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RECENSIONI - Rassegna Stampa /3

Ultimo Aggiornamento: 21/08/2012 16:02
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Sesso: Maschile
29/05/2012 14:46


COSMOPOLIS
Rassegna Stampa / 3



Il mondo a pezzi di Cronenberg
Stampa divisa per Cosmopolis con Pattinson e Binoche. Il regista: «Il mio film per riflettere sul capitalismo»

Il protagonista è un giovane finanziere d'assalto chiuso nel suo mondo di privilegi, rappresentato da una limousine in cui l'uomo lavora, fa sesso e si fa persino visitare dall'urologo. La crisi economica riversa nelle strade di New York folle inferocite, ovunque esplodono le proteste contro il capitalismo. Eppure Cosmopolis «non è un film sul presente e ancor meno un film anticapitalista», dice David Cronenberg, in concorso con l'opera ispirata al romanzo omonimo di Don DeLillo (Einaudi). «Nessuna attualità perché il libro è stato scritto dieci anni fa, anche se ha un indubbio valore profetico», sorride il maestro canadese. «Mentre giravamo le scene in cui l'auto del protagonista viene attaccata dai manifestanti, a pochi isolati gli Indignados occupavano Wall Street.»
Al Festival irrompe Cosmopolis e divide la platea dei critici. Mentre Robert Pattinson, l'ex vampiro di Twilight alla sua prima prova d'autore, mette a ferro e fuoco la Croisette, invasa da fans e paparazzi. Il circo mediatico ha toccato l'apice qualche giorno fa, quando l'attore inglese 26enne ha assistito alla proiezione di On The Road nel quale recita Kristen Stewart, sua compagna nella saga sui vampiri e ormai nella vita. Ma i due, che pure annunciano il proposito di mettere su famiglia, a Cannes sono stati attentissimi a non farsi fotografare insieme.
Pattinson, molto bello ed elegante nel suo completo di lino blu, non sembra però essersi montato la testa. Niente capricci, nessuna ostentazione di tormenti interiori o aria snervata da divo braccato. «Un attore», dice con semplicità, «non deve porsi troppe domande né arrovellarsi sul suo personaggio, deve interpretarlo e basta». Per Cronenberg, il giovane «è un professionista serissimo che mi ricorda Viggo Mortensen, infatt spero di averli insieme sul mio prossimo set. Il fatto che Robert abbia girato Twilight e sia diventato una star è un puro accidente. Benemerito, perché mi ha permesso di trovare i finanziamenti per Cosmopolis
Com'è nato il progetto del film (da ieri stesso nelle sale con 01)? Il regista, uomo di formazione filosofica e innamorato della parola, spiega di essere rimasto affascinato dai dialoghi del romanzo. «Ho impiegato tre giorni a trascriverli e altrettanti a concepire l'azione. Ma il film è un prodotto completamente diverso dal libro, che considero non tanto una profezia quanto una riflessione sul capitalismo». Ha fatto ricerche sull'attuale crisi finanziaria? «Non ci ho pensato nemmeno un secondo, sono la persona più lontana che esista da speculazioni e investimenti. Vado pazzo per la saga Madoff, è una storia esemplare di criminalità e colletti bianchi. Ma per diventare ricco devi essere ossessionato dalla finanza, un puro gioco d'azzardo. Vedere il mio film non vi aiuterà certo a far fruttare i vostri soldi...». Cronenberg si dice entusiasta di essere a Cannes: «Trovarmi in compagnia di maestri come Haneke, Resnais e Bertolucci è già un premio». [...]
Gloria Satta, Il Messaggero



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Il mondo esplode
E' colpa degli yuppies

