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RECENSIONI - Rassegna Stampa /4

Ultimo Aggiornamento: 01/06/2012 14:25
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Sesso: Maschile
01/06/2012 14:25


COSMOPOLIS
Rassegna Stampa /4



"I dialoghi di Don DeLillo sono la ragione per la quale ho voluto realizzare il film". L’apparente squilibrio fra parola e immagine di Cosmopolis trova la sua spiegazione in questa affermazione di David Cronenberg. Apparente, perché il regista lavora sugli spezzettati dialoghi del romanzo costringendoli in un’unità di luogo che esalta l’impatto totemico del film, edificato sulle fondamenta di campo e controcampo, di una macchina da presa che si muove pochissimo ma certifica il pazzesco talento del regista di Il Pasto Nudo. Confesso che ho dovuto vedere il film due volte per comprendere l’enorme ricchezza dell’operazione, il fatto che Eric Packer (Robert Pattinson) sia costretto in auto, mentre sulla pagina ci sono il suo attico, altri appartamenti, un rave party, rafforza il messaggio del romanzo: il protagonista è un uomo intelligente, consapevole delle sue doti superiori e inevitabilmente prigioniero dell’universo, anzi della cosmopoli che si è costruito intorno. Da un romanzo con uno visione iperindividuale ad un film che giustamente non racconta più tutta l’America ma solo una città (New York) e un suo figlio. L’agonia del cybercapitalismo è portata in scena tramite il viaggio in limousine di un giovane miliardario viziato di Manhattan, che attraversa la città per andare ad Hell’s Kichen a tagliarsi i capelli da un vecchio amico di suo padre. In auto in folle lotta contro i mercati azionari, con un’ipotesi di attentato che gli aleggia intorno, solca cortei presidenziali, funerali di star dell’hip hop, contestatori situazionisti (gli tirano una torta) e si esercita in fugaci incontri sessuali, il tutto per andare incontro al proprio destino o se preferite per trovare "l’intesa perfetta" (parole di DeLillo). A fine corsa lo attende Benno Levin (uno strepitoso Paul Giamatti), il suo carnefice, presto in gioco nel libro "Sto vivendo offline, adesso" e solo alla fine, nel film.
Il romanzo ci lascia "in attesa che risuoni lo sparo" e così fa anche Cronenberg che ha corso coscientemente il grande rischio che i personaggi rimanessero schiacciati dal loro ruolo simbolico. Packer intuisce i mutamenti del capitale, il suo sembra un talento divinatorio o una forma di creatività. La finanza si trasforma, prima di collassare in una forma d’arte (l’ossessione del protagonista per Mark Rothko vorrà pur dir qualcosa), come se il cupo entusiasmo che ha accompagnato l’espandersi dell’economia finanziaria fosse il riconoscimento della forza quasi mistica che assumono computer, numeri, diagrammi... Cosmopolis è un capolavoro perché indaga nel profondo la deriva, l’alterazione che ha colpito la confortante combinazione fra ottimismo e tecnologia, il fatto che il futuro sia una sfida da inventare. Non c’è più spazio per nessun atteggiamento di fiducia e ingenua onnipotenza, i Packer devono vivere sempre più velocemente, ma non si salveranno più.
Massimo Rota, Rolling Stone Italia



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CANNES: PATTINSON MAGNATE PER CRONENBERG IN "COSMOPOLIS"
Viaggio alla fine del mondo, ovvero del capitalismo: uno degli ultimi atti di questo 65mo Festival di Cannes si celebra nel cuore di una limousine bianca che attraversa New York mentre il mondo collassa addosso a un giovane miliardario dell’alta finanza. Il dramma economicistico è in realtà una tragedia surreale scritta sul corpo di un magnate in fuga dalla precisione di quegli algoritmi che regolano le transazioni in borsa e che gli hanno garantito il successo: il suo nome è Eric Packer ed ha l’eleganza algida di Robert Pattinson, il protagonista di Cosmopolis nella versione cinematografica del romanzo di Don DeLillo firmata da David Cronenberg, giunto oggi in Concorso sulla Croisette. Come sempre personalissimo, il cinema del regista canadese è abituato ad adattamenti letterari impossibili, come dimostrano Il Pasto Nudo da Burroughs e Crash da Ballard, entrambi film che in realtà fanno un po’ da punto di riferimento per questo nuovo esperimento di tensione logica della materia surreale operato da Cronenberg.
Partendo, infatti, dai dialoghi sospinti in astrazione di DeLillo tenuti come punto di riferimento forte dal regista, il Cosmopolis di Cronenberg sembra galleggiare in un mondo surreale, giunto al fine del suo tempo: lo yen fa esplodere le borse e crollare imperi, la popolazione in miseria invade Manhattan con una rivoluzione il cui simbolo sono diventati i topi che dalle fogne insorgono per le strade e vengono branditi dalle folle e, in tutto questo, Eric Packer si sveglia al mattino di quello che potrebbe essere il suo ultimo giorno in cima alla piramide della vita finanziaria con un’unica idea in testa, tagliarsi i capelli. L’atto, provocatorio al limite del surreale per gli uomini della sua scorta, si traduce in un attraversamento della città, bloccata dalle rivolte e dagli ingorghi causati dalla visita del Presidente degli Stati Uniti. Un viaggio sulla sua candida limousine accessoriata che gli fa da ufficio, attraversando le poste di un lussuoso calvario che lo vede incontrare varie figure: amanti, la ricca moglie, giovani geni analisti del sistema economico, un medico che gli fa il check-up quotidiano e un’ispezione anale dalla quale risulta una prostata asimmetrica… La sicurezza intanto gli annuncia che c’è una seria e concreta minaccia di morte nei suoi confronti ed Eric procede, noncurante e determinato, verso il suo barbiere, per un taglio di capelli dall’altra parte della città, che rimarrà incompleto, “asimmetrico” anche quello come la prostata, emblema di imperfezione, di caso, di un corpo che è vita e che bisogna lasciare esprimere… In fondo al viaggio c’è l’incontro fatale, perché fortemente cercato sin dall’inizio, con l’uomo che mira alla sua vita, un appuntamento che è sacrificio e pulsione di morte ribaltata nell’estremo atto di potere di un potente in caduta libera.
