosmopolis ed è tratto, come si sa, dal breve romanzo omonimo di Don DeLillo e diretto da David Cronenberg, non tanto rappresenta una città «universale» quanto piuttosto il viaggio di una persona verso la propria fine e, più in generale, verso il crollo di un modo di vivere e di pensare che ha costituito secondo DeLillo e Cronenberg - il carattere saliente di una civiltà.
In questo senso tanto il testo letterario quanto le immagini costituiscono il filo conduttore di un racconto che, per essere compreso e interpretato correttamente, deve essere seguito con grande attenzione. Tutto si svolge a New York dal mattino alla sera in un giorno caratterizzato dalla presenza del Presidente degli Stati Uniti e da una serie di fatti gravi e preoccupanti che ne limitano la percorrenza in automobile. Eric Packer vuole andare a farsi tagliare i capelli da un parrucchiere che vive in periferia ed era amico di suo padre, ma durante il lungo percorso nella sua lussuosa e tecnologica limousine affronta una serie di situazioni di varia natura: dall’erotismo praticato con diverse donne alla finanza che distrugge la sua ricchezza, dall’incontro con la giovane e ricca moglie allo scontro con gli anarchici, sino al rischio di essere ucciso da un suo ex-dipendente.
Ed è questa conclusione tragica, che in realtà rimane aperta a ogni possibile interpretazione, a costituire la fine di una rappresentazione che si svolge, di sequenza in sequenza, lungo il tracciato (quello di DeLillo) che trasforma una narrazione in una analisi critica della civiltà occidentale. Cronenberg riprende il testo di DeLillo e lo usa, parola per parola, per costruire il personaggio di Eric Packer e il suo comportamento con gli altri personaggi con i quali ha diversi rapporti; ma soprattutto si limita, con il suo stile semplice e lineare, a illustrare una storia con al centro un giovane attore di grande talento come Robert Pattinson. Ed è questo ritratto, intenso e drammatico, bello e tragico, a fornire allo spettatore la chiave di lettura di un film che, a ben guardare, apre una serie di problemi esistenziali che non possono passare inosservati. Se la giornata finisce forse con la morte di Eric, è tuttavia piena di elementi personali e collettivi che illustrano la fine di un modo di vivere.
Gianni Rondolino, La Stampa



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A differenza della memorabile edizione dello scorso anno, il Festival di Cannes 2012 sembra stia regalando una serie di delusioni. Quasi tutte le pellicole più attese non stanno convincendo, e qualcuno sperava in un colpo di coda grazie a David Cronenberg e al suo Cosmopolis, proiettato oggi alla kermesse in contemporanea con l’uscita italiana. Purtroppo la realtà è diversa.
Il visionario regista canadese porta sul grande schermo l’adattamento dell’omonimo romanzo di Don DeLillo: non è stata una sua personale idea, a differenza del suo solito, ma sono stati i produttori Paulo e suo figlio Juan Paulo Branco a proporglielo. Cronenberg si è subito innamorato del progetto e ha scritto il primo adattamento della sceneggiatura in pochi giorni.
Sostanzialmente ha lasciato invariati i numerosi ed intensi dialoghi del romanzo, riempiendo i vuoti e adattandolo ad un contesto di estrema attualità. Si capisce già dai primi minuti che Cosmopolis sarà un film interamente parlato, privo di azione e basato sulle qualità recitative dei suoi interpreti. La prima metà della pellicola funziona benissimo, in un crescendo di tensione ed angoscia.
Eric Packer (Robert Pattinson) è un ventottenne diventato miliardario grazie alla sua intelligenza, intraprendenza e sfruttando ogni sotterfugio che l’economia attuale, sempre più legata a modelli matematici e broker senza scrupoli, offre a giovani come lui. Connesso al mondo della finanza 24 ore su 24, Eric cova dentro di sé una paranoia crescente condita dal fatto che non tutto è oro quel che luccica, e i suoi miliardi rischiano di scomparire da un momento all’altro così come sono arrivati. Nonostante Manhattan sia paralizzata dall’arrivo del presidente degli Stati Uniti e da una manifestazione anticapitalista, il giovane decide di andare a tagliarsi i capelli dall’altro lato della città sfidando il traffico, i manifestanti ed una minaccia potenziale di morte.