Robert Pattinson il vampiro, Robert Pattinson il seduttore pallido e assorto. La sua composta, inappellabile freddezza. Robert Pattinson è il protagonista di Cosmopolis, il film di David Cronenberg presentato ieri in concorso a Cannes, e da oggi nelle sale italiane. Abbiamo visto il film nelle atmosfere adrenaliniche e survoltate della Croisette, e abbiamo parlato con lui.
L'inizio. Titoli bellissimi, le macchie di colore dell'action painting di Jackson Pollock picchiettano promesse. E poi vediamo una limousine bianca, perfetta. E Robert Pattinson. Vestito da Blues Brother. Nero, perfetto. Macchina bianca, Pattinson nero. Inizia una lunga partita a scacchi tra lui e il mondo. Pattinson, nel film, è un genio della finanza, uno che ha tanti di quei soldi da non sapere che farsene. Magari potrebbe comprare una chiesa intera, con dei preziosissimi Rothko dentro.
La Limousine è come un sottomarino che attraversa New York. Persone vanno e vengono dentro l'auto lussuosa, Juliette Binoche fa l'amore con lui, un giovane nerd gli spiega l'andamento dello yen. Ma intanto il mondo intorno va a pezzi, scoppiano bombe, ci sono rivolte. Fuori dalla limousine ci sono macerie, ci sono disperati, cadaveri, grida. Ma noi rimaniamo dentro. Dentro il sottomarino silenzioso. Lì, in quell'acquario, dove Pattinson nuota quieto, qualunque cosa accada. Restiamo lì insieme al suo sguardo impassibile, alle sue sopracciglia folte, alla sua camicia bianca, alla sua giacca nera. Pattinson è Ulisse, un Ulisse che però non ha un luogo a cui tornare. La sua è un'Odissea senza fine, il cui punto di approdo è un vecchio, assurdo negozio di barbiere. Il vecchio barbiere che conosceva suo padre. E che custodisce la memoria, e con la memoria la sua anima.
A un certo punto, nel film appare la scritta: «Uno spettro si aggira per il mondo. Il capitalismo.» E' una citazione, rovesciata, di quello che scriveva Marx tanto tempo fa. E il film racconta la fine del mondo, la fine del capitalismo. Il capitalismo, la finanza come un treno in corsa verso un binario morto.
Tutto parte da un romanzo di Don DeLillo, il grande maestro della letteratura postmoderna americana. Portato in immagini da David Cronenberg, uno che ha raccontato in modo straordinario la degenerazione dell'umano, il decadimento dei corpi. O gli incubi psichedelici che trasformano le macchine da scrivere in bestie immonde nel Pasto Nudo. O i corpi umani che si disfacevano in Crash, carne nuda contro auto in corsa, follia ed estasi dell'incidente automobilistico, lamiere che incidono ossa. Qui Cronenberg rinuncia alle acrobazie visuali dei suoi film più estremi. Siamo in spazi chiusi. Il volto di Pattinson, i suoi interlocutori. E dialoghi, dialoghi, dialoghi. Quasi sempre dentro la Limousine. Una bolla di vetro e di ferro, un globo di silenzio nel mondo che brucia. Prima o poi, il mondo romperà il vetro.
Cronenberg, l'avete capito, racconta il presente. Il nostro stare qui, sul Titanic di questo Occidente che sta rapidamente affondando. Lo racconta in modo gelido, senza concedere nulla alla suspense, all'azione. Tra i registi “caldi”, che affollano i loro film di parole, sentimenti, cuore e coratella, e i registi “freddi”, quelli che tagliano immagini col bisturi, quelli che giocano partite a scacchi con la mente dello spettatore, Cronenberg è sicuramente tra i “freddi”. Magari anche troppo. In questo film si fa sesso ma non ci si eccita, si spara ma non si ha paura, ci si sposta ma si ha l'impressione di non muoversi. Pattinson si aggira nel film con l'aria di chi sa tutto: sa che il mondo sta crollando, sa che le azioni cadono come suicidi da un grattacielo, sa che forse la sua vita è segnata. E sembra lievemente annoiato da tutto.
Tutto diverso è il Robert Pattinson che incontriamo, sulla terrazza di un hotel a Cannes. Sorridente, rilassato, easy. E con gli occhi che si mostrano in tutto il loro azzurro. «A volte noi attori vogliamo capire troppo, interpretare troppo. E quando vogliamo essere troppo intelligenti, rischiamo di essere stupidi. Così ho seguito semplicemente il ritmo dei dialoghi, la loro musica». […]
Luca Vinci, Libero



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Cronenberg filma un’odissea postmoderna con protagonista Robert Pattinson, esca di lusso per far riflettere il grande pubblico
Cosmopolis, il nuovo film del regista canadese David Cronenberg, presentato a Cannes e uscito in contemporanea nelle nostre sale, è destinato a far molto parlare.
Non è infatti qualcosa da meritare le poche righe di un articolo di cinema. E’ molto di più. Ha ingredienti per far riflettere e chiavi di lettura molteplici, perché è letteratura su schermo. Tratto dall’omonimo libro dello scrittore italo-americano Don DeLillo, ha per protagonista l’idolo delle giovanissime, Robert Pattinson, finalmente in grado di seppellire il vampiro di Twilight.
Il giovane genio dell’alta finanza, il milionario Erick Packer, sale sulla sua limousine e decide di recarsi dall’altra parte della città ad aggiustare il taglio di capelli da quello che era il barbiere del padre. Per raggiungerlo impiegherà un’intera giornata perché il traffico di New York è paralizzato dalla visita del Presidente degli Stati Uniti, da cortei di protesta e dal funerale spettacolo di una celebrità.
Saranno ventiquattr’ore trascorse quasi sempre a bordo della sua lussuosissima auto, una placenta di lusso, high tech, blindata e insonorizzata, barriera e filtro col mondo che sfila fuori dal finestrino quasi fosse tv senza sonoro. Qui incontrerà collaboratori, farà sesso, perfino un check up con tanto di visita prostatica, assisterà alla propria rovina finanziaria e sarà minacciato di morte.
Ma il vero nemico non è nel mondo esterno bensì in quello interiore, nella presa di coscienza che si fa largo in Erick di aver sposato il virtuale, il fascino dell’identico, il cinismo anaffettivo dei numeri. Per questo abbandona il bozzolo blindato e va a cercarsi tutto ciò da cui si era nascosto, non ultima la morte.
Non è un film sulla fine del capitalismo, ma sugli effetti apocalittici dell’aridità affettiva. Il male incurabile di questo tempo è il cinismo, la mancanza di senso, la follia di credere di poter dominare il mondo attraverso il calcolo e che l’avere basti ad appagare la sete esistenziale.
Un’opera profetica sul destino amaro di un’ umanità digitalizzata e per questo disumanizzata.
Un film quanto mai attuale, la cui essenza è tutta nei dialoghi, intelligenti, surreali, fatti di guizzi filosofici e ripetizioni scarne ed ossessive, che sono presi interamente dal libro di De Lillo. A Cronenberg il merito di aver dato loro una cornice cinematografica e buoni interpreti. Ma disquisire sulla confezione sarebbe tradire il senso del film.
Sarà meraviglioso assistere ad orde di teenager che usciranno dal cinema deluse di non aver capito granché e che, per meglio comprendere il destino del loro idolo, Pattinson, andranno a leggersi DeLillo e quindi a porsi interrogativi degni di questo nome.
Serena Nannelli, Il Giornale