Il film è dunque un viaggio tutto interiore, opera astratta che fa i conti con una poetica d’autore che ha in Cronenberg il cantore della “nuova carne”, la rigenerazione di un’umanità in cerca di nuove coordinate e connessioni tra la struttura delle cose e quella delle ossessioni. Il punto di fuga di Cosmopolis è ovviamente Videodrome, uno dei capolavori di Cronenberg, a partire da quella pistola che circola di mano in mano e che diviene in punto di contatto più concreto e autentico tra il personaggio e il suo corpo. Sull’onda di DeLillo, Cronenberg materializza un mondo in cui l’economia e le transazioni sono l’ossigeno e la relazione dell’essere, in bilico su un’apocalisse che è peste e rinascita. Robert Pattinson è al centro di tutto questo, utilizzato da Cronenberg con la stessa astrazione psicologica che aveva caratterizzato lo James Spader di Crash. Ma il cast conta anche le presenze prestigiose di Juliette Binoche, Mathieu Amalric, Samanta Morton e Paul Giamatti, alla corte di un regista che ha ormai acquisito lo status di autore e al quale questo 65mo Festival di Cannes potrebbe dare la consacrazione di un grande premio che sinora gli manca.
italpress.com



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Cronenberg incontra DeLillo e l’impossibile si fa realizzabile, il teorico diventa materico, il mentale raggiunge il tangibile… Tutto questo accade in Cosmopolis ovvero in un mondo che è qui, e ora, ma potrebbe essere un altrove reale, tanto quanto ciò che noi tutti esperiamo, giorno dopo giorno.
La prosa dello scrittore italoamericano è densa e corposa, si addentra nei meandri della riflessione rilasciando suggestioni fisiche e metafisiche, demandando alla parola il compito di stordire o ipnotizzare evocando immagini che, sovente, si convertono in sconcertanti visioni profetiche. Un impianto narrativo, quello di DeLillo, profondo e “sonoro”, la cui trasmutazione (intesa come trasferimento del testo da un linguaggio all’altro) sembrerebbe impossibile. Eppure Cronenberg, che con la letteratura coltiva da sempre un’intensa liaison (vedi Il Pasto Nudo di Burroughs, Crash di Ballard), ha saputo maneggiare con cura una materia complessa e feroce riuscendo nella non facile impresa di realizzare un film che continua a sondare certe oscure profondità, come tratti peculiari del suo cinema, senza snaturare o alterare il nucleo pulsante della narrazione di DeLillo.
Nell’arco di un’intera giornata, il giovane miliardario Eric Paker, il cui puro capriccio di tagliarsi i capelli lo porta a spostarsi dall’altro lato di New York, traccia – attraverso l’espressione dei suoi desideri ossessivi e delle sue paure più recondite – una spietata parabola di (auto)distruzione e, nel contempo, di brutale consapevolezza dell’ineluttabile. Robert Pattinson riesce ad infondere al suo personaggio la giusta dose di vacuità e smarrimento, egoismo e vulnerabilità che fanno di Paker un monumento all’Io cybercapitalista. All’interno di una limousine, che qui si fa paradigma del guscio dell’essere, sfilano una serie di personaggi che, come davanti al loro “signore e padrone”, sono pronti a prostrarsi o a blandirlo ma, al tempo stesso, alla stregua dei tanti schermi installati nella macchina, a rimandargli, ferocemente, il riflesso della sua fine.
Cronenberg asciuga il testo originale di Cosmopolis, eliminando opportunamente ogni espediente tipicamente letterario, per concentrarsi sul potere, straordinario, della parola. I dialoghi (in gran parte fedelissimi a quelli del romanzo) scandiscono quella che sembra essere l’ultima liturgia dell’essere umano che, nel rito estremo della sua fine, vede sgretolarsi ogni certezza del suo credo.
Fuori da quella limousine, che traghetta Eric verso il suo destino, si consumano piccole, grandi tragedie pronte a diventare le crepe del mondo. Manifestanti che brandiscono topi come ultima e repellente merce di scambio, uomini che si immolano, terroristi che scagliano torte al posto delle bombe, cantanti-simbolo trapassati che “rivivono” in funerali-spettacolo… Tutto mina nella fondamenta un universo che sembra acquistare senso nella reiterazione dell’identico, che si nutre di se stesso, ed esprimendosi attraverso numeri e grafici, percentuali e statistiche, si mantiene in vita seguendo l’andamento, ondivago, del mercato in cui il volo in picchiata di una divisa, può trascinarlo. senza scampo, in un buco nero.
Eric, la cui lunghissima automobile, sembra trasformarsi, ora dopo ora, nel suo sarcofago di smalto e acciaio, attraversa non solo la città, ma tutto se stesso, fino all’ultima particella di fibra corporea: dall’orifizio sondato dal medico, fino ai muscoli tesi nella violenza e nel sesso che, come si legge nel libro, “ci smaschera…Vede dentro di noi. Ecco perché è così devastante”.
Di questo, infatti, si tratta: rovina, devastazione, la fine di tutte le cose. Con quell’inquietante talento profetico che gli appartiene, DeLillo ci racconta un mondo (già descritto in tempi non sospetti) che fagocita se stesso e che Cronenberg ha saputo rendere reale (e realistico) oltre la pagina scritta.
