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RECENSIONI - Rassegna Stampa /1

Ultimo Aggiornamento: 25/05/2012 15:10
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Sesso: Maschile
25/05/2012 15:10


COSMOPOLIS
Rassegna Stampa / 1



Il giovane e potentissimo guru della finanza Eric Packer attraversa lentamente e inesorabilmente New York per soddisfare il capriccio di un nuovo taglio di capelli. Gli uomini della sicurezza lo avvisano di minacce incombenti alla sua persona e del caos nelle strade per la visita del Presidente degli Stati Uniti, mentre gli elementi del suo staff, a cui dà udienza lungo il viaggio sulla sua limousine,  lo mettono al corrente dei rischi della vertiginosa ascesa dello Yen che sta inghiottendo rapidamente il suo  enorme capitale. Autointrappolato nel funereo ventre tubolare della limo, Eric prosegue impassibile nel suo frenetico e allo stesso tempo immobile moto verso tutto ció che vuole la sua morte, incarnato dall’insignificante Benno Levin, suo doppio e antitesi, l’ordinario perseguitato dal caos, che ammira e detesta chi sa ricavare ordine dal caos incessante delle cifre su uno schermo.
“Due sistemi inconciliabili che cerchiamo disperatamente di tenere insieme”: in questa frase del romanzo di DeLillo risiede forse l’intera poetica del cinema ossessivo e impossibile di Cronenberg, l’eterno conflitto tra organico e teorico, carne e tecnologia, corpo e intelletto. Lo stesso si puó dire per il profetico versetto “il topo diventerà moneta corrente“, fusione grottesca tra materia pulsante e caotica, schemi numerici e astratti. il regista canadese decide di mantenere alla lettera la miriade di spunti che lo imparentano al testo, riportandoli da carta ad immagine senza raccogliere i pur interessanti squarci visionari (la città coperta di schermi cifrati ad esempio), anzi volutamente soffocandoli in uno straniamento teatrale di entomologica freddezza. Il dialogo tra Packer e Kinski, la sua analista teorica affascinata dai manifestanti che vogliono arrestare l’avanzata verso il futuro e indifferente verso l’uomo che si dà fuoco in piazza , viene messo in scena in maniera fortemente significativa rispetto alle intenzioni di Cronenberg: i dialoghi vengono ripetuti meccanici e pedissequi, con i due personaggi isolati nel tumulo insonorizzato dell’automobile e i tumulti esterni ridotti ad una silenziosa parata carnevalesca. Il testo recitato è distante dagli eventi narrati, ogni fiamma, ogni svolta del film è come già successa, già passato rispetto all’attimo del suo apparire sullo schermo, il corteo funebre di Packer avanza controllato e senza invenzioni. Un processo curioso per ció a cui ci ha abituato in passato Cronenberg, ma già evidente nella soppressione degli istinti visionari e annullamento dell’elemento fisico di contagio in A Dangerous Method.
L’opera di fredda sottrazione si riflette nella scelta di affidare la parte da protagonista e perno di ogni inquadratura a Pattinson, che prestando i propri spigoli indifferenti ad Eric Packer si misura con un vampiro ben più autentico di quello che l’ha portato al successo: secoli di monotonia compressi in una vita breve, votata al perseguimento dell’attimo, al controllo spasmodico e istintivo dell’infinitesimale, incarnazione dell’eccesso di lussuria, volontà e vitalità che si ottunde fino a sfociare nella noia, nella smania di controllo e nel desiderio di morte. Un uomo che finisce con lo scavalcare sè stesso nell’intento di scavalcare il presente. Allo stesso modo Cronenberg riporta asetticamente sullo schermo il testo di DeLillo negli anni che quello stesso testo preconizzava, con la folle astrazione della finanza, le proteste anticapitalistiche, l’aggiornamento continuo, un centesimo di secondo alla volta, dei dati, delle informazioni, delle misure in cui abbiamo cercato di ridurre il mondo. La realtà ha già messo in scena questo racconto e il film che ne trae Cronenberg, in una discutibile ma plausibile scelta (anti)autoriale, decide di dichiararsi già detto con automatico, vampiresco distacco.
Alfonso Mastrantonio, indie-eye.it



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New York è una città in subbuglio, l’era del capitalismo si avvicina alla conclusione. Eric Packer, un “golden boy” dell’alta finanza, entra in una limousine bianca. Mentre la visita del Presidente degli Stati Uniti paralizza Manhattan, Eric Packer ha un’unica ossessione: farsi tagliare i capelli dal suo barbiere, che si trova dall’altra parte della città. Durante la giornata, il caos esplode e Packer osserva impotente il crollo del suo impero. Inoltre, è sicuro che qualcuno voglia assassinarlo. Quando? Dove? Saranno le 24 ore più importanti della sua vita.