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Il film più contemporaneo del Festival, straordinario specchio dell'attuale caos finanziario e umano che sta devastando il mondo, nasce da un romanzo memorabile del 2003, Cosmopolis dell'americano Don DeLillo (…) il suo Cosmopolis, in concorso, dona immagini claustrofobiche e febbrili agli eventi catastrofici e ai dialoghi del romanzo, usato come una vera e propria sceneggiatura già pronta. L'unica invenzione personale del regista è la scelta dell'attore protagonista, quel Robert Pattinson, vampiro insignificante di Twilight, qui geniale figura di giovane uomo perduto nell'ossessione del suo potere e del suo sconfinato narcisismo. Sorprendente, nel momento stesso in cui appare, l’identificazione perfetta con il personaggio del libro. Eric non poteva che essere lui. Eric, il ventottenne miliardario genio della finanza, che lascia il suo appartamento di 48 stanze nell’Upper West Side di New York, per chiudersi in una di quelle limousine bianche, simili a gigantesche casse da morto, una dietro l’altra nel cuore di Manhattan, simbolo di stratosferica ricchezza e di estraneità alla vita degli altri, ma anche alla vita stessa. Eric, completo nero, camicia bianca da superyuppie, ha scelto il giorno sbagliato per andare dall’altra parte della metropoli, ad Hell's Kitchen, un tempo quartiere povero, a farsi tagliare i capelli da un vecchio barbiere, la sola persona che lo colleghi alla sua triste infanzia e alla morte del padre. La città è un immenso ingorgo impenetrabile, c’è in visita il presidente degli Stati Uniti, c’è il grandioso funerale di una star del rap, c’è una violenta protesta antiglobalizzazione, in più il tortuoso sistema di sicurezza che lo protegge segnala pericolo: qualcuno vuole ammazzarlo. Dentro quella fortezza inespugnabile (la prima inquadratura del film, come la copertina del libro Einaudi, ne mostra la intimidente parte anteriore), Eric fa l'amore con varie signore (tra cui la sensuale Juliette Binoche), incontra quasi senza riconoscerla la bella ricca moglie che fa vita per conto suo, discute con l'esperta di borsa mentre il medico gli tasta internamente la prostata, fa la pipi nel gabinetto retrattile, consulta sui tanti schermi la finanza del mondo. Si sente un dio per la sua capacità d'intuire in anticipo i movimenti degli indici finanziari e di aver costruito la propria immane ricchezza con l'azzardo. Ma quello non è proprio un giorno fortunato: per la prima volta non ha previsto la caduta dello yuan, per la prima volta ha saputo di avere la prostata asimmetrica, il che gli fa dubitare della sua certezza che sia la simmetria tra capitale e tecnologia a dirigere i mercati. Fuori dal suo abitacolo, New York, il mondo, stanno esplodendo, percorsi da un'umanità furibonda e sconosciuta, dentro un disastro in cui anche lui sta precipitando, fuori dal suo potere, da se stesso, perché una lontana moneta di un paese mai visto è crollata.
Natalia Aspesi, Repubblica



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Il viaggio da incubo frenato dai dialoghi
Annunciato come uno dei grandi eventi del festival, Cosmopolis di David Cronenberg (da ieri anche sugli schermi italiani) mantiene le attese ma lascia anche qualche punto di domanda, come se il regista canadese fosse rimasto un po’ troppo «soggiogato» dal testo di Don DeLillo, finendo per rispettarlo fin troppo.
La storia è, con qualche alleggerimento, quella del romanzo omonimo: un viaggio in limousine attraverso New York (girato a Toronto) per portare un giovane squalo della finanza (Robert Pattinson, sempre molto vampiresco) a tagliarsi i capelli in un negozietto legato al ricordo del padre. Nel tragitto, complicato da ingorghi e manifestazioni no global, incontra la moglie (con cui ha un legame piuttosto lasco) poi collaboratori, amici, amanti e nemici, prendendo ogni volta più coscienza dei propri errori, finanziari ma anche esistenziali. Lo fa con lunghe e a volte contorte chiacchierate, che scandiscono questa specie di discesa verso gli inferi del Denaro e dell’Uomo: Cronenberg li mette in scena con semplice efficacia (campo/controcampo) usando gli spazi angusti della limo per dimostrare tutto il suo talento di regista, capace di trasmettere a volte un senso di claustrofobia a volte quello di una tana tecnologica (i video si sprecano). I «dubbi», dovuti forse a una sola visione (l’opera è decisamente complessa), nascono dallo squilibrio dialoghi/immagini, troppo sbilanciato a favore del primo, come se il regista di Crash o di Spider avesse trovato una tale consonanza tra le proprie ossessioni e quelle raccontate da DeLillo (che nel 2004 intuisce e anticipa la crisi di Wall Street) da esservisi un po’ «adagiato», senza un più personale lavoro di rilettura. […]
Paolo Mereghetti, Corriere Della Sera