L’uso del digitale, la regia asciutta, la studiata simmetria del campo/controcampo e i bagliori cromatici che sembrano sempre sul punto di esplodere oltre i contorni che delineano uomini e oggetti, fanno di Cosmopolis la partitura perfetta di una disperata sinfonia. Cerebrale, disturbante, non di facile lettura o ascolto, il film del regista canadese dimostra come (e quanto) l’arte possa osare, accostando i linguaggi, fondendoli in un lessico “altro” in cui passa, sottopelle, il brivido della premonizione perché, anche qui, come nella fantascienza di eXistenZ “Devi partecipare al gioco per scoprire perché partecipi al gioco. E’ il futuro!”
Eleonora Saracino, cultframe.com



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Cosmopolis è un film pessimista e un po' noioso sulla fine del mondo
Come sarà il mondo dopo la crisi? Guardando il nuovo film di David Cronenberg Cosmopolis, c’è poco da stare allegri. Quasi l’intero racconto si svolge in una limousine bianca. A Manhattan la febbre è alta. Indignati o anarchici, o indignati e anarchici insieme, protestano per lo sconquasso economico e sociale. Protestano, fanno baccano, scandiscono slogan minacciosi, dipingono le macchine bianche immacolate dei ricchi. Gettano topi morti nei ristoranti, si travestono da topi.
Un giovane miliardario, Erick Parker (Robert Pattinson, l’eroe della saga di Twilight), genio della finanzia e cinico speculatore privo di scrupoli, all’improvviso decide di tagliarsi i capelli da un barbiere dove lo portava il padre da bambino, nella periferia della città. Ma non solo è pericoloso muoversi, come gli comunicano le guardie del corpo, che sorvegliano perennemente la sua limousine. È quasi impossibile, poiché il traffico è congestionato e ci si muove a passo d’uomo. A complicare la giornata ci si è messo l’arrivo in città del presidente degli Stati Uniti e il funerale di un cantante di culto, morto improvvisamente per un attacco di cuore. Allora tutto deve avvenire nel lusso confortevole dell’auto, grande quanto una casa. Chiacchiere di routine, riflessioni sul presente e sull’avvenire, bevute, incontri sessuali, visite per verificare lo stato di salute della prostata di Erik, comunicazioni commoventi sulla morte del rapper, divagazioni sul prezzo di una tela di Rothko.
Qualcuno ha preso di mira il giovane emblema della ricchezza e della finanza, sposato con una miliardaria che non ama. Vuole colpirlo a morte. La giornata trascorre così, tra stranezze, assurdità, contestazioni, caos, sensi di colpa, parole in libertà. Nella notte il pericolo si manifesterà. Un uomo, ex dipendente di Erik, da tempo lo bracca e finalmente lo ha a portata di tiro.
Il mondo del futuro prossimo venturo (o del presente, visto che non siamo in una città del futuro, ma nel cuore malato dell’Occidente attuale) nella visione di Cronenberg è oscuro. Privo di luce. Per vivere bene occorre ripararsi dal mondo, proteggersi costantemente dal rumore e dalle intemperie esterne e, soprattutto, dagli esseri umani, fastidiosi ratti. Ma non è detto che le pesanti cortine protettive si rivelino sufficienti. Le ragioni dell’esistenza sono scomparse. Si è in attesa del collasso finale: un asteroide, una catastrofe nucleare, una pioggia biblica, una guerra, un’epidemia, una rivoluzione, lo sconquasso dei mercati, o qualcos’altro, verrà finalmente a liberare gli umani dalla vita. Il mondo attorno a noi è già morto. Nell’approssimarsi del disastro si vive ancora come un tempo, in un limbo, poiché il futuro non esiste. C’è soltanto il vuoto.
Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore postmoderno americano Don DeLillo, Cosmopolis è un monumento alla noia, un film perfettamente sbagliato di un autore, David Cronenberg, che in passato ha realizzato opere di eccezionale qualità. Che il mondo sia messo male, non ci sono dubbi. Ma le ragioni della decadenza non emergono. L’uomo è marcio, che si tratti di un ricco o un povero. Di un agente della sicurezza o di un lanciatore di torte in faccia ai potenti del pianeta. Di un vecchio barbiere o di una poetessa. La notte oscura è calata, e il suo epicentro si trova nella modernissima Wall Street. E allora? Verrà giù tutto? Bene. Meglio che venga giù in un kolossal catastrofista tipo 2012 (l’anno dei Maya) che tra le chiacchiere soporifere, rubate alle pagine di DeLillo (e sarebbe stato meglio che lì fossero rimaste), in un’antica libreria, fra testi preziosi e legni pregiati. Almeno il ritmo non manca e le esplosioni dell’Apocalisse sono più vere del vero.
Claudio Siniscalchi, loccidentale.it



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Il corpo è denaro, firmato Cronenberg
Ci vorrà tempo, per comprendere e analizzare al meglio Cosmopolis. Non è un film di cui si possano esaurire simboli e riferimenti nei giorni e nelle settimane durante le quali si trova in sala. Ciò non significa, tuttavia, che si debbano deporre le armi critiche. Anzi, dalla sua presentazione a Cannes e nelle ore immediatamente successive, sono già parecchie le testate storiche della cinefilia che si stanno interrogando sul senso profondo dell’opera di Cronenberg, da tutti considerata ermetica, oscura ma al tempo stesso selvaggia, sarcastica e fascinosa.