È la sua lussuosa limousine bianca il set della pellicola. Ipertecnologica e sicura, è il nido di Eric dove incontra tutti i suoi più stretti collaboratori, amanti e dottori. È ossessionato anche dal suo stato di salute, e quotidianamente si sottopone ad alcuni check up, visto che ha un ecografo nella limo e medici pronti ad esami prostatici in movimento (scena e dialogo spettacolare).
“Una persona nasce con una parola, e può venire distrutta da una sillaba” è la frase che meglio definisce la sua angoscia quotidiana, la paura di scomparire, di perdere tutto, di morire. È incapace di rallentare, anche solo di fare un passo indietro perché “non si può tenere in bocca una chewein gum senza masticarlo…“. Con ognuno dei personaggi che va a trovarlo nella limo (come Juliette Binoche, Samantha Morton e Jay Baruchel) riusciamo ad assistere ad un pezzo dell’analisi e della critica di DeLillo, alla finanza dove anche i nanosecondi sono importanti, ai modelli matematici privi di contatto con la realtà, ai cyber dollari, in sostanza al “denaro che parla a sé stesso“.
I dialoghi sono tesi, la tensione cresce così come la rivolta attorno alla macchina e al protagonista, e ci si aspetta un atto finale col botto! …che invece non arriva. Dalla metà in poi il film crolla gradualmente su di sé, con una serie di scene senza senso e fino ad un confronto finale (con Paul Giamatti) piatto, prevedibile e sostanzialmente molto noioso: non è all’altezza dei dialoghi precedenti e non porta ad una vera riflessione come nelle altre scene. Insapore, inutile e deludente, davvero un peccato. Non so quanto sia fedele al romanzo quest’ultima parte, e la pellicola porta ad aver voglia di leggerlo per estendere ed approfondire l’analisi dello scrittore e per vedere se la conclusione è la stessa.
Capitolo Pattinson: avrei preferito vederlo in lingua originale, ma a mio giudizio offre una discreta interpretazione. È lontano il minimo sindacale da lui sfoderato nella saga di Twilight, e se un regista come Cronenberg lo ha scelto… Qualcuno dirà che ha solo due espressioni, altri parleranno della sua migliore interpretazione (un po’ come avvenuto con la Keira Knightley di A Dangerous Method).Un Ryan Gosling sarebbe stato memorabile nei panni di Eric, ma Pattinson non delude. Buoni anche tutti gli altri interpreti, compresa la bambolina di porcellana e finta-tonta Sarah Gadon (la neosposina di Eric). La sensazione è però quella di aver visto molte altre prove di qualità superiore per ognuno di loro, sia della Binoche ma anche dello stesso Giamatti: per il caratterista è impossibile recitare male, ma ho in mente tante altre pellicole dove ha saputo fare nettamente di meglio (Le Idi di Marzo recentemente, giusto per citarne una). Vuoi i dialoghi, vuoi la noia, non mi ha convinto.
In sostanza Cosmopolis è una semidelusione che merita certamente il rispetto di essere approfondita in tutti i suoi elementi, a partire dalla storia di base, prima di essere giudicata insindacabilmente. Quello che è certo è che non è un nuovo capolavoro di David Cronenberg.
Leotruman, blog.screenweek.it



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Prolisso sopra ogni limite, soprattutto per un artista della fisicità come David Cronenberg. Retorico fino allo stremo, a tratti sterilmente morboso, legato in maniera quasi parassitaria all’attualità e allo stesso tempo incredibilmente incapace di afferrarla con mano ferma, di interpretarla in maniera esaustiva. Ma sono davvero un limite, questi parametri scordati e inattesi dell’ultimo film del grande regista, presentato in concorso al Festival di Cannes? La risposta non è affatto scontata.