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David Cronenberg, il killer della Borsa
I succhiasangue della finanza dovranno ora combattere contro un temibile «ex voto» dedicato alle rivoluzioni in corso. Il finale di concorso manda in tilt i banchieri globali

In finale di festival arriva il pezzo pregiato del concorso, Cosmopolis, che impone a Nanni Moretti la revisione della sua «lista nera» dove luccica sicuramente David Cronenberg-pioggia-di-sangue. Teorema sul cybercapitale, segnale purissimo di fine Novecento, ex-voto alle rivoluzioni in corso, il film dalla composizione ellittica è il manifesto di Occupy-Wall Street nell’interpretazione del più morale dei registi che compie detour politici su ogni riga di Don De Lillo.
La limousine bianca al ralenti nel traffico di Manhattan è una metafora vivente lunga dieci metri, un microcosmo attrezzato di monitor luminescenti che conduce da Park Avenue all’inferno di Hell’s Kitchen il miliardario Eric Packer con la faccia pietrificata dell’ex-vampiro di Twilight, tanto per rinviare ai succhiasangue dell’alta finanza E se lo scrittore americano della post-modernità data i suoi appunti aprile 2000, premonizione della crisi globale, Cronenberg li proietta in uno spazio atemporale, l’ambiente claustrofobico dell’auto lievita e si dissocia dal presente. È il regno del potere invisibile come gli algoritmi della Borsa che salgono e scendono a ritmo musicale, una «zona morta» dove il regista canadese comprime sotto la superficie asettica i mostri più feroci del suo cinema.
Eric Packer ha deciso di tagliarsi i capelli dal suo barbiere d’infanzia nel quartiere off-limits di New York, tragitto che chiuderà il cerchio della sua esistenza il giorno in cui la metropoli è sotto assedio per l’arrivo del presidente – «quale?» domanda alla guardia del corpo, non concepisce potere più grande del suo, di un 28enne che maneggia cifre astronomiche e manda in tilt seduto in macchinale borse di tutto il mondo. Eric, di fronte all’impennarsi dello yuan (ovvio che nel romanzo fosse lo yen) e alla disintegrazione del suo impero di dollari, sorride, porta in sé la sua stessa fine, non solo virtuale. Uno sconosciuto lo attende al varco, è il suo doppio folle, Benno (Paul Giamatti), controfigura adorante e delusa da un amore non corrisposto, l’ex impiegato esperto in analisi valutaria «mi occupavo di baht» gli dirà mascherato sotto un asciugamano. Il suo vero nome, Richard Sheets, «non mi dice niente». Brividi di piacere nel far sentire l’altro senza valore. Ma Packer non può sentire niente, è un’astrazione, un «corpo senza organi» e abita là dove l’umano è assente, mentre fuori Time Square è in tumulto, una folla preme contro la limousine dai vetri blindati e la colpisce, spara vernice di «art Street» sulle fiancate candide, i manifestanti urlano, la piazza prende fuoco. Sugli schermi interni passano le immagini di un omicidio in diretta un uomo entra nel campo della telecamera e colpisce agli occhi con un pugnale il direttore del Fondo monetario internazionale, fuori i display scorrono sugli edifici della piazza «Uno spettro si aggira per il mondo – lo spettro del capitalismo».
Cronenberg prende alla lettera DeLillo male immagini si prendono il gusto di disertare dal monologo interiore, Eric Packer è un simulacro, lo spettro, figura estrema delle paure del regista incollate sul volto bello e giovane di chi non ha colpe, perché, come dicono i banchieri, il sistema funziona così, e gode della rovina altrui, le catastrofi fanno salire i profitti, il passato va frantumato e il futuro è solo uno slogan da vendere. Il cinema prosciugato da ogni eccedenza barocca reso «classico »nelle forme essenziali un po’ come in A Dangerous Method, ma più livido e lustro, video d’arte sulle note vibranti di Howard Shore, non ha bisogno di spezzare il fraseggio minimalista come fa DeLillo: «Tu devi morire per come pensi e agisci. Per il tuo appartamento e per la cifra che hai speso per comprarlo… Per quella limousine che sposta l’aria vitale del Bangladesh».
Ogni dettaglio passa oltre lo schermo di vetro dell’auto, il fantoccio di un topo gigante, agitato dai no-global, e che affiora nelle fantasie di Eric come «unità monetaria», il topo al posto del dollaro, e i fantasmi annebbiati della città in rivolta Eric procede calmo e indifferente, tra una seduta filosofica medica e sessuale, tutto nel suo «ufficio» semovente, tratta sul prezzo di una cappella dipinta di Rothko – «tutto si può comprare» – e accarezza mentalmente il suo bombardiere nucleare parcheggiato in Arizona, mentre si sottopone al quotidiano check up, «ha la prostata asimmetrica» gli dirà il medico, accovacciato nella limousine. Ecco, cosa non ha considerato, l’«asimmetria» della realtà il capitale vuole tutto liscio e perfetto, mentre il «palpito della biosfera» è instabile. E inutilmente Eric ha installato per un milione di dollari due ascensori nella sua residenza faraonica (espulsa dal film come la parte del libro, forse troppo costosa di una ripresa cinematografica con centinaia di comparse nude distese a terra), uno con la musica «soft» di Erik Satie, l’altro con quella di Brutha Fez, che gli dà la carica. II rapper sufi sfila sul carro funebre al di là dei finestrini dell’auto smisurata è sceso dall’ascensore. Eric piange di rabbia.
Il viaggio sospeso in una condizione di semi-veglia da spettatore di un film allucinante che sarà l’ultimo in programma si interrompe come nell’intervallo tra un tempo e l’altro, Eric scende e la luce dei New York restituisce la materialità della vita, il bar, la tavola, il caffè, le persone, attrezzi superati in tempi digitali, e la neo-moglie, Elise Shifrin (Sarah Gadon), flessuosa eterea bionda che appare a ogni tappa poetessa figlia di un ricco industriale, sposata per ottimizzare i patrimoni, e che gli sfugge in un desiderio d’amore insoddisfatto. La troverà al Gotham Book Mart, nel quartiere dalle vetrine cariche d’oro, la vecchia libreria sotto il livello della strada rifugio di Elise come l’auto per Eric. Ma non fermerà la corsa auto distruttiva del miliardario, solo nella notte, ha sparato al body-guard con una pistola dai sensori vocali, per restare indifeso di fronte al suo assassino.
Cosmopolis resterà al di là del palmares, il film di Cannes 65, opera totale scandita dallo scontro epocale tra gli “yoctoseconds” della Borsa e la musica velvet dei Metric dai sotterranei di Toronto, una nuova Fuga da New York che, via dal revival e dal remake, restituisce l’anima al cinema.
Mariuccia Ciotta, Il Manifesto