Qui ci accontentiamo di alcune considerazioni. Anzitutto il lavoro di trasposizione dal romanzo omonimo di Don DeLillo, a parere di chi scrive un episodio minore della sua straordinaria carriera, che nelle mani di Cronenberg – che torna a sceneggiare da solo, in prima persona, dopo parecchio tempo – diviene opus magnum sulla contemporaneità. Come agisce il regista canadese? Adattando fedelmente quanto più non si potrebbe i dialoghi, e densificando invece tutta la dimensione visiva, che nel romanzo appariva farraginosa e debitrice di una fantascienza sociologica di maniera. La New York di inizio Duemila è trasportata alla Grande Mela di oggi, i problemi con la moneta giapponese diventano il caos della Borsa cinese, i sobbollimenti delle masse no global si trasformano nel landscape metropolitano ai tempi di Occupy. I dialoghi prendono il centro drammaturgico del film, tanto da farne una specie di geniale adattamento teatrale di un testo non teatrale, in un corto circuito formidabile, tipico delle ultime prove di Cronenberg. La conferma viene appunto dalla dimensione verbale dell’universo di Cosmopolis – il che non significa che Cronenberg abbia ignorato l’aspetto iconografico (anzi, il look del film, a metà tra Crash ed eXistenZ, con soluzioni cromatiche hitchcockiane e l’interno limousine che sembra un utero cibernetico, lascia stupefatti); il rilievo della parola, nevrotica, delirante, fatta di domande più che di risposte, segna una chiara relazione con A Dangerous Method. Quello era un film sull’inizio del ‘900 e questo sull’inizio dei Duemila. Quello ci raccontava la nascita della psicanalisi, dell’uomo contemporaneo e del cinema; questo ci narra la fine di quella civiltà e la catastrofe del capitalismo. Quello era un film in costume, ricco e raffinato; questo è un film indipendente, girato in poco tempo e a costi contenuti. Eppure, chiaramente, la gemellarità di questi due titoli “inseparabili” si impone come dittico, soprattutto attraverso l’ironia.
Già A Dangerous Method possedeva un lato di gag glaciali e sotterranee tra Freud e Jung. Qui, dove si discetta di capitalismo e crisi, Karl Marx sembra trascolorare in Groucho (un logorroico, guarda caso) e la torta in faccia, le scenette quasi slapstick fuori dal finestrino dell’auto, il catalogo di ospiti bislacchi nella limousine del ricco protagonista lasciano pochi dubbi. In fondo, come spiega la sequenza finale, l’andamento della moneta segue le asimmetrie dell’anatomia umana. Tutto è corpo, secondo l’antico cantore della nuova carne, Cronenberg, anche se da qualche anno pare interessato, con ghigno brechtiano, a riscrivere la storia psicologica dell’uomo moderno occidentale.
Roy Menarini, mymovies.com



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Erick Parker è un brillante giovane che controlla gli oscuri meccanismi dell’alta finanza. Tutto è a sua disposizione, a partire da una limousine bianca con tanto di autista e guardia del corpo. È una giornata difficile per Manhattan. C’è il Presidente degli Stati Uniti in visita e la viabilità è stata rivoluzionata. Ma Erick ha un obiettivo preciso: vuole raggiungere il suo parrucchiere di fiducia che sta all’altro capo della città. Per fare ciò è disposto ad affrontare le sommosse contro la situazione economica che stanno mettendo a ferro e fuoco New York. È pronto anche a trovarsi dinanzi colui che, secondo più di un segnale attendibile, vuole ucciderlo.
A David Cronenberg va riconosciuto il merito di non aver mai smesso di sperimentare pur conservando intatte le proprie tematiche di fondo. In questa occasione si potrebbe dire che la sperimentazione ha inizio dal casting. Scegliere (con alle spalle un produttore rigorosamente cinefilo come Paulo Branco) Robert Pattinson come protagonista poteva essere un azzardo privo di ritorni oggettivi. Sia chiaro: a differenza di quanto alcuni scrivono questo non è l’unico film che ha liberato la star della saga di Twilight dai canini. C’è stato anche (con uscita anteriore nelle sale) l’apprezzabile Bel Ami di Declan Donnellan e Nick Ormerod. Qui però il giovane attore idolo delle adolescenti affronta una prova ancor più al limite della precedente e, dal momento, in cui si toglie gli occhiali scuri, riesce a superarla. Cronenberg lavora sul libro di DeLillo rispettandone (forse troppo) la struttura che si basa sui dialoghi ma apportandovi anche significativi cambiamenti. La limousine in cui Parker si rinchiude diventa metafora di un mondo economico impermeabile alla realtà. “Ciò che è attuale è troppo contemporaneo” (come afferma uno dei personaggi) e quindi è meglio prenderne le distanze per poter riprodurre dinamiche di rapporto che prevedono scambi (sessuali e non) che implichino il minimo possibile di sentimento. In un mondo sconvolto in cui i ratti divengono l’eloquente simbolo della voracità senza controllo non resta che perseguire l’estetizzante simmetricità che i fatti smentiscono a ogni giro di ruota dell’ingombrante mezzo di trasporto. Ecco allora che una prostata asimmetrica si ritrova a fare il paio con un taglio di capelli che viene completato da una sola parte. Sarà proprio questa doppia asimmetricità a spingere Parker tra le braccia (e dinanzi al mirino di un’arma) di chi lo bracca da anni. Perché va sanzionata la falla nella vita di chi domina, sempre meno occultamente, le sorti degli altri mentre presidenti privi di effettivo potere democratico intasano le strade. Cronenberg ce lo ricorda in un dramma claustrofobico (anche quando va in esterno) in cui sembra però che l’apprezzabile tesi abbia un po’ tarpato le ali al suo talento visionario.
Giancarlo Zappoli, mymovies.it



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Dal romanzo di Don DeLillo, il bel film di Cronenberg sulla crisi economica. Star Robert Pattinson
Un uomo che prevede il futuro ma non vive il presente, un giro in Limousine a New York che diventa un viaggio al termine della notte, un j’accuse al capitalismo imperante che si abbatte sulla pelle di un algido e asettico vampiro di Wall Street. Presentato in concorso al Festival di Cannes, Cosmopolis è l’ennesima sfida artistica di David Cronenberg. Stavolta, dopo il passo falso di A Dangerous Method (una ferita ancora sanguinante per gli ammiratori della prima ora) c’era da portare sullo schermo l’omonimo libro - apparentemente infilmabile - di Don DeLillo. Un romanzo profetico sulla fine dell’economia mondiale scritto nel ’93 e ambientato tutto in una lussuosa autovettura che si fa metafora di un decadimento morale e finanziario.