I titoli di testa di Cosmopolis sono come dei quadri di Pollock. L’action painting è fortemente legato alla psicoanalisi, il che fa subito tornare in mente A Dangerous Method. Forse, Cosmopolis è un po’ il suo film gemello, pur essendo tematicamente e contestualmente l’opposto. Lì dove c’era un mondo “antico” levigato e perfetto, qui siamo in piena attualità hi-tech. Però in entrambi i film si parla parecchio: nel primo per forza di cose, nel secondo il fine delle parole è diverso.
Adattando molto fedelmente il freddissimo e discusso romanzo di Don DeLillo, Cronenberg ne riporta la gran parte delle situazioni e dei dialoghi. Il motivo è, per chi ha letto il libro, abbastanza evidente, visto che si tratta di battute volontariamente artificiali, di rara freddezza, stranianti e crude. Che cosa ha fatto, in più, il regista per portare sullo schermo così alla lettera un romanzo già scritto? L’ha ovviamente inserito all’interno della sua poetica, costruendone esteticamente e visivamente tutto l’apparato diegetico.
Un lavoro non da poco, ma che soddisfa pienamente le aspettative. E non parliamo solo della lussuosissima, patinata e tecnologica limousine (che ha pure il gabinetto incorporato), ma soprattutto del “fuori”. New York non è forse mai stata così sporca e pericolosa come in Cosmopolis, anche perché per le strade si è riversata praticamente tutta la popolazione, vista la visita del Presidente degli Stati Uniti, e il traffico è quasi inaffrontabile. Nonostante questo, Eric vuole assolutamente andare dal suo parrucchiere dall’altra parte di Manhattan. Ha ciò che vuole, perché non può avere anche questo?
Eric si chiede cosa potrebbe succedere se un giorno i ratti fossero monetizzabili, quale sia la situazione dello yen, e il vero significato della parola “infiammato”. Eric, vestito in perfetto completo Gucci, vuole insomma avere tutto sotto controllo, e gli piace l’equilibrio. Ecco perché non gliene frega nulla di quello che succede fuori, e se ne sta chiuso nella sua limo, a parlare con la persona di turno (segretarie, collaboratori, ecc.). Cronenberg mette in scena quindi la storia di un uomo che è in chiuso in sé stesso, fa finta di non vedere perché sarebbe la fine. Perché fuori il mondo sta bruciando.
È freddo e distante anche con la moglie, Elise, poetessa di ottima famiglia, ricchissima, e che gli offre di aiutarlo nel momento in cui le confessa di aver perso diversi milioni di dollari (tanti milioni…). Però i due in realtà praticamente non si conoscono (”Da quando hai iniziato a fumare?”, “Da quando avevo 15 anni”), e ad Eric non interessa troppo esserle legato sentimentalmente in modo fedele, anzi. Tra l’altro, dopo ogni sua scappatella, la donna capisce al volo cosa ha fatto (”Odori di sesso”).
Eric non è per nulla turbato, anzi, e non lo è nemmeno dei vari segnali del mondo in rivolta, come ad esempio tutte le persone che tengono dei topi per la coda: li vede prima per strada, attraverso il finestrino della limo, e poi nel diner dove il protagonista sta pranzando con la moglie. Il suo viaggio attraverso la città tuttavia ha solo e soltanto una destinazione, con un confronto finale decisivo…
Esteticamente, Cosmopolis è forse il film di David Cronenberg più vicino a Crash, con alcuni momenti che ricordano eXistenZ. Ma è ancora una volta, dopo A Dangerous Method, un oggetto atipico e “verboso” nella filmografia del regista canadese. Dopo aver scelto Keira Knightley nel film precedente, il regista osa ancora una volta con una scommessa ardita: Robert Pattinson come protagonista. La sfida è forse parzialmente vinta, nonostante il ruolo sia complesso per chiunque, ed alcune espressioni dell’attore lo renderanno facilmente attaccabile. È comunque un Pattinson inedito, nudo, arrogante, che fa sesso e che si fa ispezionare il retto.