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Cronenberg si ispira a De Lillo per il suo «Cosmopolis»
Robert Pattinson nel ruolo del miliardario che passa la giornata nel microcosmo dell’auto in mezzo al traffico svolgendo i suoi affari
Non capita tutti i giorni di vedere un grande scrittore a Cannes. Anni fa capitò con James Ellroy, che venne a presentare L.A Confidential. Ieri è stato bello incontrare, seduto accanto a David Cronenberg, il molisano Don De Lillo, nato nel Bronx nel 1936 da una famiglia proveniente dalla provincia di Campobasso. Cosmopolis è un suo romanzo del 2003 che Cronenberg ha sintetizzato in un film costruito attorno alla fama (indiscutibile) e al talento (diciamo in fieri) di Robert Pattinson, il vampiro di Twilight. In apertura dell’incontro, De Lillo precisa di non aver messo mano alla sceneggiatura, «ed è per questo che il film è così bello». Doppia bugia, che ovviamente gli perdoniamo: il film non è poi così bello e la sceneggiatura rispecchia pedissequamente i dialoghi del romanzo, tanto è vero che Cronenberg confessa candidamente di averla scritta in 6 giorni con un frenetico lavoro di «copia & incolla».
L’idea di Cosmopolis è talmente singolare che è bello sentirla raccontare proprio da De Lillo: «Mi chiedono sempre se scrivendo Cosmopolis nel 2003 ho voluto riflettere sull’inizio del nuovo millennio, ma chi scrive romanzi non ragiona in questo modo. Io mi sono stupito vedendo che le strade di New York venivano improvvisamente invase da un esercito di limousine bianche. E Manhattan è l’ultimo posto al mondo nel quale queste auto possano muoversi comodamente (non ne ha mai vista una in via Condotti a Roma, ndr). Così ho deciso di piazzare un personaggio su una limousine e di vedere dove l’avrebbe portato. Tutto qui. Niente millenni, niente Apocalissi, niente profezie dei Maya». De Lillo si ferma qui, ma in realtà l’idea del romanzo (e del film) è ancora più folgorante: il personaggio che sale in limousine è Eric Packer, 28enne multimiliardario di Wall Street, che vuole a tutti i costi andare in auto dal barbiere proprio nel giorno in cui il presidente Usa è a New York e il traffico di Manhattan è impazzito. Parte così una versione yankee e yuppy dell’Ingorgo di Luigi Comencini (chissà se De Lillo e Cronenberg l’hanno visto?), con la limousine che diventa un microcosmo dove Packer riceve collaboratori e clientes, fa sesso, combina affari, mangia beve e va al bagno (c’è persino quello) e ad un certo punto accoglie addirittura un medico che gli fa un ecodoppler (sulla macchina c’è anche l’attrezzatura necessaria, e comunque il giovanotto fa analisi accuratissime tutti i giorni).
Non tutto il film avviene dentro la limousine, ma la claustrofobia regna sovrana e i dialoghi occupano tutti i 108 minuti del film. Robert Pattinson, diciamolo anche a costo di offendere i fans di Twilight, non ce la fa: è in scena dall’inizio alla fine e ci si sente male per lui. È quasi ovvio che tutti gli attori che dovrebbero fargli da «spalla» (Juliette Binoche, Mathieu Amalric, Paul Giamatti…) gli rubino la scena.
Paure profetiche
Cosmopolis è noioso e stilisticamente fin troppo piatto per essere un film di Cronenberg. Ciò non di meno è interessante per come De Lillo, nel 2003, ha profeticamente descritto tutte le paure che ci attanagliano in questi giorni: la crisi economica, l’instabilità dei mercati, l’aggressività asiatica, eccetera eccetera. Dice Cronenberg: «Abbiamo girato delle scene di scontri nelle vie di New York per poi leggere sui giornali che i manifestanti del movimento “Occupy Wall Street” facevano più o meno le stesse cose. Molto bizzarro, ma casuale. Il romanzo racconta lo spettro del capitalismo, che terrorizza l’America esattamente come un altro spettro, quello del comunismo, si aggirava per l’Europa nel Manifesto di Marx ed Engels. Però non chiedeteci profezie: noi osserviamo, prendiamo appunti, ci chiediamo se tutto abbia un senso e non abbiamo risposte. Solo domande».
Alberto Crespi, L'Unità