Ed ecco l’elegante e rapace Eric Packer (un quintessenziale Robert Pattinson che supera a pieni voti la prova col cinema d’autore), golden boy dell’alta finanza alle prese con i capricci della borsa, piombare nel caos cittadino mentre decide di farsi tagliare i capelli dal suo vecchio barbiere che si trova dall’altra parte della città. Dall’East River a Hell’s Kitchen il tragitto del miliardario si trasforma in una surreale resa dei conti con se stesso in un gioco di apparizioni e ossessioni che trasformano i sedili dell’auto in un palcoscenico teatrale popolato da fantasmi. E mentre la visita del Presidente degli Stati Uniti paralizza Manhattan (“Sparano ancora ai Presidenti? Oggi ci sono bersagli più interessanti…” si meraviglia Packer) e lo yen riprende quota uno stuolo di donne popolano quell’Odissea contemporanea.
C’è la giovane moglie con la quale ancora non è stato a letto (“Emani odore di sesso” gli dice la ricchissima donna che si nasconde in una libreria come ultima frontiera da difendere) e la consulente finanziaria single e disponibile (“Tu sei pericoloso, sei un visionario” gli dice una meravigliosa Juliette Binoche che rimanda alla Holly Hunter di Crash), c’è la disinibita guardia del corpo dotata di pistola a scariche elettriche e c’è, soprattutto, la sua teorica finanziaria (Samantha Norton) che regala pillole di filosofia aziendale e di catastrofismo globale (“Il denaro ormai parla a se stesso”). Un saliscendi di personaggi che culmina in uno spietato confronto allo specchio con chi vorrebbe uccidere l’Idea (magnifici gli ultimi 20’ con l’entrata in scena di Paul Giamatti relitto armato e disilluso).
In mezzo taxi gialli come cartine geografiche e topi usati come nuova unità monetaria, speculazioni e aggressioni anarchiche, check up (dettaglio decisivo: la prostata asimettrica) e lezioni di rinuncia (“Il talento è più erotico quando è sprecato”), Pollock e Rothko, cyber capitali e nuove droghe, pasticceri terroristi (Mathieu Almaric che tira una torta in faccia al miliardario) e citazioni di Sant’Agostino (“Sono un enigma per me stesso”) in quello che si rivela alla fine come un vero e proprio trattato sull’infelicità umana (“Oggi c’è abbastanza dolore per tutti” dice Pattinson). Dalle mutazioni corporali all’interazione tecnologico-capitalista, il viaggio di Cronenberg arriva al culmine dell’annientamento mettendo in scena il potere dei soldi e le conseguenze del modernismo corrotto.
Un film che deflagra nell’anomalia, come le combinazioni di lettere e suoni ormai senza più un senso compiuto (“Una persona emerge con una parola e precipita con una sillaba”) e che annienta il secolo delle illusioni. Letterale, cerebrale, verboso e controllato, il nuovo film di Cronenberg si allontana ancora una volta dalle atmosfere ipertese e viscerali dei suoi capolavori ma a differenza dello sterile e vacuo psicodramma dello scorso anno, questo è un film che s’inserisce a meraviglia nella sua poetica. Certo, il prezzo da pagare è quello di una profezia (il libro è del ’93) divenuta nel frattempo attualità ma la geometria degli spazi, la misura del tratto, i personaggi implosi e l’urgenza di un atto sessuale come antidoto alla disillusione fanno di questo Cosmopolis una bella variazione sul tema.
Claudio Fontanini, cinespettacolo.it



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La crisi economica come pretesto per raccontare una inquietudine molto più stratificata e un senso di smarrimento disperato e lancinante.
New York è piombata nel caos, mentre l'epoca del capitalismo si avvicina alla conclusione. Il giovane milionario Eric Packer (Robert Pattinson) entra in un limousine bianca e, incurante della visita del Presidente degli Stati Uniti che sta paralizzando Manhattan, si pone un preciso obiettivo per la giornata: aggiustare il taglio di capelli e affidarsi al suo barbiere di fiducia che sta dall'altra parte della città.
Durante il tragitto Packer, ossessionato dall'inoppugnabile potenza finanziaria dello yen e da un'oscura minaccia attendibile alla propria incolumità, incontra gli uomini e le donne della sua vita in un viaggio surreale sullo sfondo dell'imminente crollo di un impero.
Adattare il romanzo di Don De Lillo rappresentava una sfida assai delicata per David Cronenberg. Sia per la difficoltà di un testo, difficilmente trasportabile sul grande schermo, sia perché (nonostante tutto), il mood di Cosmopolis pareva sposarsi alla perfezione con la poetica cronenberghiana.
Sfida delicata, ma vinta dal regista canadese che ci regala un film sorprendente e spiazzante, per certi versi molto simile al suo ultimo A Dangerous Method, ma decisamente più efficace nella resa di un'irrequietezza e un disagio psicologico estremamente contemporaneo nella forma e nella sostanza.
Cosmopolis è un film molto parlato, quasi teatrale nella sua prima parte ambientata esclusivamente o quasi all'interno di una lussuosa limousine ipertecnologica e insonorizzata che esclude qualsiasi elemento disturbante proveniente dall'esterno. Gli scambi di battute volutamente vacue e stranianti, latori di una incomunicabilità disarmante (esemplare in tal senso il rapporto gelido tra Eric e la sua giovane sposina: una giovane coppia unitasi per convenienza, male assortita e reciprocamente anaffettiva) tra dibattiti economico-sociali e discussioni filosofiche preparano semplicemente il confronto con l'esterno, inizialmente rifiutato in toto da Eric, che si insinua prepotentemente, spaventoso e violento ma al tempo stesso irrimediabilmente affascinante per il giovane milionario.