Affidato quasi completamente alle spalle ancora non troppo mature dell’idolo delle teenager in cerca di riscatto artistico Robert Pattinson, Cosmopolis è il risultato dell’adattamento dell’omonimo romanzo di Don De Lillo. L’idea, sembra quella di rappresentare una discesa agli inferi dell’opulenza occidentale, per mezzo del viaggio dal centro alla periferia di New York intrapreso da un giovane multimiliardario. Lo stereotipo perfetto di quel self-made man che da secoli domina i riferimenti culturali del Nord del Mondo, e di cui Cronenberg vuole esplorare la versione tanto più oscura quanto più aggiornata: il genio della tecnologia e della finanza, in grado di manovrare un enorme potere solo con il rapido gesto di un dito su un touchscreen, ma ovviamente anche ipocondriaco, maniacale, incapace di stringere vere relazioni umane, parimenti ossessionato e affascinato dalla perdita di ciò che ha di più prezioso al mondo. Che non sono i soldi ma il controllo. Non sarà propriamente originale, ma d’altra parte si tratta di un’icona che il regista si diletta a smontare, non a costruire, per cui c’è poco da obiettare. Al limite, ci si può chiedere se un interprete con un po’ più di esperienza di Pattinson non sarebbe riuscito a dare più vigore a un protagonista in realtà un po’ spento e poco incisivo.
Tornando al tema del viaggio, quasi tutto il percorso si svolge all’interno di una limousine, che come si spiega nel corso del film, evoca già di per sé il concetto di una crescita ipertrofica: una macchina che nasce dallo sventramento di altre macchine, mutilate e riassemblate con il solo scopo di essere uno status symbol esibizionistico ed eccessivo, volutamente troppo grande per l’ambiente in cui si muove. Nella visione del regista, il corpo della macchina diventa poi la metafora della sottile ma infrangibile cortina che divide il protagonista del resto del mondo. All’interno, il miliardario riceve amanti, amici e sottoposti, con cui scambia dialoghi densissimi di riflessioni acute sulla realtà che li circonda. Dialoghi lunghi ma incalzanti, anche fastidiosi nel loro beato isolamento e nella loro ammaliante perfezione. Alcuni sono destinati a colpire, altri fuggono via troppo veloci, ma in realtà tutti passano in secondo piano rispetto al vero punto focle del film, vale a dire tutto ciò che viene lasciato “fuori” dalla limousine. Un “fuori” che ormai sembra diventato l’ossessione (in senso positivo) di diverso cinema che ha l’ambizione di rappresentare il nostro oggi. Non una generica contemporaneità, ma una precisa atmosfera tecnocratica neodecandente, che da Cosmopolis trasuda senza mai fermarsi.
Per questo l’esperimento di Cronenberg risulta interessante, nonostante qualche ruvidità e qualche banalità nella realizzazione. Cosmopolis riesce a raffigurare il senso di oppressione, di angoscia e di fine imminente che sempre di più si fanno la cifra di un’epoca, senza tuttavia pretendere di essere un film-bandiera o peggio un film-verità. La sua imperfezione è anche sintomo di una metabolizzazione non ancora avvenuta, di una pallottola ancora in canna che nessuno di noi sa se sarà sparata oppure no. Il suo restare sospeso è il suo difetto, e allo stesso tempo la sua dote più inattesa: a un mondo che si muove alla velocità di un trilionesimo di secondo (la definizione è nel film) oppone la lentezza interminabile di una giornata vissuta sull’orlo del baratro, non solo economico ma anche umano. Sembrerebbe quasi un incompiuto, anche per la quantità di personaggi che entrano ed escono dal quadro in maniera fugace e non sempre decifrabile (tra questi, ricordiamo Juliette Binoche, Samantha Morton e Paul Giamatti) ma anche questa caratteristica possiede un suo fascino. Peccato per la recitazione un po’ piatta di Pattinson, ma a sua discolpa bisogna ammettere che si è fatto carico di un ruolo colossale e di estrema difficoltà.
laura.c, blog.screenweek.it



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In una New York piombata nel caos, a causa del tracollo incombente della borsa, Erik Packer, cinico magnate dell’alta finanza, si imbarca nella sua limousine per raggiungere una meta all’apparenza semplice: il suo barbiere di fiducia situato dall’altra parte della città. David Cronenberg, dopo aver affrontato il tema del subconscio in A Dangerous Method, si inoltra insieme al suo protagonista (interpretato da Robert Pattinson) nell’Odissea moderna e profetica (oggi più che mai) di 24 ore, scaturita dalla penna di Don DeLillo. Il tutto fa’ pensare ad una scelta perfetta. Chi meglio di Cronenberg può portare sullo schermo in maniera così viscerale tematiche come l’ossessione, la violenza, il sesso o il tormento fisico e psicologico dell’essere umano. Eppure questa volta le aspettative, esaltate anche dai trailer accattivanti, non sono state rispettate. Il film, nonostante gli spunti e l’ambientazione interessanti che offre (buona parte è girato all’interno di una limousine), delude.