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Tutti i peccati di Wall Street racchiusi in una limousine
Convince «Cosmopolis» di Cronenberg sulle magagne del capitalismo raccontati da un broker durante un lungo attraversamento di New York

In limousine al funerale del capitalismo può anche essere un’idea. Se poi in compagnia di un vampiro di Wall Street, impersonato dalla quintessenza del vampirismo new age, ancora meglio. Ma per Cosmopolis di David Cronenberg, in concorso ieri, tratto da un romanzo di Don DeLillo, Underworld [n.d.Zanzibar: tratto da un romanzo di Don DeLillo Cosmopolis], vale lo stesso discorso di On the Road, Paperboy, Io e Te: la scrittura è meglio dell’immagine.
Così come in Holy Motors, il francese Leos Carax metteva in scena macchinoni di lusso parlanti, e l’iraniano Abbas Kiarostami taxi e automobili dentro cui incessantemente si parlava, anche l’americano Cronenberg utilizza le quattro ruote nel loro massimo di lunghezza come fossero un set. Coincidenza o nuovo corso, non sapremmo dire, ma resta l’impressione di un cinema che sempre più si restringe, quasi che la realtà sia divenuta troppo complessa per poterla raccontare all’aria aperta.
Cosmopolis narra le ventiquattro ore di un giovane magnate della finanza, Eric Packer, che ha deciso di attraversare la città di New York per andare dal suo barbiere di fiducia, nonostante l’arrivo in città del presidente degli Stati Uniti, cortei di protesta anarco-situazionisti e il caos causato dal crollo internazionale delle Borse abbiano mandato in tilt il traffico urbano, e fra imbottigliamenti e scontri si procede a passo d’uomo. C’è poi un possibile attentato alla sua persona che sconsiglierebbe la traversata, ma il nostro eroe, se così si può dire, è uno che ama il rischio e non ha il senso del limite.
Ex ragazzo prodigio di Wall Street (fino a ieri era il più giovane, ma adesso ha 28 anni e c’è già chi gli soffia sul collo per prenderne il posto), Eric durante il percorso entra e esce dalla macchina, incontra gente, fa sesso, si fa controllare la prostata, ha il tempo di essere lasciato dalla moglie, di fallire, di uccidere e infine di essere ammazzato, una sorta di catarsi se non di resa.
È un essere complicato Packer, crudele, volgare nella sua animalità predatoria e nella sua ansia di possesso, eppure sofisticato, vulnerabile, delicato, persino infantile (Robert Pattinson lo rende perfettamente). Se si vuole, è una metafora del capitalismo stesso colto nel suo elemento autodistruttivo. A un certo punto del film, un suo collaboratore fa addirittura delle proiezioni a partire dall’ipotesi secondo la quale, un domani, la nuova moneta di scambio potrebbe essere rappresentata dai topi…
Secondo Cronenberg, è proprio questo elemento autodistruttivo ciò che, letto il romanzo, l’ha spinto a girare il film. Non si tratta di fare dell’ipocrisia sulla cattiveria del capitalismo in sé, sul denaro «sterco del diavolo», perché non è questo il punto, ma di rendersi conto che, rispetto a undici anni fa, quando Underworld uscì [l'autore intende Cosmopolis, n.d.c.], l’autodistruzione è andata ancora più a fondo e si è tramutata in qualcosa di planetario da cui non si sa bene come uscire.
Così come Lawless e Killing Them Softly, anche Cosmopolis parla dunque della crisi economica, ma Cronenberg sceglie di andare al cuore del sistema, banche, multinazionali, mercati emergenti, crack e tensioni monetarie, compresso in uno spazio ristretto che ne accentua ancora di più l’elemento virtuale e insieme l’idea di un mondo a sé, isolato e protetto.
Eppure, il film fatica a imporre il proprio ritmo: Pattinson è convincente, ma non lo sono i vari comprimari incontrati per strada e/o in macchina (una stranita Juliette Binoche, un gigionesco Mathieu Amalric), nonché il suo carnefice finale, Paul Giamatti, troppo caricaturale per poter essere visto come una nemesi. Chi sperava in Cronenberg per avere nel Festival il film che avrebbe messo tutti d’accordo, si trova costretto a registrare l’ennesima delusione. A un giorno dalla fine, il bilancio di Cannes resta dignitoso, ma niente che si sia rivelato all’altezza delle tante promesse della vigilia.
Il Giornale