Eric Packer è un uomo potente che ama sentirsi in pieno controllo, refrattario a tutto ciò che è imponderabile e sfuggente, come l'inarrestabile ascesa dello yen o una prostata asimmetrica riscontrata durante un check up di routine. L'anomalia, il disordine e l'incertezza sono nemesi di tutto ciò che Eric Packer rappresenta, e proprio per questo attirano in maniera così forte il giovane rampante della finanza, uscito una mattina per aggiustarsi il taglio e ritrovatosi in una vera e propria odissea urbana che rispecchia la propria odissea interiore.
Cosmopolis è un film profondamente cronenberghiano laddove i demoni del suo protagonista sono radicati in profondità, nel suo inconscio, nella sua psiche nella sua (in)consapevolezza di sé e del mondo che lo circonda. La crisi economica diventa per Cronenberg un pretesto per raccontare una inquietudine molto più stratificata e un senso di smarrimento disperato e lancinante.
"Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del capitalismo" recita lo slogan principale recitato dai contestatori che travolgono la limousine di Eric e che ricordano così tanto (inconsapevolmente dato che il libro è stato scritto nel 2003 e il film girato nella prima parte del 2011) il movimento "Occupy Wall Street". In realtà gli spettri cui Cronenberg pare essere più interessato sono i fantasmi che il suo protagonista ha sempre evitato, mosso da un desiderio di possedere sempre di più e che ha ormai rivelato la propria inconsistenza e inadeguatezza a celare un malessere che si manifesta gradualmente ma inesorabilmente in una pulsione autodistruttiva.
Un plauso speciale, infine, Cronenberg lo merita per come è riuscito a valorizzare al meglio quell'elemento visto da molti con grande scetticismo alla vigilia, vale a dire il suo attore protagonista. Robert Pattinson, "forte" di una non vastissima gamma espressiva, è funzionale nel ruolo del golden boy di Wall Street spaesato e lacerato da un dolore esistenziale.
Cosmopolis è quindi un prodotto enigmatico, difficile, ma al contempo estremamente affascinante e magnetico.
Marco Valerio, lnx.whipart.it



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Una carrellata su una fila di lunghissime limousine tirate a lucido. Eric Packer, un giovanissimo miliardario malato in Borsa, le osserva nascosto dietro un paio di occhiali da sole oscuri. Quel giorno lì, proprio in quel giorno, quando il Presidente degli Stati Uniti è in procinto di far visita alla città, Eric sente l’impellente bisogno di andare dal barbiere perché deve aggiustarsi il taglio. “Devo aggiustarmi il taglio”, dice. Siamo a New York e la limousine attraversa Manhattan, nel pieno di una massiccia contestazione contro il capitalismo, contro i “golden boy” compra-tutto, in una rivolta che sembra sprigionarsi dalle fogne della città, invasa dai topi finto-morti. Ma non c’è poi così tanta differenza dalle persone che brancolano nella melma sogghignante della città. Eric Packer incontra amici, conoscenti, prostitute, persino la moglie, naturalmente i suoi personali “body-guard”. E tutti parlano con un incedere da automi. Gli uomini sono dei personal computer in via di estinzione, tant’è che ne escono sempre di nuovi, al Mondo.
Cosmopolis è un film sul sotto-mondo che non ha più nulla da perdere, sul potere dell’illusoria e casuale fortuna che incontra la fine, sul capitalismo che ha i giorni contati e che profeticamente rende la propria lingua una filosofia senza tempo. La visione scioccante e fortemente elettrizzata da dialoghi di basilare interezza all’interno della visione d’insieme del sistema-mondo dal romanzo di Don DeLillo, prende forma dentro le forme del cinema di David Cronenberg, regnando sublime fra le spire dell’attonito silenzio. Tutto ciò che è assordante e caotico è fuori, mentre dentro, dentro la limousine, dentro la mente di Eric Packer, c’è tutta la consapevolezza straniata di una distruzione lenta ma inesorabile. C’è il sesso, l’ossessione, la putrescenza vigliacca di chi non vuole recuperare i sentimenti veri, c’è l’odore nauseabondo di una realtà traslata e allo stesso tempo diretta ed avvincente. Avvincente dal punto di vista del dialogo massiccio che come nel precedente A Dangerous Method fa con le parole quello che in precedenza il regista canadese aveva fatto con le immagini intensive e con le sensazioni umorali di corpi allo sbando. Sta di fatto però che in Cosmopolis (probabilmente il film più attuale e significativo sui nostro tempi), le note funzioni del suo cinema si fondono in un microcosmo che è macro-vivibile. Il microcosmo in questione è la limousine-appartamento, in cui Eric vede tutto ciò che è fuori e lo osserva dalla comodità sorniona ed elegante dell’interno asettico ed ipertecnologico con pavimento in marmo. Eric si fotte le donne, mentre discute di come ha contribuito a fottere l’umanità ed a sotterrare tante persone che ora vorrebbero vederlo soffrire e marcire. Uno in particolare vuole ucciderlo ed è il suo esatto opposto. Lo incontra alla fine del consapevole calvario e finisce per sentirsi un po' come lui, ha il suo stesso odore e la prostata asimmetrica. Futilità del caso di geometrica rassegnazione. Non è un caso però vedere Robert Pattinson interpretare questo ruolo da protagonista, giovane attore pienamente maturato e dal grande talento che offre una sfaccettata impressione di autocontrollo sempre sull’orlo della follia. Mai era accaduto che in un film di Cronenberg un attore facesse parte praticamente di ogni scena del film e il giovane ragazzo regge il peso di un ruolo impegnativo che gli ha permesso di avere un’esperienza insolita. Lo accompagnano all’interno del suo viaggio tanti bravi attori in ruoli minori come Paul Giamatti (il Benno Levin del confronto finale), Mathieu Amalric (un pasticcere rumeno che si vendica di Eric in maniera bizzarra), Juliette Binoche (una vogliosa prostituta), Sarah Gadon (la moglie più automa), Samantha Morton (protagonista di una delle scene cult del film).