Ovviamente intellettuale, fino quasi al “fastidio”, freddissimo e difficilissimo, Cosmopolis è il gemello di A Dangerous Method non solo perché è così verboso che potrebbe annoiare lo spettatore medio (e non solo), ma lo è per come tratta la dicotomia controllo/liberazione, razionalità/istinto. Se la pulizia chirurgica di A Dangerous Method nascondeva sotto la sua superficie tutta la lava e le pulsioni di un mondo che stava cambiando, in Cosmopolis questa turbolenza è già tutta fuori, libera di agire. Chi non se ne accorge è “lo spettro del capitalismo”, di cui Eric è il simulacro.
Se il confronto finale con Benny Levin è girato in modo teatrale (ma bisogna notare la costruzione dello spazio e degli ambienti del film: da puro maestro), è anche vero che a Cronenberg interessa la sostanza della questione: che è decisiva e finale. Che Eric e Benny siano due facce della stessa medaglia è chiaro (hanno pure la prostata asimmetrica entrambi…), ma non ha (più) senso che si completino: non è più possibile. Il viaggio in limo di Cosmopolis dopotutto porta a questo, e non è stato inutile.
Quando Eric sentiva la battuta “Uno spettro sta infestando il mondo”, sorrideva, da buon menefreghista. Chissà: forse non aveva capito come sarebbe andata a finire. O forse sì: ma vivere è molto più doloroso che restare chiusi a pensare dentro ad una macchina o parlare con chiunque degli argomenti più disparati. Non a caso, alla fine, una lacrima gli bagna la guancia. È giusto così. “Destroy the past, make the future”.
Gabriele, cineblog.it



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Se, per usare una formula abusata soprattutto in questi giorni, il romanzo di Don DeLillo è stato "profetico", che David Cronenberg abbia portato al cinema Cosmopolis ora, in questo periodo storico, non fa altro che confermare quanto il canadese continui ad essere un sensibilissimo sismografo dei tempi che viviamo.
È stato lo stesso regista a raccontare la sua sorpresa per il nascere del movimento di Occupy Wall Street proprio mentre lui era sul set di questo suo nuovo film: e rendersi conto dell’attualità di una storia prima ancora che certi fatti accadano dimostra una sensibilità importante.
Ma, essendo l’autore che è, appare piuttosto evidente che a David Cronenberg interessano poco il panorama esteriore e sociale, la metafora della crisi, le analogie economico-finanziarie col presente. Cosmopolis - che tutto questo lo nega allo sguardo quasi costantemente, se non attraverso sprazzi di realtà che si scorgono dai finestrini della limousine - è tutto concentrato sui paesaggi interiori del protagonista: paesaggi vuoti, desertici, dolorosi e malati.
Chiuso in sé stesso e totalmente autoreferenziale, il personaggio di Eric Packer (al quale la fissità espressiva e il tono monocorde di Robert Pattinson sono perfettamente funzionali) si riempie solo di parole, quelle parole incessanti che Cronenberg ha deciso di trasportare intatte dal carta allo schermo, e che comunicano crisi e disagio non tanto per il loro contenuto quanto, più semplicemente, per il loro essere.
Logorroico e raggelato, Cosmopolis è un film di Cronenberg nel quale, ancor di più di quanto abbia fatto con il suo cinema più recente, Cronenberg tenta di essere altro sa sé, o sé stesso. Di rendersi invisibile, di mettere la sordina ai suoi toni più forti. Ma questa volta emerge lo stesso l’eco stilistico di molto suo cinema, dall’asettismo malato di Crash alla scientifica visceralità di Videodrome.
Cosmopolis è un film estenuante, spiazzante, che riesce perfettamente nei suoi intenti evocativi anche laddove non riesce come cinema. È una traduzione letterale del romanzo di De Lillo, una scatola cristallina e trasparente che contiene il vuoto e il suo orrore. Che ti si piazza davanti agli occhi, occupando lo sguardo ma senza occuparlo al tempo stesso.
Tanto consapevole di sé stesso e solipsistico da mettersi spesso i bastoni tra le ruote da solo. Proprio come il suo protagonista.
comingsoon.it



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L’ultramilionario Eric Packer, giovane lupo di Wall Street, si sveglia con l’unica urgenza di aggiustare il proprio taglio di capelli e, a bordo della sua limousine attraversa Manhattan da est a ovest, -non una grande distanza, insomma- in un giorno di tilt urbano dovuto alla visita del Presidente, alle relative manifestazioni e ad un corteo funebre. Il tragitto si trasforma in una simbolica e mortifera odissea dentro le ossessioni e le pulsioni di Eric, diviso tra un desiderio interno di distruzione e una minaccia esterna di aggressione.