Cosmopolis è un film esasperante ed estenuante, costruito su sequenze di dialoghi  filosofici a volte dilungati fino all’estremo; ogni pensiero espresso dai personaggi si trasforma in un fiume in piena, saltando, è il caso di dirlo, “di palo in frasca” senza alcuna sequenza logica. A lungo andare la sceneggiatura (scritta dallo stesso Cronenberg in sei giorni) premia lo spettatore con qualche sorriso, ma nulla di più. Né la regia, estremamente statica e priva di inventiva, né l’interpretazione degli attori convincono del tutto: Pattinson, scelto probabilmente appositamente per la sua fissità espressiva, fa’ quel che può nel cercare di limitare i danni, risultando ancora impacciato ma riuscendo tra alti e bassi a comunicare il lato chiuso, malato e introspettivo del suo personaggio. La Gadon insieme alla Binoche e alla Amalric risultano convincenti, ma a brillare su tutti è la prova attoriale, seppur breve, di Paul Giamatti. Cronenberg fallisce nel tentativo di rendere Cosmopolis una sorta di incubo a occhi aperti, sospeso tra suggestione e realtà distorta, in cui il disagio particolare, sia fisico che mentale, di Packer, vissuto all’interno del suo ambiente protetto, riflettono quello macroscopico del mondo circostante. Quando poi le due dimensioni collimano, l’inarrestabile e folle discesa verso l’autodistruzione è inevitabile.
Cosmopolis è un film apatico, freddo e logorroico, un viaggio a vuoto. Il film è in concorso al Festival di Cannes
Martina Vitelli, newscinema.it



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C’è stato un tempo in cui il solo nominare “David Cronenberg” provocava brividi di eccitazione. Autore di storie bizzarre, regista di pellicole eccentriche, fautore di universi meticci, Cronenberg si è subito distinto nel panorama cinematografico per la sua stravagante visionarietà. Dopo aver scritto importanti pagine della storia del cinema, Cronenberg ha realizzato la “trilogia della violenza”, un trittico di pellicole che hanno teorizzato l’importanza capitale di lenire e soffocare, quanto più possibile, il dolore.
Negli ultimi tempi, però, sembra aver subito una battuta d’arresto e, dopo il poco riuscito A Dangerous Method, non è ancora stato capace di attutire il colpo. La sua ultima fatica, infatti, Cosmopolis, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo postmoderno di Don DeLillo, sembra il frutto di un autore affaticato, depresso e stanco di lottare per affermare le proprie idee.
Eric Packer è un giovane miliardario che possiede tutto ciò che potrebbe desiderare dalla vita, tranne la felicità. Abituato a vivere in assoluta agiatezza, crede fermamente di poter comprare qualsiasi cosa con il denaro, unico valore di scambio che conosce. Mentre il Presidente americano si reca a New York per una visita di piacere, bloccando l’intera città, Eric decide di farsi condurre in limousine dal barbiere di famiglia, una bottega nei quartieri più malfamati della Grande Mela. Durante il viaggio, però, il ragazzo si accorge dell’imprevedibile (?) crescita del tasso dello yen, contro la quale ha scommesso quasi tutta la sua fortuna. E così, mentre il suo ego inizia a frantumarsi, una sommossa popolare sconvolge l’ordine cittadino che, riversandosi nelle strade e attaccando i ricchi, lo conduce proprio lì dove non sarebbe mai dovuto andare.