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Viaggio al termine del sistema
Circondati da una nauseante onda di effetti, ci sfugge qualsiasi causa. Un colpevole da vedere e toccare. Un maledetto, riconoscibile, afferrabile e punibile gruppo di cattivi che hanno operato per farci del male. Qual è la connessione tra il disastro dell'economia mondiale, le ragioni impalpabili del cyber-capitalism, i suicidi della disperazione e la fine dei valori della dignità umana (lavoro, futuro, famiglia) nei nomi evanescenti, Wall Street, hedge fund, spread? Nella limousine Lincoln bianca, cavea mobile di divani e telefoni, prigione ovattata collegata al mondo con ogni tecnologia, il 28enne Parker (prova difficile e riuscita di Robert Pattinson ex vampiro da blockbuster), speculatore finanziario che gode di un patrimonio di centinaia di miliardi, attraversa Manhattan con autista e guardie del corpo in una giornata sempre più difficile per la sua sicurezza, per la tenuta della sua fortuna, per il senso della vita, visto che incomincia a farsi delle domande. Ingorghi e rivolte si avvicendano a visitatori emblematici: in macchina discute la sua insensibilità con la fidanzata poetessa (Sarah Gadon), fa sesso con una gallerista (Juliette Binoche), riceve il medico che fa il check up quotidiano, e va verso una notturna resa dei conti all'estremità della metropoli dove è nato, e più in là ancora, deriva metafisica di questo viaggio al termine del sistema. Dal romanzo di DeLillo, in Cosmopolis Cronenberg incarna l'esistenza finanziaria, aleatoria, del profitto, movimento continuo (l'auto) e inarrestabile (le guardie del corpo sempre ai lati), finalmente il guscio e l'anima del fantasma della libertà.
Silvio Danese, Il Resto Del Carlino



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Non tutti i romanzi di successo sono fatti per essere adattati per il grande schermo. Un esempio di tentativo fallito è Cosmopolis, il bestseller di Don De Lillo che racconta la giornata di un giovane finanziere intento ad attraversare New York nella sua limousine per raggiungere il barbiere della sua infanzia. La costrizione visiva di dover ambientare un intero film (salvo poche escursioni esterne) all’interno di un’automobile rende le cose cinematograficamente problematiche (la stessa difficoltà ha incontrato Aurelio Grimaldi nel portare sul grande schermo Caos calmo), ma speravamo che il genio visionario di David Cronenberg, che ha saputo raccontare magnificamente un uomo confinato in uno spazio angusto, fisico e mentale, in Spider, potesse trovare la giusta chiave narrativa per affrontare il problema.
Invece il Cosmopolis di Cronenberg, entrato ieri in concorso al festival di Cannes in contemporanea con l’uscita del film nelle sale italiane, non riesce a trasformare la claustrofobia dell’interno della limousine in un espediente drammaturgico, e la noia per lo spettatore aumenta di minuto in minuto, anche a causa di due altri problemi importanti. Il primo è la presenza, al centro della trama, di Robert Pattinson, il divo della saga di Twilight, che aveva già dimostrato ampiamente di essere legnoso e inespressivo (vedi la sua non-interpretazione in Bel ami e Come l’acqua per gli elefanti), e che in Cosmopolis conferma la sua mancanza di carisma personale e di talento recitativo. Dando per buono che Cronenberg l’abbia scelto non solo per il suo potenziale al botteghino (del resto quante teenager sarebbero disposte a sorbirsi Cosmopolis pur di omaggiare il loro idolo?) e che magari abbia avuto l’intuizione di travasare, anzi trasfondere, la sua valenza iconica di vampiro nel ritratto di un succhiasangue contemporaneo, ovvero un finanziere senza scrupoli di quelli, come si dice nel film, «all’ombra delle cui azioni le masse mangiano e dormono», il regista ha comunque peccato di eccesso di fiducia nella speranza che un simile pezzo di legno potesse reggere tutto un film.
È imbarazzante vedere il contrasto fra la recitazione di Pattinson e quella degli attori di qualità che appaiono in alcuni piccoli ruoli di Cosmopolis rendendoli vitali e narrativamente efficaci, come i francesi Juliette Binoche e Mathieu Almaric o l’inglese Samantha Morton, facendoci rimpiangere ancora di più la decisione di Cronenberg di dare proprio al giovane Robert la parte del leone. Non c’è un solo minuto in cui, dietro la maschera immobile dell’attore britannico, si intraveda un barlume di umanità, un dolore autentico, o quella solitudine siderale che saliva nitida dalle pagine del romanzo di De Lillo. Pattinson sembra un morto che cammina, e questo andrebbe anche bene per il ruolo, ma è soprattutto privo di intelligenza, sensibilità o spessore, e questo non va bene per niente.
Il secondo problema del film è la sceneggiatura, che non si stacca mai dalla pagina letteraria e non diventa mai cinema. I personaggi parlano come libri stampati, con frasi fatte che, lette, avevano un senso e uno scopo ben preciso, ma che recitate sembrano irrimediabilmente finte e diventano spesso involontariamente comiche. Eppure quelle stesse frasi avrebbero potuto (dovuto?) ispirare un film interessante: da questa storia crespuscolare, incentrata su un uomo condannato «a vedere cose che non sono ancora successe», ad osservare gli altri, i non ricchi, come minus habens animati «dall’orrore e dalla disperazione» senza accorgersi di essere lui stesso un personaggio da film horror, uno di quelli che «muoiono nel weekend» perché durante la settimana sono troppo impegnati a fare soldi (e di weekend non sanno che fare di sé), un essere umano di discutibile valore la cui esistenza ha però «un effetto domino» su quella di tutti gli altri, un giovane uomo infine che non sa come «entrare in contatto con gli altri in maniera normale», poteva nascere un capolavoro contemporaneo, di quelli che marcano la fine di un’era e ci preparano per quella successiva, che speriamo migliore. Da David Cronenberg, i cui ultimi film hanno segnato un salto di maturità artistica encomiabile, non ci aspettavamo proprio questo clamoroso passo falso.
Paola Casella, Europa Quotidiano