Riadattare un romanzo di Don De Lillo è un po’ come sfidare l’andamento dello yuan. Cosmopolis, con il suo paradosso temporale e la sua carica metaforica era davvero poco disponibile a riversarsi sullo schermo. Il potere visionario di David Cronenberg, almeno sulla carta, era l’unica forza in grado di caricarsi sulle spalle una simile sfida.
La limousine-placenta, acusticamente isolata, che scivola lenta nelle strade come un mouse lasciando che l’apocalisse si succeda in una proiezione piatta di eruzioni urbane sugli schermi-finestrini; la riduzione di una società al cancro di speculazioni finanziarie incorporee; la fusione patologica tra reale e virtuale; l’esplosione e il congelamento del tempo e l’oppressivo senso di morte, sembravano elementi perfetti, pronti a combinarsi con il cinema più metafisico e nichilista di Cronenberg. Le attese insomma erano altissime, e come spesso accade, destinate ad infrangersi.
Se la forza visiva del film - il fascino conturbante della limousine che diventa un guscio e una via di accesso alla mente del protagonista - mantiene la presa, almeno nel primo contatto con il film; l’attrattiva viene mano mano inghiottita da un senso di artificio difficile da dissipare.
Ovvio, verrebbe da pensare, la materia è fluida, l’oggetto intangibile. Sarà questo il problema. E invece no. L’occhio di Cronenberg riesce a coglierla e a fermarla come uno stregone. No, il guaio sono i dialoghi, prolissi, sghembi, stratificati in modo caotico. Una prova anche per il più attento degli spettatori. E’ come girare a vuoto intorno al nocciolo della questione, senza mai sviscerarla. Un atteggiamento urticante e snob. La scelta di invadere verbalmente lo schermo, oltre ad essere rischiosa di per sé, imporrebbe poi perlomeno un la convocazione di interprete raffinatissimo, enigmatico, magnetico e anche in questo caso: errore.
Robert Pattinson è sicuramente una decisione insolita e intrigante in termini commerciali e in termini artistici. Ma più che per i meriti dell’attore, in Cosmopolis il suo reclutamento finisce per ridursi ad una decisione visiva. Pattinson è - sempre sulla carta - l’incarnazione della bellezza, della gioventù, della ricchezza, della forza rampante del capitalismo. L’oggetto perfetto da smembrare.
…Sulla carta, appunto.
Ludovica Sanfelice, film.it



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Ipnotiche riflessioni
Non mancano le riflessioni e gli spunti filosofici, disseminati nell'interminabile fluire di parole che costituiscono i dialoghi di Pattinson con l'interlocutore di turno, ma l'autore fa fatica a metterle a fuoco e farle emergere dalla sua complessa costruzione verbale.

Se c'è un regista che in passato ha saputo riflettere sulle inquietudini del mondo, questo è David Cronenberg, riuscendo, almeno nella prima parte della sua carriera, a regalare interessanti spaccati della realtà che lo circondava, della sua tecnologia in evoluzione e del rapporto dell'uomo con essa, delle suggestioni della carne. Un approccio che negli ultimi anni è cambiato: il regista canadese ha realizzato film anche forti ed interessanti, ma più allineabili ad una percezione classica del cinema, affidandosi anche a sceneggiature scritte da altri, mettendosi al servizio di storie più che di intriganti paranoie.
Con Cosmopolis, il suo nuovo lavoro presentato a Cannes 2012, cerca in qualche modo di fondere i due approcci diversi del suo cinema e torna a lavorare anche allo script, adattato a tempo di record (lui stesso ha dichiarato di averlo scritto in soli sei giorni) dall'omonimo romanzo di Don DeLillo.
Sullo sfondo di una New York in preda al subbuglio creato da una visita del Presidente degli Stati Uniti a Manhattan, Eric Parker viaggia sulla sua limousine con l'ossessivo bisogno di un taglio di capelli. Con la situazione sempre più caotica via via che la giornata prosegue, il giovane magnate della finanza sente che qualcuno vuole assassinarlo, ma non sa nè chi, nè come, nè quando, creando un senso di smarrimento che accompagna il crollo del capitalismo che si fa incombente nel mondo che lo circonda.
E' Robert Pattinson ad incarnare il Parker di Cronenberg, interpretandolo con freddo ed asettico distacco, un freddo osservatore che si confronta lungo il suo tragitto con una galleria di personaggi a cui danno il volto Juliette Binoche, Mathieu Amalric, Sarah Gadon ed un Paul Giamatti che vince decisamente il confronto artistico con il suo partner di scena.