David Cronenberg sceneggia il film partendo proprio dalla trascrizione, parola per parola, dei potenti dialoghi di uno degli scrittori americani più importanti dell’ultima generazione. Il motivo principale per cui Cronenberg, su suggerimento dei produttori Paulo Branco e Martin Katz, ha scelto di fare l’ennesima trasposizione filmica da un romanzo profetico, è appunto per via dei dialoghi. Soltanto successivamente, Cronenberg ha infoltito la sua sceneggiatura, che altrimenti sarebbe stata un’opera teatrale, con situazioni di passaggio ed immagini quasi metafisiche in braccio alle alienazioni contemporanee. Così l’unica neo di un film unico sono i sintomatici dettagli visivi, legati al contesto d’inciviltà e solitudine con rabbia repressa, che magnificamente DeLillo appuntò nel suo romanzo e che Cronenberg ha volutamente tralasciato (eccezion fatta per brevissime immagini di una tensione che resta sotterranea), per entrare letteralmente dentro la perversa-fottuta-mente di Packer/Pattinson (la mente-limousine).
Lavorano al film tutti gli abituali collaboratori di David Cronenberg e il compositore Howard Shore stavolta lavora in sottrazione, praticamente in sottofondo. Un sottofondo che lascia parlare il silenzio, un silenzio che fa più rumore quando non riesce a coprire il vuoto delle esistenze sopraffatte dalla logica del capitale. Chi capisce veramente quello che succede là fuori per le strade? Di certo non un rampante miliardario che sbatacchiato dalle folle in protesta, seguita imperterrito con la sua parola avida e in avanscoperta, così tanto da risultare finemente cesellata. Dentro c’è tutto ciò di cui ha bisogno. Fuori c’è il Mondo. E la sua iniquità.
Federico Mattioni, cinemartmagazine.it



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Il declino dell'Impero Americano
Il magnate della finanza Eric Parker, ventottenne miliardario, sta andando dal parrucchiere. A bordo della sua limousine, assiso sul suo trono di pelle dal quale con un tocco si connette con l'esterno, scortato dalle sue guardie del corpo attraversa Manhattan in mezzo al caos del traffico, incrementato da una visita del Presidente, dal funerale di un rapper e da non meglio specificati disordini. Fuori dall'auto infatti la società ribolle, il "topo" è diventato unità monetaria e la crisi sta devastando la popolazione, che inscena violente manifestazioni. Personaggi vari salgono e scendono dall'auto, colloquiano con il protagonista, soci, amanti, moglie, bodyguard, amici vari, si connettono con lui su argomenti di segretezza, speculazione, sesso, arte, amore, salute. Lentamente la situazione degenera, i manifestanti imbrattano la macchina, le proiezioni sullo yaun si sono dimostrate sbagliate e il mercato ne paga le conseguenze, Parker forse è rovinato, in televisione un folle cava un occhio a un esponente del Fondo monetario. Parker raggiunge il suo barbiere, unico legame con il passato e, alla fine, anche la sua (forse) nemesi (Paul Giamatti). Parker (quasi come i protagonisti di Crash) "è" la sua macchina, il suo asettico nido tecnologico, e inizia il suo lento degrado anche fisico solo dopo averla abbandonata. Se l'aggressione esterna non è sufficiente ad appagare la propria necessità di autodistruzione, bisognerà provvedere diversamente.
Uno spettro si aggira per Wall Street... e sarebbe bello che fosse solo un vampiro. La trasposizione cinematografica di un'opera letteraria è sempre ostica. Soprattutto se, come nel caso del romanzo di Don DeLillo, si svolge quasi unicamente nell'ovattato utero di una lussuosa limousine, con poche incursioni in un esterno di squallore, degrado, sporcizia, abbandono. Il romanzo, che risale al 2003, già controverso alla sua uscita, profetico allora, oggi quasi scontato, sancisce in chiave di metafora l'avvitamento suicida del capitalismo inteso come Finanza Assoluta, quasi speculazione filosofica. Ma, ascoltate anche le dichiarazioni del regista e sceneggiatore David Cronenberg a Cannes, dove il film è stato presentato, lo spettatore non si illuda ingenuamente che il film sia una denuncia esplicita del capitalismo e dei suoi mali o una metafora, chiara ma inevitabilmente scontata e banale (perché quasi fuori tempo massimo) di un sistema suicida. Quanto interessa a Cronenberg degli addentellati socio-politico-esistenziali di DeLillo? La "malattia" spirituale del protagonista vuole riflettere quella del Sistema o è semplicemente la sua storia a interessare il regista, la sua particolare forma di perversione? Questo è un Cronenberg del periodo di film bellissimi e inquietanti come Inseparabili, Crash, eXistenZ, non i più "commerciali" (e mettiamo apposta le virgolette) A History of Violence, La Promessa dell'Assassino e A Dangerous Method. Ma non sono più quei tempi e qui Cronenberg svolge il suo discorso verbosamente, con lunghissimi scambi di battute dal chiaro sapore letterario, in una traduzione estenuante delle pagine scritte, un fiume di dialoghi, intercambiabili anche, da cui non sortisce un punto focale capace di appassionare. L'insieme è fumoso, ovviamente intellettualistico, e prolisso, tanto da venire all'istante dimenticato (pochissime battute del film restano nella memoria).
Una buona prestazione è quella dell'algido Robert Pattinson, di glaciale bellezza, che qui della sua abituale atona inespressività fa la chiave del personaggio. Nelle loro brevi apparizioni ovviamente ben diretti gli altri, che sono Juliette Binoche, Samantha Morton, Jay Baruchel, Kevin Durand, Mathieu Amalric, Emily Hampshire. Svetta Paul Giamatti, il deus ex machina finale. Significherà qualcosa che la prostata del protagonista sia asimmetrica? Come diagnostica un medico dopo lunghissima e dolorosa esplorazione (fuori campo) all'interno della limo (anche se il gioco di parole originale, proust-ata, si perde completamente nel mediocre doppiaggio). Se possiamo chiudere con una battuta (uscendo da certi film se ne avverte la necessità) ci ritroviamo con un altro interrogativo, dopo quello storico su cosa facciano i gorilla nella giungla quando piove: dopo il lavoro, dove vanno a dormire le lunghissime limousine?