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La Borsa o la scienza? Ma nella vita vince l'asimmetria
In Cosmopolis, l'ultimo film di David Cronenberg (2012) fedelmente tratto dall'omonimo libro di Don DeLillo (2003; è il tredicesimo libro del famoso, forse anche troppo, scrittore americano, trad. it. Einaudi), ad un certo punto al protagonista viene diagnosticata una "prostata asimmetrica". Una simile verdetto non è necessariamente funesto, ed anzi all'interno del film, così come nel romanzo, ciò che assume particolare rilevanza non è tanto il riferimento ad un'eventuale patologia della ghiandola in questione quanto piuttosto la sottolineatura della sua asimmetria. Erick Packer è un giovane multimilionario che naviga con destrezza nel mare magnum dell'alta finanza; un giorno decide di attraversare tutta New York, paralizzata dalla visita del presidente degli Stati Uniti e dalle continue manifestazioni contro la crisi economica, per raggiungere il suo parrucchiere di fiducia che si trova dall'alto capo della città. Il motivo è evidentemente frivolo ma Erick non si fa di questi problemi: egli è abituato ad avere sempre quello che vuole, è determinato fino all'ostinazione e non è solito fermarsi di fronte ad alcun ostacolo; a bordo della sua limousine bianca, con autista e guardia del corpo, egli attraversa una città in subbuglio non lasciandosi coinvolgere da niente e da nessuno, ricevendo in questa casa viaggiante, che durante il viaggio finisce per assumere sempre più chiaramente i tratti del carcere-bara, i propri collaboratori, mangiando e facendo sesso, e, per l'appunto, facendosi visitare dal proprio medico che gli diagnostica una "prostata asimmetrica".
Ciò che caratterizza il giovane ventottenne è la capacità di controllo del mondo finanziario, ch'egli vorrebbe far coincidere con una supposta capacità di controllo del mondo in quanto tale. Nella sua limousine Erick è costantemente informato - in "tempo reale" (che strana e ingannevole espressione, ma su questo sorvolo) e dai molti schermi che lo guardano, ma così anche lo fissano e oggettivano,
inondandolo di grafici - degli andamenti dei mercati e nulla sembra sfuggire alla sua attenzione e a quella dei suoi esperti collaboratori. In questo universo totalizzante e concentrazionario l'immagine del mondo è dunque quella filtrata dai grafici e dalle tabelle che tentano soprattutto di prevedere il futuro, e che talvolta addirittura ci riescono anche perché intervengono nella sua stessa costituzione. "Tutto è sotto controllo", "non c'è problema", o meglio: i problemi sono moltissimi, conviene mantenere l'opinione pubblica sempre sotto pressione, ma al tempo stesso essi sono anche tutti sotto controllo e prima o poi tutti saranno risolti. I telegiornali non fanno altro che inquietarci/tranquillizzarci e a tale scopo non trovano di meglio che saturarci di tabelle (della borsa) e di grafici (della scienza). Le tabelle della borsa e i grafici della scienza
si trovano così ad occupare nei quotidiani e nei telegiornali lo stesso spazio una volta occupato dall'oroscopo: stessa magia,
identiche mirabolanti previsioni..
Ma la vita non è la borsa e neppure la scienza. Ad un certo punto la vita parla e quando parla essa lo fa, non a caso, soprattutto nel e attraverso il corpo. Tutto è sotto controllo ma non il corpo: la prostata di Erick Packer, del simmetrico, preciso, ordinato, potente e brillante manager (un altro uomo eccellente, sopratutto un "partito eccellente"), è "asimmetrica"; così come "asimmetrico" risulterà alla fine anche il tanto agognato taglio di capelli che verrà "completato" da una sola parte, il che vorrà dire che resterà incompleto. La vita resiste, per fortuna; c'è dell'asimmetria, per fortuna. Come è ovvio, non si tratta di fare l'elogio della malattia e del disordine (lo ripeto: al di fuori della limousine di Erick il mondo reale è disordinato e conflittuale) , ma di riconoscere che la vita umana è in se stessa sempre asimmetrica e che non c'è viaggio autenticamente umano che, resistendo ad ogni possibile organizzazione e a tutte le pretese delle agenzie di viaggio, non si trasformi in una Odissea. Lo sanno, per nostra fortuna, non solo gli ammalati, ma anche gli innamorati, coloro che sono votati, ma così anche condannati, all'asimmetria: "L'altro che io amo e che mi affascina è atopos. Io non posso classificarlo, poiché egli è precisamente l'Unico, l'Immagine irrepetibile che corrisponde miracolosamente alla specialità del mio desiderio. E' la figura della mia verità ; esso non può essere fissato in alcun stereotipo (che è la verità degli altri) (...) L'innocente non è forse inclassificabile (e perciò tenuto in sospetto in ogni società la quale "si riconosce" soltanto dove può classificare delle Colpe)?" (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi).
Che bella notizia: asimmetrica non è, come talvolta può capitare, solo la prostata, ma sempre anche l'innocenza.
Silvano Petrosino, Avvenire.it
[Modificato da |Painter| 21/08/2012 16:02]
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