L'operazione di Cronenberg riesce in parte: lungi dall'essere un brutto film, Cosmopolis non riesce ad esprimere le idee di Cronenberg sul mondo contemporaneo con la stessa forza che faceva, ad esempio, Videodrome sui nuovi media ai suoi tempi. Non mancano le riflessioni e gli spunti filosofici, disseminati nell'interminabile fluire di parole che costituiscono i dialoghi di Pattinson con l'interlocutore di turno, ma l'autore fa fatica a metterle a fuoco e farle emergere dalla sua complessa costruzione verbale.
Il giovane attore è colonna portante del film, sempre in scena nel suo percorso quotidiano in limousine, centrale in una messa in una scena curata ma essenziale, che si muove ipnotico in orizzontale seguendo il tragitto della lussuosa auto. Per gran parte del tempo, il mondo esterno è rappresentato solo da fugaci immagini che scorrono oltre il finestrino, ma è simbolicamente rappresentato nei dialoghi: il capitalismo in crisi, la smania di potere, la sete di informazioni, la sensazione di fine incombente. C'è forse troppo, ma allo stesso tempo c'è troppo poco in un film che sembra piantare semi che dovranno germogliare nelle menti degli spettatori. E ci vorrà tempo perchè ciò avvenga e solo allora potremo conoscere il vero valore del nuovo lavoro di Cronenberg, quando ne saggeremo la capacità di superare il passare del tempo.
Antonio Cuomo, movieplayer.it



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È sempre piu` chiaro come qualcosa si sia staccato nel cinema di Cronenberg nel finale di eXistenZ, datato 1999, fatidica fine secolo. Ma non ci riferiamo alle lamentele che da 4/5 film a questa parte vengono fatte al cineasta, che “non sarebbe più lo stesso” o avrebbe “perso quel tocco” malato e potentemente disturbante che avevano le sue visioni negli anni '80 e '90.
Non è assolutamente questo il punto: è che la ludica boutade di eXistenZ ha proprio introdotto nella poetica di Cronenberg la concezione di un sardonico svelamento che impone alle immagini e allo spettatore stesso un nuovo raddoppio sulla materia, una distanza che non permette di vedere meglio ma anzi confonde la natura dell’artificio, mischiandolo in una prospettiva più “larga” e volutamente meno a fuoco. Cronenberg, che era stato sino ad allora cineasta cristallino ed esemplare negli enunciati e nelle forme, ha deciso di lasciar perdere, almeno in apparenza, le ossessioni di sempre per chiudersi nei manicomi o in mezzo ai mafiosi russi.
Che cosa è successo? Quella dell'autore ci appare in realtà piuttosto come una presa di coscienza della definitiva impossibilita` di salvarsi, o di salvare qualcuno, qualcosa, il Mondo (ritorna l`ultimo Ferrara in Cosmopolis, quantomeno nell`atto finale con Pattinson e Giamatti unici uomini sulla Terra), facendo un film. Era la disperazione di Jung in A Dangerous Method: la devozione non funziona più, e allora va da sé che Freud adesso sembri un buffone con la barba posticcia e il sigaraccio sempre in bocca, Viggo Mortensen che grugnisce con un ghigno storto fisso in faccia.
Ecco, Cosmopolis in sostanza è tutto in quel dialogo del film precedente di Cronenberg, in cui Jung e Freud litigano per colpa di un rumore di assestamento, imprevisto o prevedibile, della libreria di legno. Buffonesca osmosi del bignami della psicanalisi in gag surreale.
La(s)soluzione: David Cronenberg ha unicamente peggiorato in un barile di bile quel senso tragico e disilluso del grottesco che sottotraccia ne attraversa l`intera filmografia. Questi ultimi suoi film sono commedie (dis)umane in cui ogni cosa, dai dialoghi alla caratterizzazione dei personaggi, è portata all'esasperazione del segno, sino a capovolgerla nella propria stessa parodia. Cronenberg sghignazza, e questa trasposizione di De Lillo è sorprendente soprattutto come punto di non ritorno di questa sua pratica recente.