Giuliana Molteni, moviesushi.it



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Neanche il tempo di lasciarci alle spalle i “lapsus freudiani” del machiavellico e contorto A Dangerous Method (2011), accolto con critiche discordanti all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, che il mai stanco, mai appagato David Cronenberg torna, per l’ennesima volta nella sua carriera, a indagare su quanto di buono, di cattivo e di imprevedibilmente aleatorio si cela nella psiche umana.
Lo fa con un’opera - la ventesima della sua schizofrenica filmografia - che, in apparenza, nulla ha in comune con quelli che sono stati i caratteri dominanti della sua precedente fatica, ma con la quale riporta più somiglianze di quanto storia, ambientazione e cast facciano supporre.
Già, perché Sigmund Freud, Carl Jung e la Germania della prima Guerra mondiale sono ben distanti dal concetto di “cosmopoli” che il regista di Videodrome e Inseparabili intende qui sviluppare, palesandone la volontà sin dall’emblematico ed inequivocabile titolo.
E una limousine bianca che viaggia in lungo e in largo per i vicoli di New York con a bordo un laccatissimo Robert Pattinson non è esattamente la più alta espressione di raffinatezza estetica e formale. Almeno fin quando la reale identità del nuovissimo progetto cronenberghiano non ci arriva addosso come un pugno in fronte.
A battezzare ufficialmente la ventesima pellicola del cineasta canadese è di nuovo un festival. Non più Venezia ma Cannes, dunque, che torna a ospitare il regista sette anni dopo averlo elogiato e acclamato grazie al bellissimo A History of Violence (2005) e aver conferito nell’ormai lontano 1996 il premio della Giuria al suo discusso e controverso Crash.
Un’opera molto personale, questo Cosmopolis, perché Cronenberg lo ha sia diretto che scritto, avendo come principale punto di riferimento l’omonimo romanzo di Don DeLillo del 2003.
Molto personale perché la mano di Cronenberg si sente dal primo all’ultimo dei circa 105 minuti di durata, gran parte dei quali vedono il protagonista, tale Eric Packer, seduto sul sedile posteriore di una limousine diretto dal suo parrucchiere per farsi tagliare i capelli.
Ma oggi è giorno di grande traffico nella grande Mela - la vicenda ha luogo a Manhattan - perché tutta la città attende la visita del Presidente degli Stati Uniti ed è alquanto difficile farsi spazio tra i veicoli che affollano la metropoli.
Packer, giovane rampante con una carriera in rapida ascesa nel mondo della finanza, è però determinato a raggiungere l’unico suo obiettivo di questa giornata: farsi tagliare i capelli dal suo parrucchiere.
Dietro un evento così banale e quotidiano si nasconde però qualcosa di ben più complesso; Packer è implicato in affari loschi ed è ormai convinto che qualcuno stia cercando di ucciderlo.
In Cosmopolis c’è tutto Cronenberg, dagli esordi ad oggi. C’è la metamorfosi, il senso di colpa, il peccato, la redenzione, il marcio della natura umana e della società, che ci schiaccia e ci soffoca senza distinzioni.
In quest’ottica, la pellicola può essere vista come un arguto e spietato atto d’accusa contro il capitalismo, che Cronenberg riproduce attraverso la metafora della limousine, come se tutta la vita - e con essa la società, l’economia, il sistema - fosse una macchina in corsa che si divincola nel traffico e dalla quale, una volta saliti, non possiamo più separarci.
Appendice di tutto il racconto è difatti l'automobile stessa, l’involucro dentro il quale Eric Packer è rinchiuso e che utilizza come mezzo per giungere al suo fine. All’interno di essa si svolgono molti dei dialoghi che fanno, senza dubbio, da cuore pulsante a tutta l’opera. Da questi traspare tutta una serie di significati simbolici che Cronenberg vuole attribuire alla sua storia, abbastanza potenti da lasciare il segno ed essere compresi anche se non spiegati.
Ma Cosmopolis non è fatto solo di dialoghi e introspezione. E’ anche pathos, adrenalina e inquietudine, sensazioni che vengono rese appieno e dal regista e da un Robert Pattinson alla sua prima, vera prova attoriale, risultando una scommessa quantomeno azzardata - non è certo il tipo di interprete cui uno come Cronenberg affida solitamente il ruolo di protagonista in uno dei suoi film - ma sorprendentemente vinta.
Sia a livello di scrittura che di regia e di recitazione - nel cast anche Paul Giamatti e Juliette Binoche - Cosmopolis si conferma opera straniante e di grande impatto emotivo, che ha già diviso gran parte della critica internazionale e che non mancherà di suscitare reazioni contrastanti anche tra i più affezionati fan di David Cronenberg.
A neanche un anno di distanza dalla sua ultima fatica registica - si tratta di un cineasta dai tempi di lavorazione piuttosto dilatati - David Cronenberg firma con Cosmopolis la summa del suo cinema, imprimendo la storia (tratta dall’omonimo romanzo (2003) di Don DeLillo) di significati simbolici e metafore oltremodo allusive.
Fatto di lunghi e arguti dialoghi ottimamente recitati dal (quasi) ex vampiro Robert Pattinson e da un cast pienamente all’altezza, è un film che ha il potere di scuotere chiunque lo veda e di non lasciare indifferenti.
In Concorso a Cannes, merita senz’altro di lasciare la Croisette a mani piene.
Francesco Manca, everyeye.it
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