Cronenberg è sempre stato considerato il “regista del corpo”, colui che, forse più di ogni altro, ha dato al corpo umano, animale e meccanico un’importanza eccentrica e perversa. Dopo Crash, torna ad esplorare l’universo metropolitano moderno, sempre più allucinante e allucinato, metafora della deviazione morale e sociale della sua stessa società. Il lusso della limousine bianca, perfettamente pulita e profumata, è lo specchio del suo padrone: un giovane uomo soggetto a quotidiani controlli medici per fuggire la morte più di quanto non si dedichi a vivere la sua vita (o ciò che ne rimane). Il suo viaggio di 24 ore diviene il simbolo della follia della società americana, divisa nettamente tra ricchi(ssimi) e poveri(ssimi), tra imprenditori e disoccupati, tra depressi e disperati.
Più il protagonista, un Robert Pattinson volutamente (?) afono e monocorde, sprofonda negli abissi della sua disperazione, più la sua auto viene fisicamente violentata e deturpata e i quartieri della città divengono sempre più periferici e pericolosi. Isolato ermeticamente dai rumori esterni, Eric si rende conto che l’interazione tra capitale e tecnologia, cui tanto ambiva, l’hanno reso una persona debole, senz’anima, vuota. Uomo soggetto al “fascino dell’identico”, non sa apprezzare le asimmetrie, le imperfezioni e le stranezze che esistono in natura e che differenziano ogni uomo dall’altro.
Cronenberg, dunque, sembra essere rimasto intrappolato nell’universo depravato che egli stesso ha creato: le riprese, infatti, sono statiche e contrastate, incentrate esclusivamente su campi e controcampi, tanto che il ritmo del racconto sembra prendersi, troppo spesso, delle pause (filosofiche) per riflettere.
Cosmopolis, alla fine dei conti, altro non è che una versione postmoderna dell’Ulysse di Joyce in cui i personaggi, poco più che macchiette monocromatiche, divengono proiezioni della mente malata di un eremita in malora. Le relazioni erotiche, oniriche, tragiche che intreccia con ognuno di loro, infatti, sembrano capitoli di un romanzo sconnesso e sconclusionato, la cui unica aspirazione è quella di destabilizzare il fruitore ricordandogli che “una persona può emergere con una parola ma può sprofondare con una sillaba”.
Martina Calcabrini, animemovieforever.net



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Il Cosmopolis di David Cronenberg è un’opera leopardiana e pessimista sul destino cyber-biologico e sul tempo sociale, in cui anche la “rivolta” del disordine e della protesta anarchica contro Wall Street è funzione di un futuro post-industriale che insiste e incalza, e che lo stesso capitalismo finanziario — esploso dopo un secolo di espansione in un’impasse imprevedibile e difficilmente determinabile in cui “il denaro ha perso la sua forza narrativa, come la pittura tanti anni fa” — brama, fra straniamento sessuale e pulsione di morte.
Il tema che Cronenberg isola e sviluppa dal romanzo di DeLillo è quello, già caro al regista canadese, della compulsività automatica dell’auto-distruzione come desiderio rigeneratore: anarchia e tecnologia, Occupy Wall Street e speculazione finanziaria puntano al medesimo e non più rimandabile obiettivo: “distruggere il passato per creare il futuro”. Quale futuro? Quello di un sistema economico fondato sul ludus dell’azzardo e che ora si consegna al suo ultimo brivido di roulette russa: sacrificare il suo ultimo feticcio, la Borsa, consegnandola alle fami della rivolta.
Il tema tratto da DeLillo è quello della spoliazione del cyber-capitale dalle sue sovrastrutture tradizionali, allegorizzato dalla perdita graduale di elementi vestiari e status-symbol del protagonista Eric Packer (impersonato da Robert Pattinson), un tycoon di ventotto anni già alla fine del proprio mandato professionale e del proprio ciclo vitale, in una dimensione storica esplosa e scandita dal frenetico frantumarsi di nanosecondi in yoctosecondi. Esso pervade la totalità del presente, come la rete di interconnessione elettronica che da Videodrome a oggi globalizza l’umanità perdendo persino la sua caratteristica materiale di oggetto-computer o di mezzo “Internet”. La rete è oggi incarnata: essa è la “Nuova carne”.