In questa limousine alla fine del mondo, come quella di Brain tra le macerie di Fuga da New York, personaggi tristi inscenano svogliatamente reading atonali e smorti dei dialoghi del romanzo di partenza, mentre dall`altra parte dei finestrini alla stessa velocità/lentezza di Lee Kang Sheng nel corto di Tsai Ming Liang presentato alla Semaine, Walker, scorrono quelle che sembrano essere le visualizzazioni delle immagini mentali create, di nuovo junghianamente, dai protagonisti.
Le parole messe in bocca da Cronenberg (unico autore della sceneggiatura) a Pattinson e soci sono quasi una messa in ridicolo sarcastica di secoli di questioni universali della storia del pensiero, con vette di straniamento tra Brecht e off-Broadway (soprattutto nel gia` citato frammento finale con Giamatti). L'interesse per i cambi di location tra l`abitacolo dell'auto e appartamenti, ristorantini, negozi di barbieri, parchetti, è minimo: la formula si ripete identica di incontro in incontro. Con una rassegnazione che si è trasformata in una sorta di sputo (di Freud) irridente, Cronenberg ci mostra quello che siamo diventati nonostante i suoi film, o appunto proprio come i suoi film avevano previsto.
David Cronenberg ci prende a torte in faccia, come fa lo strepitoso cameo di Mathieu Amalric spiaccicando un dolce sul volto del bel Pattinson (Amalric qui, come il satiro Cassel in A Dangerous Method, racconta dell`unico modo rimasto di essere sani, ovvero muoversi in maniera irrazionale), e poi ci chiede di andarcene via perché non ci sopporta più: voglio restare solo. Il suo film successivo, ragionevolmente e del tutto comprensibilmente, non potrà che essere uno slapstick.
Sergio Sozzo, sentieriselvaggi.it



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«Cosmopolis», la mano di David Cronenberg porta sugli schermi il libro di Don DeLillo - In una violenza fantascientifica né Pattinson né Binoche esaltano
Chissà se Robert Pattinson riuscirà mai a scrollarsi di dosso il ruolo del bel vampiro di Twilight? Una domanda retorica almeno a vedere la sua performance in quest’ultima fatica del grande David Cronenberg (La Mosca del 1986, Crash del 1996, A History of Violence del 2005, solo per citarne alcuni). A guardare Pattinson si può dedurre che abbia a disposizione due sole espressioni facciali: quella «pensierosa» e quella da «digrigno i denti perché sono arrabbiato», il resto è pura paresi facciale. Per carità, ci sono attori che hanno fatto fortuna grazie alla loro inespressività (qualcuno ha per caso pensato a Richard Gere?) ma Pattinson viene dal successo planetario della saga vampiresca più famosa della storia del cinema e se vuole superare quel personaggio è ora che si decida a sforzarsi un po’ di più nel muovere i muscoli del viso.
Per il resto capiamo perché Cronenberg abbia optato per l’ex vampiro: da un lato quello sguardo da «quasi-bravo-ragazzo» faceva proprio al caso suo e dall’altro non dimentichiamoci che Pattinson rappresenta un «traino» incredibile per le adolescenti di tutto il mondo e visti gli scarsi risultati dei botteghini in quest’epoca di crisi è un aspetto da non sottovalutare (almeno dal punto di vista delle major). Se Pattinson non meraviglia anche Juliette Binoche non ci regala certo la sua migliore performance, in bilico tra lo stucchevole e l’affascinante alla fine prevale la noia… probabilmente non è stata la scelta giusta per una parte come quella in cui avremmo visto qualche attrice un po’ più femme fatale.
Il film però risulta parzialmente interessante se non altro per il tentativo di ricreare fedelmente l’ambientazione cupa e decadente del libro di Don DeLillo anche se la sensazione di guardare un set alternativo di Blade Runner è davvero molto forte. Sarà che siamo un po’ saturi di film di fantascienza futuristici dove la razza umana è oramai una civiltà decadente strozzata da violenza high-tech e ambientazioni dark, così imbastire una trama originale diventa sempre più complicato se non del tutto impossibile. Resta comunque il piacere di rivedere la mano del grande Cronenberg ancora dietro alla cinepresa, capace di regalarci quello sguardo stravagante che tanto lo ha reso famoso nel mondo del cinema. Insomma vale la pena spendere dei soldi per questo Cosmopolis? Dipende: NO se cercate qualcosa di veramente nuovo …dopotutto questo è un film di fantascienza con un alto grado di violenza, con il solito pistolotto sulla decadenza del genere umano e recitato un po’ troppo superficialmente. SI se siete fan sfegatati di Cronenberg: in questo film il regista canadese torna al suo vecchio modo di fare cinema, uno stile unico che è sempre un piacere riscoprire.
Gordon Brasco, umbria24.it



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Arriva l’attesissimo Cosmopolis, ultimo film nato dalla mente di David Cronenberg in collaborazione con Don DeLillo. Infatti il regista de La Mosca si è ispirato proprio al romanzo di DeLillo, portando sulla schermo fedelmente la crisi del capitalismo, quando questa era un utopia, dimostrandosi anticipatore degli eventi attuali.
Il Presidente degli Stati Uniti è in visita a New York, e la città è intasata di traffico. Eric Parker (Robert Pattinson) alto esponente della finanza, giovane miliardario, vuole a tutti i costi farsi “aggiustare il taglio” dal suo barbiere di fiducia, ad Hell’s Kitchen, dall’altro lato della città. Così, pur avendo un brutto presentimento e temendo per la sua vita, entra in una limousine bianca e attraversa lentamente la città immersa nel caos e nei fumi di una rivolta. Durante le 24 ore che impiega per arrivare dal suo barbiere, Eric incontra molti personaggi che discutono con lui dei grandi temi che collegano umanità, tecnologia, denaro, tempo ed economia.
L’ultimo film di Cronenberg deve necessariamente fare i conti con un presupposto: il romanzo di DeLillo era una storia quasi impossibile da trasporre, eppure il film che ne è uscito è esattamente l’essenza del romanzo stesso. Questo però non vuol dire che sia un film riuscito, dal momento che il cinema non parla la lingua della letteratura e viceversa.
Il film, preso come opera a se stante, presenta in realtà molti punti di domanda e momenti di stasi che non ne contribuiscono la visione e non ne facilitano la comprensione sempre tesa a districarsi tra il miscuglio di concetti più o meno filosofici che si espongono trai personaggi. Nessuno dei passanti, in qualche modo partecipanti alla vita di Eric, viene approfondito come merita, lasciando tutto su un grado di superficialità che non ci permette assolutamente di partecipare all’inquietudine del protagonista. Inquietudini tra l’altro tutta detta e per nulla mostrata, nella maschera statica che Pattinson mette su per tutto il film.
Il giovane protagonista della Saga di Twilight si cimenta con un ruolo più grande di lui che, a onor del vero, sarebbe stato difficile da rendere credibile anche per un attore più navigato. Tuttavia sul suo volto sono manifesti la dedizione e l’impegno che Pattinson ha profuso nella sua performance, probabilmente rendendosi conto che per un attore che viene da una serie per teenagers, lavorare con Cronenberg può rappresentare la svolta. Il suo sforzo lo premia nel dialogo finale con Paul Giamatti: nonostante trai due ci sia un divario incolmabile, forse la vicinanza con il grande attore Giamatti ha dato a Pattinson lo stimolo giusto per tirare fuori da sé il meglio.
La sceneggiatura è completamente opera di Cronenberg che come al suo solito sguazza alla grande in paroloni e concetti complicato che si fermano a riflettere sulla natura umana e sulla sua relazione con il mondo in evoluzione. La regia si fregia di interessanti piano sequenza che, non a caso, ci fanno apprezzare l’autore del film e ci ricordano la sua grandezza.
Nel complesso Cosmopolis è un’opera incompiuta, o meglio riuscita solo a metà, che non risulta incisiva come avrebbe potuto essere né tanto meno da libero sfogo alla vena poetica di Cronenberg.
Chiara Guida, cinefilos.it



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Eric Parker (Robert Pattinson), giovane miliardario newyorkese, decrittatore instancabile dei mercati finanziari, che studia dai monitor della sua limousine, non capisce il suo corpo. Per esempio: “ha la prostata asimmetrica”. Per esempio: vuole un nuovo taglio di capelli, ma non sa bene quale. Si fa visitare tutti i giorni da un medico, si fa portare dall’altra parte della città per farsi rasare dal vecchio barbiere di papà. L’ipocondria lo tormenta. I mercati si comportano male. Sua moglie non vuole più fare sesso con lui. Rischia la bancarotta. Qualcuno lo vuole ammazzare. E la città è in agitazione per la visita del presidente: un’enorme parata No-Global intasa il centro di Manhattan.