Cronenberg traduce il romanzo originario, fondato sui dialoghi, in una sorta di unico monologo a più voci, tra il “cinema filosofico” (Perniola) e “di parola” come riflessione sulla crisi dell’immagine (altri esempi di cinema sonoro sono A Lisbon story di Wim Wenders, Blue di Derek Jarman o le parabole esemplari di Guy Debord e João César Monteiro) e il teatro elisabettiano dell’ultima scena, dove Packer si consegna al proprio alter-ego e potenziale omicida (interpretato da Paul Giamatti): pulsione di morte assunta dall’iconografia cinematografica del reietto-vittima o, infine, della madonna islamica del penultimo fotogramma. Packer cerca la morte che non può avere, dopo una giottesca perdita simbolica di beni difensivi (gli occhiali da sole, la giacca, la cravatta, l’uomo della scorta, la limousine), e che probabilmente non avrà. Ciò che conta è il rito di passaggio e demistificazione di un presente passato: il matrimonio-lampo impossibile con la cultura alfabetica della moglie poetessa, cadaverica abitante di una libreria-cripta; la totale perdita di forza comunicativa dell’immagine visiva fino all’inefficacia, anche, dell’iconografia traumatica (dalla body art al cinema-verità, tutto il già visto “non è originale”, neanche la morte di un manifestante arso tra le fiamme); l’inconsistenza conseguente dall’investimento del capitale in arte; la polverizzazione del dollaro in virtù di un’anomalia monetaria imprevedibile e che segna la fine di un’epoca di interpretazione economica.
Da questo calvario sorgerà un uomo nuovo, fedele al proprio destino di morte e resurrezione, sadomasochisticamente eccitato di fronte alla propria rovina, capace di assumere immediatamente in sé il nuovo credo disarmonico dell’anarchismo virale e della fine del moderno. Rivolta e conservazione, vita e morte sono la stessa cosa.
A tu per tu col doppio, dalla prima all’ultima scena, in una metafisica limousine-bara che attraversa New York come una lenta processione funebre senza spazio né tempo, scandita dalle parole di un monologo interiore che si rende infine dialogo allo specchio sulla necessità imminente di una dipartita ingiustificabile e obbligata, Cosmopolis di Cronenberg è un’opera alta ed “altra”, come lo stesso DeLillo ha sottolineato durante la conferenza stampa di Cannes: “Guardare il film è stato come trovare un elemento nuovo, altro dal romanzo, è stato stupefacente”.
Come sempre Cronenberg attraversa le nebbie del postmoderno con lucida razionalità, come un treno che viene da lontano, per la precisione dal passato del romanzo ottocentesco, e va oltre, non affidandosi all’orfismo compiaciuto della mancanza di un’interpretazione possibile. Se pure questa non si può trovare, Cronenberg la cerca e interroga continuamente, così come ne Il Pasto Nudo, esemplare operazione di traduzione e tradimento da William Burroughs, tra dismissione della logica e funzione del controllo politico. Non siamo nel sogno di Lynch, insomma, ma di fronte a un Giotto o a un Edgar Allan Poe che attraversano il medesimo sogno per demistificarlo.
Davide Nota, leparoleelecose.it



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Presentato alla sessantacinquesima edizione del Festival di Cannes, Cosmopolis di David Cronenberg è l’adattamento, scritto dallo stesso regista in appena 6 giorni, dell’omonimo romanzo di Don DeLillo, apparso nelle librerie nell’ormai lontano 2003.
Con uno sguardo sempre al futuro e con l’etichetta di regista profetico Cronenberg sceglie un testo, quello dell’autore italoamericano, che ha già in sé i prodromi della preveggenza. Cominciato nel 2001 ed ambientato ai tempi della bolla speculativa delle dot-com il libro, così come il film, offrono una chiave di lettura sulla prevedibilità dell’attuale crisi economica, dimostrando con chiarezza le doti dello scrittore e del regista nel comprendere e far proprie con largo anticipo le direzioni intraprese dalla società americana e dal capitalismo più in generale.
Vera e propria Odissea moderna, il film è la storia, raccolta in una sola giornata, del plurimilionario Eric Packer (Robert Pattinson), golden boy della finanza, che dopo una delle molti notti insonni, si alza con l’ossessione di farsi accorciare i capelli dal vecchio barbiere del padre ad Hell’s Kitchen, esattamente all’altro lato della città di New York rispetto al suo elegante attico a tre piani.
Attraversare la città da est ad ovest, seduto sul trono istallato sul sedile posteriore della sua lussuosa limousine, insonorizzata e a prova di proiettile, dovrebbe esser cosa da poco, ma non oggi, la sua guardia del corpo (Kevin Durand) lo ha avvertito, il presidente degli Stati Uniti è in visita in città e paralizza il traffico di Manhattan. Come se non bastasse, a ritardare l’arrivo a destinazione si aggiungono le proteste che montano feroci in piazza e il funerale di un rapper seguito da centinaia di fan in lacrime. Freddo ed irremovibile Packer non si scompone neanche alla notizia di “minacce credibili” per la sua stessa persona ed intraprende il viaggio fermandosi qui e là per far salire i suoi consulenti e dipendenti, esperti di tecnologia, finanza e teoria.
A bordo di una limousine dal passo lento e dalle molte soste il ventottenne milionario, insoddisfatto ed annoiato, vedrà crollare il proprio impero per non aver saputo prevedere il tasso di cambio dello yuan. Visionario e geniale, in grado di leggere i movimenti delle borse e l’andamento delle valute, Packer ha fondato la propria ricchezza su un intuito e un sesto senso sconosciuti persino ai propri dipendenti più stretti, eppure questo smacco che dovrebbe alterarne l’impassibilità e l’autocontrollo non ne scalfiscono neanche l’espressione del volto. Sui finestrini della sua macchina, come fossero scene trasmesse in televisione, passeranno rivolte furiose e contestatori urlanti, ma il mondo fisico, i suoi problemi e i suoi pericoli non sembrano preoccuparlo più di tanto e non riescono a sfiorare il mondo cui vive.
Rispettoso delle tre unità aristoteliche, il film del regista canadese rappresenta la discesa negli inferi del suo protagonista e della nostra società capitalista tendente all’autodistruzione. Il guru della finanza che parla di tempo e soldi, l’esperto di nuove tecnologie che lo vuole convincere dell’inviolabilità della propria limousine, l’esperta d’arte che gli offre un Rothko e ne soddisfa le voglie sessuali salgono a bordo e intrattengono in vario modo il proprio capo ma tutti appaiono gli ospiti sul letto di un moribondo per il loro ultimo saluto.
Fissità espressiva e tono mono corde contraddistinguono la recitazione di Pattinson che qui ben si adatta al personaggio del plurimilionario, giovane, egoista ed autoreferenziale, che affascina inizialmente lo spettatore ma finisce per sfiancarlo, complici anche i dialoghi. Packer risponde infatti di rado alle domande, mai in modo diretto e spesso ponendone di nuove; lo stile dei dialoghi del romanzo viene ripreso da Cronenberg, che cita Marx e Herbert, ma la cosa non sembra funzionare, le battute si fanno spesso oscure e non sempre tra domanda e risposta c’è una consequenzialità.
Il messaggio del film ne resta offuscato, di non immediata comprensione, lo spettatore esce dalla sala stordito, sapendo che dovrà rispondere ad una serie di domande che il film pone e a cui sembra rispondere come il proprio protagonista.
Daniele Finocchi, voto10.it



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Con Cosmopolis, presentato all’ultimo Festival di Cannes e tratto dal profetico omonimo romanzo di Don DeLillo (2003), David Cronenberg sperimenta una lettura della crisi economica contemporanea che si regge su un linguaggio visivo efficacissimo e sulla dicotomia cara al regista tra uomo e macchina, qui declinata nella contrapposizione tra automatismi impalpabili e corporeità corruttibile, tra la pretesa dell’immobilità (immortalità) e l’attrazione per il caos.
Eric Packer (il sufficientemente ambiguo Robert Pattinson) è giovane, geniale e multimilionario, ossessionato dal controllo e destinato a soccombere. Tutto porta verso quella direzione: le conseguenze sempre più oscure di un sistema economico che a tutti i livelli è scollato dalla realtà delle cose; la presa di coscienza di tali conseguenze e la realizzazione della fine di un modo di pensare i soldi e i flussi economici, di arricchirsi e dunque di esistere.