Cronenberg trasforma una limousine in un’astronave, un salotto al neon in cui Eric/Pattinson attraversa/sorvola l’Apocalisse, in cerca di risposte, di modelli, di rassicurazioni (“voglio comprare una cappella”), incontrando dipendenti, amici, prostitute, amanti. Fondamentalmente è depresso, e questa depressione è assieme causa e conseguenza del tracollo del suo mondo, e forse del mondo tutto; dice “L’omicidio è la logica conseguenza del business”, ma forse pensa al suicidio. È ipocondriaco perché “morire è uno scandalo”, ma sopravvivere con troppa precisione lo ha esaurito. Si spara in una mano, cerca il suo assassino, uccide chi lo protegge. Intanto il denaro muta (cronenberghianamente) in topi, le pistole in giocattoli, ridicole, e l’informazione (lo diceva pure Martin Amis) in veleno. Quel che vorremmo ci salvasse, metterà fine a tutto.
Tratto da uno dei romanzi più folli e meno amati di Don DeLillo, Cosmopolis officia il matrimonio tra David Cronenbergh e il nuovo millennio, l’Eta dei tecnocrati e di ogni Crisi possibile (tra cui alcune del tutto nuove, inventate ad hoc), affamata del progresso che la sta consumando. Come se l’autore canadese volesse rimettersi in pari con la Storia dopo le metafore di A History of Violence e La Promessa dell’Assassino, e l’autoanalisi di A Dangerous Method. Lo strumento della sua ricerca è Robert Pattinson, cioè il caso limite del divismo contemporaneo, tanto inespressivo/inadeguato quanto desiderato, riprodotto, venerato. Non poteva scegliere meglio: R-Pattz ha un volto che buca lo schermo, una fissità che lo corrode, ed è il corpo-simbolo di questi anni dissanguati. Chi lo vuole guardare, qui ne godrà fino a impazzire.
Giorgio Viaro, bestmovie.it



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Cosmopolis è davvero surreale. Adesso possiamo dirlo, visto che lo abbiamo visto in anteprima. Surreale e reale nello stesso tempo. A partire dalla scelta della ‘location’ dove ambientare l’intera pellicola (teatrale in questo senso), la limousine dell’uomo d’affari protagonista, che è per lui luogo di lavoro, di ‘cura’, e soprattutto casa (con bagno annesso) e simbolo del suo potere. Attorno a questo mondo supertecnologico e ‘ovattato’ (la macchina procede lenta mentre fuori infiammano le proteste anarchiche e pseudo attentati) tutti i personaggi di Cosmopolis vengono chiamati a raccolta da Erik che una mattina esce di casa per andarsi a tagliare i capelli, perchè farlo dal suo barbiere di fiducia è ‘un rito’ e non può farlo venire direttamente nella sua auto (come invece fa col medico che ogni giorno gli fa un check up). Questo il motore dell’azione in un film che procede a ritmo serrato, mai lento, dove accade l’inverosimile, quello che non ti aspetti mai, come le lezioni sul cyber capitalismo che premia i pochi, ricchissimi, per lasciare indietro i tantissimi poveri (distruggere il passato per creare il futuro: è questo il capitalismo ‘creativo’), oppure una vera e propria visita (con ispezione..) alla prostata del protagonista, oppure ancora rapporti sessuali (con una fantastica Juliette Binoche).
A rendere potente il ritmo è anche soprattutto il tono scelto, quello della farsa, che è presente nei dialoghi, sapientemente costruiti da Cronenberg rimasto fedele al romanzo di Don de Lillo da cui è tratta la pellicola (parola dello scrittore!), dove nulla è lasciato al caso, sebbene in realtà tutto sembra procedere senza spiegazione e logica. Sta infatti in questa contraddizione la particolarità della pellicola, esaltata da una recitazione lontana dall’essere ‘razionale’. Come ha spiegato lo stesso Pattinson: “Cronenberg voleva che io cercassi qualcosa di inspiegabile. Gli piaceva quando recitavo senza sapere quello che stavo facendo, tanto che, non appena sentiva che stavo trovando un legame di causa ed effetto, lui smetteva di girare”. È questa la chiave della pellicola, che ci trasporta attraverso le vie (che in realtà vediamo pochissimo) di New York, facendoci calare nel percorso, così reale, verso il delirio e il caos nella vita del protagonista.
Insomma Cronenberg è riuscito nell’impresa, difficile, di adattare per il grande schermo un autore per tanti versi molto cinematografico. E questo grazie non solo alla sceneggiatura, ma anche alle performance degli attori, da Robert Pattinson, calato perfettamente nei panni del gelido e giovane miliardario protagonista, a Paul Giamatti in totale ‘delirio’, a Sarah Gadon, ‘algida’ moglie del protagonista.
vivacinema.it
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