Eric Packer ha il pretesto di un banale e futile scopo (“aggiustare il taglio”), un mezzo di trasporto che lo isola dal resto del mondo (la limousine) e nessuna necessità di venire a contatto con l’esterno, qui rappresentato da una Manhattan congestionata dal traffico e dalle contestazioni causate da una visita presidenziale. Eric, simbolo di tutto ciò che il presente detesta, e profeta di un capitalismo impalpabile fatto di flussi informativi e cifre anziché di tempo produttivo quantificato, sfida la città viva e inferocita, contro ogni logica e ogni raccomandazione, e si spinge con movimento spiraliforme ad incontrare la propria volontaria autodistruzione. Essa comincia quando il giovane milionario perde il controllo sul suo intuito, trovandosi improvvisamente impreparato alla lettura di ciò che ha determinato la propria ricchezza.
Contemporaneamente Eric sperimenta la fascinazione crescente per ciò che solitamente tiene lontano attraverso vetri oscurati, guardie del corpo, pannelli di sughero: l’esterno, la morte, la violenza fisica. Con un certo compiacimento osserva l’aggressione splatter al presidente del Fondo Monetario Internazionale, e il sorrisetto beffardo affiora anche quando viene sorpreso dai contestatori armati di topi morti. Il vuoto emozionale permea la limousine: i momenti di vulnerabilità sono segnati da motivazioni egoistiche o incomprensibili, relegati in due tra le migliori sequenze del film, la visita medica con spettatrice e il funerale del rapper tanto ammirato da Packer da essere colonna sonora del suo ascensore. Certo, parlando di fisicità, il sesso è previsto anche prima, quello esposto e visibile con le amanti e quello invisibile rimandato e parlato, caratteristica di una vita coniugale potenziale ma di fatto inesistente (la moglie Elise è l’algida Sarah Gadon). L’esperienza del matrimonio (di convenienza) sta in un altrove inaccessibile, assieme alla merce, ai soldi, agli sfruttati e agli sfruttatori nelle loro oggettive corporeità, alla vita stessa: Eric Packer sta al di sopra di tutto, almeno finora.
Quando Eric inizia a perdere il controllo, inizia anche a spogliarsi: la giacca, la cravatta, la macchina, se invece che spostarsi nel flusso del traffico come fa nella prima metà del film, scende da solo, dall’auto parcheggiata (e viene prontamente sanzionato con torta in faccia dall’eccessivamente caricaturale Mathieu Amalric). Va ad incontrare se stesso, preparandosi nell’antro immoto del barbiere, surrogato paterno che viene dal passato e che gli parla per l’appunto del genitore: il simbolismo qui è caricato al massimo, il taglio di capelli “asimmetrico” e malfatto è un ulteriore dettaglio che avvicina Eric alla sua nemesi Benno Levin, un Paul Giamatti brutto vecchio e sporco spinto da una simile ambizione all’omicidio, all’uccisione mitomaniaca del simbolo. Qua la metafora si fa ingombrante, esplicita e spiegata, tra barlumi di autoconservazione (lo sparo alla mano è per sentire la propria esistenza) e concessioni al cliché del folle illuminato: la chiave di tutto è quella “prostata asimmetrica” assurta a simbolo della disfatta di Eric per incapacità di concepire la disarmonia, dettaglio apparentemente trascurabile che determina il crollo del tutto.
Cosmopolis non è perfetto, scivola qua e là nella in una rappresentazione macchiettistica, e sconta un finale che può apparire inadeguato rispetto alla complessità e alla stratificazione del discorso portato fin lì dalla sceneggiatura. Ricorda talvolta i dialoghi di Lynch e le atmosfere di Jarmusch, e non certo per difetto; impeccabile invece la regia, perfette la scelta dei piani e la progressione dalla claustrofobica vicinanza della limousine e degli ambienti limitrofi all’apertura notturna, fino alle sequenze molto meno segmentate dello scontro finale. Un film ostico e squilibrato, che necessita seconde visioni: e che pure è un grande esempio di consapevolezza del linguaggio cinematografico e della possibilità che esso sia ancora mezzo per sperimentare all’interno dei confini della narrazione.
cinemaerrante.it
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